11 03 07
Dove sono i pacifisti?
L’appello di Veltroni a manifestare contro le
stragi di Gheddafi ha una ragione e un torto.
Quando la politica abituale non sa più come
limitare una violenza bellica che le sfugge di mano,
invoca i pacifisti: «Dove sono i pacifisti?». Come se essi
fossero la ruota di scorta di culture e di partiti che
pensano, preparano, finanziano e usano la guerra come
parte inseparabile dalla politica, e poi, quando il sangue
è troppo, danno la colpa non alla propria politica, ma a
chi non ha fatto abbastanza per fermarli. Non sarà,
magari, che voi non avete ascoltato e capito per tempo?
Chi ha venduto armi in grande abbondanza (tra
tanti altri dittatori) a Gheddafi? Solamente il governo
del suo compare Berlusconi?
Chi, già nel congresso del Pci del 1986, fece
orecchio da mercante all’appello di fare della pace, del
ripudio delle strutture di guerra, la punta politica di
quel partito?
Chi, da sinistra. irrise, negli anni ’90,
agli obiettori di coscienza alle spese militari, con leali
trattenute fiscali pagate care, perché erano solo poche
migliaia?
Chi non ebbe occhi per vedere e mente per
capire la resistenza nonviolenta guidata da Ibrahim Rugova
al dominio serbo e alla riduzione dei diritti della
popolazione albanese del Kossovo, e si accorse del
problema soltanto quando servì per fare la “guerra
umanitaria”, che aumentò le vittime? Fu questa tutta
l’intelligenza delle politiche correnti, di destra ma
anche di sinistra, nella quale ci fu, in Italia, chi disse
che «per dimostrare di saper governare bisogna anche
dimostrare di saper fare la guerra».
I movimenti per la pace c’erano, la cultura
della nonviolenza attiva e positiva c’era, studiava,
educava, pubblicava, parlava, agiva, ma i politici,
attaccati al vecchio realismo, la relegavano nei cieli
dell’utopia. Anche davanti alle guerre di secessione e di
pulizia etnica in Jugoslavia, il cui inizio fu permesso e
utilizzato dalle politiche statali europee e persino ben
visto dal Vaticano, quando fuoco e sangue furono troppi,
si miagolava: «Dove sono i pacifisti?». I pacifisti – per
meglio dire, i nonviolenti - c’erano, andarono (più
numerosi dei volontari nella guerra di Spagna) a
testimoniare e riconciliare, a servire le popolazioni
sotto tiro, e diversi di loro ci persero la vita.
La cultura nonviolenta ha elaborato e
proposto linee concrete alternative a tutte le nuove
guerre, cieco alimento al terrorismo, nel ventennio a
cavallo dei due millenni. Ma anche governi e partiti
democratici le giustificarono e vi collaborarono, e
continuano a sostenere la guerra afghana.
Tuttavia, i metodi nonviolenti di difesa e
affermazione dei diritti si sono diffusi negli stessi
decenni, e hanno dimostrato di essere più efficaci e meno
costosi delle rivoluzioni e resistenze violente.
L’esperienza promossa da Gandhi è conosciuta e seguita più
oggi che nel Novecento, anche in queste rivoluzioni arabe,
molto indicative delle potenzialità pacifiche e
democratiche della cultura islamica, sebbene siano vicende
ancora aperte. Non lo scontro di civiltà, ma il dialogo
tra le culture è fermento di giustizia e libertà.
Il caso libico è particolarmente tragico per
la durezza del regime di Gheddafi. Aiutare i rivoltosi con
le armi? Dare soccorso umanitario internazionale?
Accogliere i profughi? Adire al Tribunale penale
internazionale?
Le politiche degli stati, coi tanti mezzi di
cui dispongono, sono state prese di sorpresa e rivelano
incertezze dovute anche ai precedenti compromessi con le
dittature. I movimenti nonviolenti, coi loro pochi mezzi,
hanno più chiaro il giudizio ma necessariamente più lenta
la mobilitazione. La sollecitazione di Veltroni è giusta
in sé, ma non è giusto giudicare inerte quella cultura che
da sempre diffonde nei popoli la coscienza dei diritti
umani insieme alla scelta della forza nonviolenta per
affermarli: l’unità, la resistenza, il coraggio, la
disobbedienza all’ingiustizia. È urgente che la cultura
della pace nonviolenta prema nella politica interna e
internazionale perché la forte solidarietà tra i popoli
aiuti ciascuno di questi a liberarsi dall’ingiustizia coi
mezzi della giustizia.
Enrico Peyretti, 7 marzo 2011