Re: [pace] Re: [nonviolenti] DOVE SONO I PACIFISTI ?



Giro la mail di Sullo ricevuta su altra lista, che penso sia un utile contributo alla riflessione.
ettore

-------- Original Message --------
Subject: [actionforpeace] I libici sono soli
Date: Mon, 7 Mar 2011 14:41:40 +0100
From: Pierluigi Sullo <sullo at carta.org>
Reply-To: actionforpeace at yahoogroups.com
To: actionforpeace at yahoogroups.com


 

Care e cari, scusate la molestia ma sentivo la necessità urgente di far qualcosa: quel che so fare (forse) è scrivere, quindi ho scritto, e messo nel sito di Democrazia chilometro zero (www.democraziakmzero.org), un mio testo sull'indifferenza sostanziale con cui sinistre, movimenti, pacifisti, ecc. - e i loro mezzi di comunicazione - guardano ai ribelli libici e al massacro che Gheddafi sta compiendo. Trovo tutto questo scandaloso. Ditemi, se avrete la pazienza di leggere, cosa ne pensate e, se siete d'accordo, fate girare il testo in tutte le liste cui siete iscritti. Lo stesso farò io. Vi allego l'articolo e lo metto anche qui nel messaggio.
Grazie
Pierluigi Sullo

I libici sono soli

di Pierluigi Sullo

In questi giorni mi domando con crescente angoscia: perché sinistre, movimenti, sindacati, centri sociali, pacifisti e società civile variamente attiva sembrano più che altro indifferenti a quel che sta avvenendo in Libia? Nel paese nostro dirimpettaio, sul Mediterraneo, un dittatore al potere da più di quaranta anni sta macellando il suo popolo e qui nessuno o quasi sembra turbato.

Non dico convocare una manifestazione di sostegno ai rivoluzionari libici (così loro chiedono di essere chiamati, proprio come i tunisini e gli egiziani) e per fermare il massacro, ma un appello, una indignazione diffusa, articoli di fuoco su giornali e siti di sinistra o dei vari movimenti. Io stesso ho partecipato al primo sit in davanti all’ambasciata di Gheddafi a Roma, intorno al 20 di febbraio: c’era qualche libico che vive qui, qualcuno dei centri sociali, di Rifondazione e della Fiom. Una parte del discorso di Nichi Vendola, nel meeting di qualche domenica fa, era dedicata alla ribellione e al dittatore libico, citato come tale. Poi, quasi più nulla. E quando, domenica 6 marzo, nel Tg3 serale, ho visto Walter Veltroni invocare un mobilitazione a favore del popolo libico, per la prima volta in molti anni ho pensato «ha ragione».

Frequento, un po’ per professione e un po’ per vizio, molti «mezzi di comunicazione» di sinistra o di movimenti vari, e sono stupefatto della sostanziale assenza di reazione. Certo, il manifesto pubblica ogni giorno reportage e commenti, ha anche un inviato (sebbene «embedded» come lui stesso si definisce) a Tripoli. Ma il giornale che sta a cuore a tutti noi e che continua a influenzare l’opinione di sinistra, o almeno a rappresentarne una parte rilevante, sembra finito in una «no fly zone», in una terra morta tra la rievocazione un po’ disperata di quel che fu, ossia delle rivoluzioni militar-progressiste e socialiste nei paesi arabi, e l’allarme per il possibile intervento militare degli occidentali e degli Stati uniti. La vecchia logica per la quale chi è amico del mio nemico è mio nemico sembra irresistibile.

Nel sito di «Mémoires des luttes», la rivista francese che fa capo a Ignacio Ramonet e a Bernard Cassen, che non si può dire non guardino con simpatia ai governi «progressisti» latinoamericani, e a quello di Chavez in particolare, si può trovare un articolo di Bernard Perrin, pubblicato in origine sul sito del quotidiano indipendente svizzero Le Courrier, che giudica uno «stupefacente e inquietante parallelismo» quello tra l’inquietudine di molti governi europei di fronte alla possibilità che Gheddafi venga rovesciato dal suo popolo, e la paura, che si è impadronita dei governi di sinistra dell’America latina, di veder cadere «un compagno rivoluzionario». Infatti, aggiungo io, Chavez ha proposto una mediazione che è piaciuta solo a uno degli agenti in gioco: Gheddafi. Ma anche il governo del boliviano Evo Morales non scherza. Quel che vedono, questi governanti, è solo il tentativo occidentale di accaparrarsi il petrolio libico.

«Finché la sinistra disprezzerà la questione del rispetto dei diritti dell’uomo, considererà che la realpolitik possa giustificare tutto e confonderà la lotta anti-imperialista con la lotta a morte delle élites burocratiche – scrive Perrin citando Hervé do Alto, politologo francese legato all’edizione boliviana di Le Monde diplomatique – non ci potremo aspettare niente di buono da essa». E, sempre citato da Perrin, aggiunge Raul Zibechi, giornalista e scrittore uruguayano: «Bisogna guardare l’orrore in faccia: talvolta la sinistra non ha voluto vedere né sentire né capire le sofferenze della gente in basso, sacrificata sull’altare della rivoluzione. Ma questa volta non potremo dire che non sapevamo».

Sconcertato dall’atteggiamento del manifesto, sono andato allora a vedere cosa ne scrive Liberazione, il quotidiano di Rifondazione. Nel cui sito si trovano poche e scarne notizie, quasi tutte di carattere diplomatico-internazionale. Potrei sbagliare - non vedo con continuità il giornale diretto da Dino Greco - ma se avessero promosso un appello, una chiamata alla solidarietà con i libici, questo sul sito ci sarebbe certamente.

E allora Global Project, il sito dei centri sociali del nord est: molto ben fatto e pronto a reagire, in genere. Ci trovo solo un articolo, scritto da Giampaolo Calchi Novati per il manifesto, in cui si parla di «impropria alleanza tra giovani ed eserciti», in Tunisia ed Egitto, e ci si preoccupa soprattutto – di nuovo – che gli Stati uniti possano mettere le mani sul petrolio libico. Degli insorti, i ragazzi, gli artigiani, le persone comuni che si stanno difendendo dai mercenari e dai fedeli di Gheddafi, nemmeno una parola. Ma nel sito di Global si trovano anche testi e discorsi video di un seminario in più puntate sul «tumulto», sulla rivolta cioè, che si tiene a Roma. Datato 28 febbraio, c’è un testo di Alberto Do, per altri versi interessante, in cui si parla diffusamente di Tunisia ed Egitto: sulla Libia nemmeno una parola, benché la rivolta sia iniziata il 17 febbraio.

La mia impressione è che la rivoluzione dipende. Se le vie di Tunisi o Piazza Tahrir al Cairo si riempiono di gente che vuole abbattere tiranni esplicitamente amici dell’Occidente, come Ben Ali e Mubarak, allora si inneggia alla ribellione (e Valentino Parlato, per stabilire la differenza tra un dittatore e un altro, scrive che l’«amicizia» tra Gheddafi e Berlusconi è stata «un errore» del dittatore libico); se invece il tiranno è percepito come un avversario degli occidentali, allora la ribellione diventa dubbia. E siccome a tutte le evidenze dubbia non è, anzi è autenticamente popolare, come testimoniano tutti i giornalisti che hanno potuto incontrarne i protagonisti, e sicuramente non è una manovra di Al Qaeda (come strilla il tragico clown di Tripoli), e non è neppure una longa manus dell’imperialismo statunitense, allora i ribelli di Bengasi e compagni cadono in un limbo: non si può sostenerli né parlarne male, quindi si preferisce evitare il tema e ci si rifugia in considerazioni geopolitiche, geostrategiche, geoqualcosaltro. Come dice Zibechi, le sofferenze della gente reale spariscono. E d’altra parte i libici resistono con le armi – quelle che hanno recuperato grazie alle diserzioni nell’esercito - quindi anche i pacifisti, evidentemente, non provano simpatia, anche se la non violenza non consiste semplicemente nel lasciarsi fucilare dai tiranni.

E sì che le rivoluzioni arabe, non solo del Maghreb ma della penisola arabica e dell’Iraq, avrebbero molto da insegnarci. Ignacio Ramonet ha indicato quelle che secondo lui sono le diverse cause di una esplosione imprevista e intimamente democratica. Ci sono cause storiche, scrive Ramonet, ossia la degenerazione di regimi nati come «laici» o addirittura «socialisti» (quello algerino, ad esempio). Ci sono cause politiche, come il fatto che le dittature sono state sostenute dall’occidente in nome della lotta al «terrorismo islamico» e della diga all’invasione di migranti (come Gheddafi, che faceva il lavoro sporco per l’Italia e ora agita la minaccia una «invasione»). C’è la crisi economica globale, che lì colpisce più che altrove. C’è - a sorpresa, per una visione di sinistra - una causa ambientale: la siccità provocata dalla crisi climatica che due anni fa ha ridotto di un terzo la produzione di grano in Russia, la conseguente chiusura delle esportazioni e l’impennata del prezzo degli alimenti di base sui mercati internazionali, che – avverte in questi giorni anche la Fao – sta scuotendo tutte le società del Sud del mondo. E c’è, infine, una causa sociale: il contrasto durissimo tra livelli di scolarizzazione molto alti e livelli di occupazione bassissimi e di bassa qualità, in paesi molto giovani.

Di questo varrebbe la pena discutere. Guardando a quel che succede dall’altra parte del Mediterraneo come a una speranza. Le finte democrazie egiziana e tunisina (e noi italiani di finta democrazia ne abbiamo in abbondanza) non avrebbero consentito cambi sostanziali del modo di vita e della partecipazione democratica. Non parliamo della dittatura «verde» di Gheddafi. Quindi quelle società sono esplose. Hanno mostrato come si possa – in modo pacifico, fin quando non si incontra un tiranno omicida – cambiare le cose. Perciò dovremmo in ogni modo possibile sostenere le persone che l’aviazione di Gheddafi bombarda e i suoi sicari ammazzano per le strade. Perciò mi chiedo, io che insieme a tanti altri reggevo lo striscione della manifestazione contro la guerra in Iraq, il 13 febbraio del 2003, dietro al quale si erano radunate tre milioni di persone, che fine abbia fatto quella aspirazione alla pace e alla democrazia. Per tutti. Libici compresi.

In ogni modo, per quel che serve, allego il link alla pagina di Twitter che i rivoluzionari libici hanno aperto per far circolare anche le loro informazioni: http://twitter.com/LibyanTNC



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On 07/03/2011 12:08, tiziano cardosi wrote:
caro Enrico teniamo ben la mente sveglia e gli occhi aperti: Veltroni attacca i pacifisti che non ci sono per preparare la guerra.
Credo dobbiamo anche vedere bene le contraddizioni che si agitano nel nostro paese, compreso il movimento contro la guerra:
  • i "pacifisti" sono ancora storditi dall'implosione del movimento dopo che il passato governo Prodi ci ha fatto vedere di tutto, anche la Folgore come "miglior vetrina dell'Italia"
  • qualcuno a sinistra vede ancora personaggi come il rais di Tripoli un "antimperialista"
  • altri confondono qualunque rivolta con movimenti di liberazione; in Libia parrebbe proprio che un movimento spontaneo rischi di essere intercettato da faide tra clan portando tutto verso una guerra civile invece che verso un movimento di liberazione
  • il PD, che è più filoamericano del PDL, tira la volata alla NATO per un intervento armato contro Gheddafi
  • USA e soprattutto UK si stanno fregando le mani perché, con la guerra, finalmente possono mettere fuori gioco ENI e prendere il petrolio libico per conto della BP
  • Veltroni, sposando la causa della guerra, conferma una visione geopolitica in cui l'Italia deve essere una ruota di scorta di USA e NATO e perdere la poca autonomia di politica energetica che rimane
  • le rivolte, che sono naturalmente nonviolente quando condotte da popolazioni che hanno come fine la liberazione dall'oppressione, sono giuste e tali restano se non entrano in giochi di lotta per il potere o per la spartizione di risorse (come parrebbe degenerare in Libia)
  • se un movimento pacifista volesse dire qualcosa a Veltroni potrebbe proporre di appoggiare i movimenti di liberazione libici, favorire il controllo delle risorse da parte dei Libici, non da clan o caste politiche e tanto meno da multinazionali straniere come pure è la nostra ENI
  • insomma bisogna porsi chiaramente dalla parte degli oppressi (Libici, Egiziani o Tunisini) sapendoli ben distinguere da chi vuol cambiare solo il loro padrone
Altrimenti rischiamo solo di essere servi sciocchi. Veltroni e quelli come lui non sono sciocchi, sono in malafade.
Un saluto
TC

Il 07/03/2011 10:53, Enrico Peyretti ha scritto:

11 03 07 Dove sono i pacifisti?

 

    L’appello di Veltroni a manifestare contro le stragi di Gheddafi ha una ragione e un torto.

    Quando la politica abituale non sa più come limitare una violenza bellica che le sfugge di mano, invoca i pacifisti: «Dove sono i pacifisti?». Come se essi fossero la ruota di scorta di culture e di partiti che pensano, preparano, finanziano e usano la guerra come parte inseparabile dalla politica, e poi, quando il sangue è troppo, danno la colpa non alla propria politica, ma a chi non ha fatto abbastanza per fermarli. Non sarà, magari, che voi non avete ascoltato e capito per tempo?

    Chi ha venduto armi in grande abbondanza (tra tanti altri dittatori) a Gheddafi? Solamente il governo del suo compare Berlusconi?

    Chi, già nel congresso del Pci del 1986, fece orecchio da mercante all’appello di fare della pace, del ripudio delle strutture di guerra, la punta politica di quel partito?

    Chi, da sinistra. irrise, negli anni ’90, agli obiettori di coscienza alle spese militari, con leali trattenute fiscali pagate care, perché erano solo poche migliaia?

    Chi non ebbe occhi per vedere e mente per capire la resistenza nonviolenta guidata da Ibrahim Rugova al dominio serbo e alla riduzione dei diritti della popolazione albanese del Kossovo, e si accorse del problema soltanto quando servì per fare la “guerra umanitaria”, che aumentò le vittime? Fu questa tutta l’intelligenza delle politiche correnti, di destra ma anche di sinistra, nella quale ci fu, in Italia, chi disse che «per dimostrare di saper governare bisogna anche dimostrare di saper fare la guerra».

    I movimenti per la pace c’erano, la cultura della nonviolenza attiva e positiva c’era, studiava, educava, pubblicava, parlava, agiva, ma i politici, attaccati al vecchio realismo, la relegavano nei cieli dell’utopia. Anche davanti alle guerre di secessione e di pulizia etnica in Jugoslavia, il cui inizio fu permesso e utilizzato dalle politiche statali europee e persino ben visto dal Vaticano, quando fuoco e sangue furono troppi, si miagolava: «Dove sono i pacifisti?». I pacifisti – per meglio dire, i nonviolenti - c’erano, andarono (più numerosi dei volontari nella guerra di Spagna) a testimoniare e riconciliare, a servire le popolazioni sotto tiro, e diversi di loro ci persero la vita.

    La cultura nonviolenta ha elaborato e proposto linee concrete alternative a tutte le nuove guerre, cieco alimento al terrorismo, nel ventennio a cavallo dei due millenni. Ma anche governi e partiti democratici le giustificarono e vi collaborarono, e continuano a sostenere la guerra afghana.

    Tuttavia, i metodi nonviolenti di difesa e affermazione dei diritti si sono diffusi negli stessi decenni, e hanno dimostrato di essere più efficaci e meno costosi delle rivoluzioni e resistenze violente. L’esperienza promossa da Gandhi è conosciuta e seguita più oggi che nel Novecento, anche in queste rivoluzioni arabe, molto indicative delle potenzialità pacifiche e democratiche della cultura islamica, sebbene siano vicende ancora aperte. Non lo scontro di civiltà, ma il dialogo tra le culture è fermento di giustizia e libertà.

    Il caso libico è particolarmente tragico per la durezza del regime di Gheddafi. Aiutare i rivoltosi con le armi? Dare soccorso umanitario internazionale? Accogliere i profughi? Adire al Tribunale penale internazionale?

    Le politiche degli stati, coi tanti mezzi di cui dispongono, sono state prese di sorpresa e rivelano incertezze dovute anche ai precedenti compromessi con le dittature. I movimenti nonviolenti, coi loro pochi mezzi, hanno più chiaro il giudizio ma necessariamente più lenta la mobilitazione. La sollecitazione di Veltroni è giusta in sé, ma non è giusto giudicare inerte quella cultura che da sempre diffonde nei popoli la coscienza dei diritti umani insieme alla scelta della forza nonviolenta per affermarli: l’unità, la resistenza, il coraggio, la disobbedienza all’ingiustizia. È urgente che la cultura della pace nonviolenta prema nella politica interna e internazionale perché la forte solidarietà tra i popoli aiuti ciascuno di questi a liberarsi dall’ingiustizia coi mezzi della giustizia.

    Enrico Peyretti, 7 marzo 2011

 

----- Original Message -----
Sent: Saturday, March 05, 2011 10:37 PM
Subject: [ml beati] Libia. Politica e non guerra aiuta la libertà.

Cento anni fa la guerra di Libia. Che non ci sia la seconda. E' la politica e non la guerra che aiuta la libertà.
Enrico Peyretti, Torino
 
Lettera a Il Manifesto di Marinella Correggia, pubblicata domenica 5 Marzo 2011.

Libia, un silenzio assordante

"Se si creera' un ampio movimento di opinione a favore della proposta di Chavez
per evitare una guerra della Nato in Libia, prima e non dopo che si compia l'
intervento bellico, le possibilita' che l' iniziativa abbia successo
aumenteranno, cosi' ha scritto ieri Fidel Castro aggiungendo che "non doveva
ripetersi un altro Iraq ". Sembra rivolgersi anche ai popoli. E non e' l' unico
ad appoggiare l' iniziativa di Chavez - ora a quanto pare accettata anche dalla
Libia - per una missione internazionale nel paese. Si sono pronunciati i paesi
latinoamericani aderenti all' Alternativa bolivariana para las Americas (Alba) e
altri. E il Congresso bolivariano de los pueblos - vedi il sito
www.alianzabolivariana.org - sottolinea come le accuse di genocidio rivolte alla
Libia,"senza prove " e con molta disinformazione da parte dei network,
provengono "dai paesi responsabili dei peggiori genocidi negli ultimi cent' anni
".
Cosa aspettano i movimenti per la pace a schierarsi contro l' ennesima guerra
"umanitaria" e relativa propaganda ? E a favore della proposta latinoamericana ?
Per ora il silenzio e' il piu' assordante dell' ultimo...ventennio: Iraq 1991,
Kosovo 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003...




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