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03 07 Dove sono i pacifisti?
L’appello di Veltroni a manifestare contro le
stragi di Gheddafi ha una ragione e un torto.
Quando la politica abituale non sa più come
limitare una violenza bellica che le sfugge di mano, invoca i pacifisti:
«Dove sono i pacifisti?». Come se essi fossero la ruota di scorta di culture
e di partiti che pensano, preparano, finanziano e usano la guerra come parte
inseparabile dalla politica, e poi, quando il sangue è troppo, danno la
colpa non alla propria politica, ma a chi non ha fatto abbastanza per
fermarli. Non sarà, magari, che voi non avete ascoltato e capito per
tempo?
Chi ha venduto armi in grande abbondanza (tra
tanti altri dittatori) a Gheddafi? Solamente il governo del suo compare
Berlusconi?
Chi, già nel congresso del Pci del 1986, fece
orecchio da mercante all’appello di fare della pace, del ripudio delle
strutture di guerra, la punta politica di quel partito?
Chi, da sinistra. irrise, negli anni ’90, agli
obiettori di coscienza alle spese militari, con leali trattenute fiscali
pagate care, perché erano solo poche migliaia?
Chi non ebbe occhi per vedere e mente per capire
la resistenza nonviolenta guidata da Ibrahim Rugova al dominio serbo e alla
riduzione dei diritti della popolazione albanese del Kossovo, e si accorse
del problema soltanto quando servì per fare la “guerra umanitaria”, che
aumentò le vittime? Fu questa tutta l’intelligenza delle politiche correnti,
di destra ma anche di sinistra, nella quale ci fu, in Italia, chi disse che
«per dimostrare di saper governare bisogna anche dimostrare di saper fare la
guerra».
I movimenti per la pace c’erano, la cultura della
nonviolenza attiva e positiva c’era, studiava, educava, pubblicava, parlava,
agiva, ma i politici, attaccati al vecchio realismo, la relegavano nei cieli
dell’utopia. Anche davanti alle guerre di secessione e di pulizia etnica in
Jugoslavia, il cui inizio fu permesso e utilizzato dalle politiche statali
europee e persino ben visto dal Vaticano, quando fuoco e sangue furono
troppi, si miagolava: «Dove sono i pacifisti?». I pacifisti – per meglio
dire, i nonviolenti - c’erano, andarono (più numerosi dei volontari nella
guerra di Spagna) a testimoniare e riconciliare, a servire le popolazioni
sotto tiro, e diversi di loro ci persero la vita.
La cultura nonviolenta ha elaborato e proposto
linee concrete alternative a tutte le nuove guerre, cieco alimento al
terrorismo, nel ventennio a cavallo dei due millenni. Ma anche governi e
partiti democratici le giustificarono e vi collaborarono, e continuano a
sostenere la guerra afghana.
Tuttavia, i metodi nonviolenti di difesa e
affermazione dei diritti si sono diffusi negli stessi decenni, e hanno
dimostrato di essere più efficaci e meno costosi delle rivoluzioni e
resistenze violente. L’esperienza promossa da Gandhi è conosciuta e seguita
più oggi che nel Novecento, anche in queste rivoluzioni arabe, molto
indicative delle potenzialità pacifiche e democratiche della cultura
islamica, sebbene siano vicende ancora aperte. Non lo scontro di civiltà, ma
il dialogo tra le culture è fermento di giustizia e libertà.
Il caso libico è particolarmente tragico per la
durezza del regime di Gheddafi. Aiutare i rivoltosi con le armi? Dare
soccorso umanitario internazionale? Accogliere i profughi? Adire al
Tribunale penale internazionale?
Le politiche degli stati, coi tanti mezzi di cui
dispongono, sono state prese di sorpresa e rivelano incertezze dovute anche
ai precedenti compromessi con le dittature. I movimenti nonviolenti, coi
loro pochi mezzi, hanno più chiaro il giudizio ma necessariamente più lenta
la mobilitazione. La sollecitazione di Veltroni è giusta in sé, ma non è
giusto giudicare inerte quella cultura che da sempre diffonde nei popoli la
coscienza dei diritti umani insieme alla scelta della forza nonviolenta per
affermarli: l’unità, la resistenza, il coraggio, la disobbedienza
all’ingiustizia. È urgente che la cultura della pace nonviolenta prema nella
politica interna e internazionale perché la forte solidarietà tra i popoli
aiuti ciascuno di questi a liberarsi dall’ingiustizia coi mezzi della
giustizia.
Enrico Peyretti, 7 marzo 2011