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07 Dove sono i pacifisti?
L’appello di Veltroni a manifestare contro le stragi
di Gheddafi ha una ragione e un torto.
Quando la politica abituale non sa più come limitare
una violenza bellica che le sfugge di mano, invoca i pacifisti: «Dove sono i
pacifisti?». Come se essi fossero la ruota di scorta di culture e di partiti
che pensano, preparano, finanziano e usano la guerra come parte inseparabile
dalla politica, e poi, quando il sangue è troppo, danno la colpa non alla
propria politica, ma a chi non ha fatto abbastanza per fermarli. Non sarà,
magari, che voi non avete ascoltato e capito per tempo?
Chi ha venduto armi in grande abbondanza (tra tanti
altri dittatori) a Gheddafi? Solamente il governo del suo compare
Berlusconi?
Chi, già nel congresso del Pci del 1986, fece
orecchio da mercante all’appello di fare della pace, del ripudio delle
strutture di guerra, la punta politica di quel partito?
Chi, da sinistra. irrise, negli anni ’90, agli
obiettori di coscienza alle spese militari, con leali trattenute fiscali
pagate care, perché erano solo poche migliaia?
Chi non ebbe occhi per vedere e mente per capire la
resistenza nonviolenta guidata da Ibrahim Rugova al dominio serbo e alla
riduzione dei diritti della popolazione albanese del Kossovo, e si accorse del
problema soltanto quando servì per fare la “guerra umanitaria”, che aumentò le
vittime? Fu questa tutta l’intelligenza delle politiche correnti, di destra ma
anche di sinistra, nella quale ci fu, in Italia, chi disse che «per dimostrare
di saper governare bisogna anche dimostrare di saper fare la
guerra».
I movimenti per la pace c’erano, la cultura della
nonviolenza attiva e positiva c’era, studiava, educava, pubblicava, parlava,
agiva, ma i politici, attaccati al vecchio realismo, la relegavano nei cieli
dell’utopia. Anche davanti alle guerre di secessione e di pulizia etnica in
Jugoslavia, il cui inizio fu permesso e utilizzato dalle politiche statali
europee e persino ben visto dal Vaticano, quando fuoco e sangue furono troppi,
si miagolava: «Dove sono i pacifisti?». I pacifisti – per meglio dire, i
nonviolenti - c’erano, andarono (più numerosi dei volontari nella guerra di
Spagna) a testimoniare e riconciliare, a servire le popolazioni sotto tiro, e
diversi di loro ci persero la vita.
La cultura nonviolenta ha elaborato e proposto linee
concrete alternative a tutte le nuove guerre, cieco alimento al terrorismo,
nel ventennio a cavallo dei due millenni. Ma anche governi e partiti
democratici le giustificarono e vi collaborarono, e continuano a sostenere la
guerra afghana.
Tuttavia, i metodi nonviolenti di difesa e
affermazione dei diritti si sono diffusi negli stessi decenni, e hanno
dimostrato di essere più efficaci e meno costosi delle rivoluzioni e
resistenze violente. L’esperienza promossa da Gandhi è conosciuta e seguita
più oggi che nel Novecento, anche in queste rivoluzioni arabe, molto
indicative delle potenzialità pacifiche e democratiche della cultura islamica,
sebbene siano vicende ancora aperte. Non lo scontro di civiltà, ma il dialogo
tra le culture è fermento di giustizia e libertà.
Il caso libico è particolarmente tragico per la
durezza del regime di Gheddafi. Aiutare i rivoltosi con le armi? Dare soccorso
umanitario internazionale? Accogliere i profughi? Adire al Tribunale penale
internazionale?
Le politiche degli stati, coi tanti mezzi di cui
dispongono, sono state prese di sorpresa e rivelano incertezze dovute anche ai
precedenti compromessi con le dittature. I movimenti nonviolenti, coi loro
pochi mezzi, hanno più chiaro il giudizio ma necessariamente più lenta la
mobilitazione. La sollecitazione di Veltroni è giusta in sé, ma non è giusto
giudicare inerte quella cultura che da sempre diffonde nei popoli la coscienza
dei diritti umani insieme alla scelta della forza nonviolenta per affermarli:
l’unità, la resistenza, il coraggio, la disobbedienza all’ingiustizia. È
urgente che la cultura della pace nonviolenta prema nella politica interna e
internazionale perché la forte solidarietà tra i popoli aiuti ciascuno di
questi a liberarsi dall’ingiustizia coi mezzi della giustizia.
Enrico Peyretti, 7 marzo 2011