30 giorni x 30 articoli: articoli 27-28



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Cari amici,
oggi 9 dicembre 2008 vi inviamo gli articoli 27 e 28 della Dichiarazione Universale dei diritti Umani che sono stati letti nel corso di questo lungo fine settimana; nel corso della giornata vi invieremo anche il 29 e 30.

Cordialmente

Ufficio Stampa Tavola della pace
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Oggi, domenica 7 dicembre 2008, leggiamo insieme il ventottesimo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Articolo 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

“Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”.


Segue il commento del prof. Antonio Papisca.

“E’ il diritto umano alla pace: pace interna e pace internazionale, pace nella giustizia (opus iustitiae pax). La giustizia è quella dei diritti umani, cioè è anche giustizia sociale ed economica. La pace proclamata dall’Articolo 28 è, per seguire Norberto Bobbio, pace positiva, intesa come la costruzione di un sistema di istituzioni, di relazioni e di politiche di cooperazione all’insegna di: “se vuoi la pace, prepara la pace”. Il contrario della pace negativa, cioè della mera assenza di guerre guerreggiate, come parentesi tra una guerra e la successiva, da vivere preparandosi alla prossima guerra potenziando gli arsenali militari e coltivando sentimenti nazionalistici a difesa dell’interesse nazionale, da perseguire ovunque nel mondo e con ogni strumento, compresa appunto la guerra.
In questa ottica di pace negativa ha vissuto il mondo nei secoli passati. Finchè è sopraggiunta nel 1945 la Carta delle Nazioni Unite la quale ha innovato, anzi rivoluzionato quel vecchio Diritto internazionale che, assumendo il principio di sovranità degli stati a suo fondamento, ne legittimava i due attributi principali: il diritto di fare la guerra (ius ad bellum) e il diritto di fare la pace (ius ad pacem), messi sullo stesso piano, alla mercè della convenienza e della forza degli stati più potenti. Nel corso dei secoli, l’esercizio del diritto di far la guerra ha di gran lunga prevalso sull’esercizio del diritto di fare la pace.
Il ‘nuovo’ Diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite definisce la guerra come ‘flagello’, la ripudia e la interdice. L’uso della forza militare, per fini diversi da quelli tipici della guerra, dunque per fini di giustizia (difendere la vita delle popolazioni, salvaguardare l’ambiente e le infrastrutture vitali, acciuffare i presunti criminali e consegnarli ai tribunali internazionali, ecc.) è avocato all’ONU quale autorità sopranazionale, deputata a gestire il sistema di sicurezza internazionale.
A conferma che la guerra è interdetta dal vigente Diritto internazionale c’è l’Articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 che perentoriamente prescrive: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalle legge”.
La Carta delle Nazioni Unite è coerente: la guerra è vietata e gli stati sono obbligati a far funzionare il sistema di sicurezza collettiva, anche per prevenire il ricorso all’Articolo 51 della Carta il quale, a titolo di eccezione rigorosamente circostanziata, prevede che gli stati possano usare lo strumento militare per respingere un attacco armato con l’obbligo però di immediatamente informare il Consiglio di Sicurezza perché metta la situazione sotto la propria autorità e controllo.
Ma la Carta, a quasi sette decenni dalla sua entrata in vigore, rimane inattuata per le parti più delicate: gli stati hanno l’obbligo di conferire parte delle loro forze militari, in via permanente, alle Nazioni Unite, ma finora nessuo di essi ha adempiuto a tale obbligo. Sicchè l’ONU, nei casi di necessità, deve chiedere agli stati che le facciano l’elemosina di gruppetti di Caschi Blu, con tutti i ritardi, le impreparazioni e altri tipi di inadeguatezze che non poche ‘missioni di pace delle Nazioni Unite’ hanno mostrato.
A partire dal 1948, cioè poco dopo l’entrata in campo delle Nazioni Unite, il mondo venne a trovarsi in regime bipolare, cioè di guerra fredda o di equilibrio del terrore, a causa della contrapposizione ideologica, politica e strategica dei due Blocchi capeggiati rispettivamente da Stati Uniti e Unione Sovietica, con sfrenata corsa al riarmo sia convenzionale sia nucleare. Non c’è stata una guerra mondiale, le guerre sono state esportate nei paesi del sud del mondo. Per le questioni di pace e sicurezza rimaneva poco spazio all’ONU nella sua funzione di autorità sopranazionale. Nel 1989 crollano i Muri, finisce l’epoca del bipolarismo, si respira un’aria nuova, ha fine il tempo dell’esilio dell’ONU. Il Consiglio di Sicurezza commissiona a Boutros-Boutros Ghali, Segretario Generale delle Nazioni Unite,  il famoso Rapporto “Un’Agenda per la Pace”, in cui l’energico Segretario Generale delle Nazioni Unite mette gli stati di fronte al muro delle loro responsabilità dicendo: non avete più alibi per non far funzionare l’Organizzazione delle Nazioni Unite nel delicato campo della pace e della sicurezza internazionale. La risposta è di tutt’altro segno. Boutros Ghali non sarà rieletto a causa del veto opposto dagli Usa. Il Presidente Bush senior, parla della necessità di un “nuovo ordine mondiale”, al cui interno avrebbero dovuto riprendere vigore i principi del vecchio Diritto internazionale esaltante la sovranità degli stati, con relativi muscoli armati, e le Nazioni Unite avrebbero dovuto accontentarsi di un ruolo ancillare. Una concezione di ordine mondiale diametralmente opposta a quella contenuta nella Carta delle Nazioni Unite e nell’Articolo 28 della Dichiarazione universale.
La delusione è grande. Il criminale dittatore dell’Iraq Saddam Hussein offre l’occasione per iniziare il decennio delle guerre guerreggiate. La superpotenza ne approfitta nel tentativo di riappropriarsi di quel diritto di fare la guerra che la Carta delle Nazioni Unite ha, dal punto di vista giuridico, cancellato una volta per tutte. Il terrorismo internazionale, nelle sue varie forme e matrici, atterrisce, uccide, prolifica. Si arriva alla seconda guerra del Golfo, teorizzata, propagandata e messa in pratica dalla superpotenza come “guerra preventiva” in flagrante violazione del vigente Diritto internazionale.
Nel frattempo, entrano in funzione prima i Tribunali internazionali speciali (per la ex Jugoslavia e per il Rwanda, 1993 e 1994), poi la Corte Penale Internazionale permanente (1998),  paladina del principio di universalità della giustizia penale internazionale. Le guerre continuano, sono illegali, non portano alla vittoria, si alimenta il terrorismo, si pratica la tortura in guanti più o meno bianchi, si restringono le libertà fondamentali con i ”Patriot Act”. Da ultimo, il mondo subisce il tracollo dell’economia mondiale basata sul neoliberismo e sulle speculazioni finanziarie in un contesto di rinnovata corsa al riarmo.
Più che mai, occorre agire perché il diritto umano delle persone e dei popoli alla pace sia rispettato secondo un’Agenda politica che esalti il primato della legalità dei diritti umani (la forza della legge) sulla richiamo della foresta della Realpolitik (la legge della forza).
Con tutta l’attenzione che merita, rileggiamo l’Articolo 11 della Costituzione Italiana, che è in perfetta sintonia col Diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite e sulla Dichiarazione universale: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internaizonali rivolte a tale scopo”.
Questo Articolo risulta oggi rafforzato sia dall’alto che dal basso: dall’alto, in virtù del Diritto internazionale quale si è venuto sviluppando a partire dal 1948;  dal basso, in virtù della norma “pace diritti umani” che è stata inclusa, a partire dal 1988, in numerose Leggi regionali (prima fra tutte quella del Veneto) e, a partire dal 1991, nei nuovi Statuti di migliaia di Comuni e Province. Questa norma recita, nel suo testo standard:
"Il Comune …, in conformità ai principi costituzionali e alle norme internazionali che riconoscono i diritti innati delle persone umane, sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli - Carta delle Nazioni Unite, Dichiarazione universale dei diritti umani, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia - riconosce nella pace un diritto fondamentale delle persone e dei popoli.
A tal fine il Comune promuove la cultura della pace e dei diritti umani mediante iniziative culturali e di ricerca, di educazione, di cooperazione e di informazione che tendono a fare del Comune una terra di pace.
Il Comune assumerà iniziative dirette e favorirà quelle di istituzioni culturali e scolastiche, associazioni, gruppi di volontariato e di cooperazione internazionale".

Per un esempio, vale la pena di citare l’Articolo 2 dello Statuto del Comune di Vicenza:
“1. Il Comune, in conformità ai principi costituzionali ed alle norme internazionali che riconoscono i diritti innati delle persone umane, sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli, riconosce nella pace un diritto fondamentale della persona e dei popoli.
2. A tal fine il Comune promuove una cultura della pace e dei diritti umani mediante iniziative culturali e di ricerca, di educazione e di informazione, e con il sostegno alle associazioni che promuovono la solidarietà con le persone e con le popolazioni più povere.
3. Il Comune promuove l'inserimento degli immigrati e dei rifugiati politici nella comunità locale rimuovendo gli ostacoli che impediscono alle persone dimoranti nel territorio comunale di utilizzare i servizi essenziali offerti ai cittadini.
4. Il Comune, con riferimento alla "Dichiarazione universale dei diritti umani" approvata dall'ONU, riconosce il valore della vita umana e promuove ogni iniziativa di concreta solidarietà  verso ogni persona indipendentemente dalle sue condizioni fisiche, psichiche, economiche e sociali, dalle sue convinzioni politiche e religiose, dalla sua razza e dalla sua età”.

L’Articolo 5 dello Statuto della Provincia di Catanzaro:
“1. La Provincia di Catanzaro, in conformità ai principi costituzionali e alle norme internazionali che tutelano i diritti delle persone e sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli, riconosce nella pace un diritto fondamentale delle persone e dei popoli.
2. La Provincia promuove la cultura della pace e dei diritti umani e dichiara il proprio territorio terra di pace, ispirandosi alle garanzie della Carta delle Nazioni Unite, alla dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, al Patto Internazionale sui diritti civili e politici, alla Convenzione Internazionale sui diritti dell'infanzia”.

L’Articolo 1 della legge regionale del Piemonte “Interventi regionali per la promozione di una cultura ed educazione di pace, per la cooperazione e la solidarietà internazionale”:
 “1. La Regione Piemonte in coerenza con le norme, le dichiarazioni internazionali e i principi costituzionali, che sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, riconosce la pace come diritto fondamentale dei popoli e condizione irrinunciabile per il progresso civile, sociale ed economico.
2.  In attuazione di tali principi, anche ai sensi degli articoli 2 e 4 dello Statuto, la Regione interviene al fine di favorire il radicamento nella comunità piemontese della cultura di pace e dei suoi presupposti quali le libertà democratiche, i diritti umani, la non violenza, la solidarietà, la cooperazione internazionale e l’educazione allo sviluppo sostenibile.
3.   La Regione promuove iniziative sul territorio regionale nonché, nel rispetto dei limiti posti dalle leggi dello Stato, dei rapporti internazionali e ai sensi della legge 26 febbraio 1987, n. 49, sostiene, promuove e realizza interventi di aiuto e cooperazione con i Paesi in Via si Sviluppo (PVS) e Paesi dell’Europa Centrale e Orientale (PECO), anche in relazione ad eventi eccezionali causati da conflitti armati o calamità naturali.
4.   Le iniziative si ispirano ai principi sanciti e dettati dalle Nazioni Unite e alle risoluzioni delle conferenze internazionali sulla pace, la cooperazione e lo sviluppo evitando comunque interventi che possano essere utilizzati, direttamente o indirettamente, per attività di carattere militare”.

Il diritto alla pace, come diritto umano fondamentale, è ovviamente molto impegnativo per gli Stati e per quelle culture che ne esaltano gli attributi per così dire muscolosi della sovranità statual-nazionale. Se alla persona e ai popoli è riconosciuto il diritto alla pace, come diritto fondamentale, ne consegue che agli stati è automaticamente sottratto il diritto di far la guerra e viene loro imposto il dovere di far la pace. In latino suona molto bene: officium pacis invece di ius ad bellum. D’altronde la stessa Carta delle Nazioni Unite, con l’Articolo 4, stabilisce che possono diventare membri dell’ONU quegli Stati che sono “amanti della pace” (peace-loving States): si pensi allo scandalo dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che sono ai primi posti della classifica dei paesi produttori ed esportatori di armi … L’Italia, non-membro permanente, non è da meno.
Qual è il contenuto dell’obbligo degli Stati di costruire la pace positiva? A titolo indicativo: impegnarsi, con determinazione, per far funzionare le Nazioni Unite e le altre legittime istituzioni multilaterali; impegnarsi perché l’Unione Europea, con una sola voce, faccia la scelta preferenziale delle Nazioni Unite per democratizzarle e potenziarle; disarmare; educare al rispetto dei diritti umani e formare il personale militare per le funzioni di pace positiva; istituire il Servizio civile di pace (con pertinenti Corpi civili di pace) in conformità con la Raccomandazione del Parlamento Europeo del 10 febbraio 1999 “sull’istituzione di un corpo civile di pace europeo”; non ospitare bombe atomiche (si viola il Trattato sulla non-proliferazione nucleare); non ospitare basi militari straniere, in particolare quelle il cui uso è contrario alla Carta delle Nazioni Unite e al vigente Diritto internazionale; denunciare i trattati (o comunque le intese, anche informali) riguardanti basi militari, in contrasto con l’Articolo 11 della Costituzione e con il Diritto internazionale dei diritti umani; destinare più fondi alla cooperazione internazionale per lo sviluppo; non intralciare le attività di cooperazione e solidarietà internazionale di Comuni, Province e Regioni; togliere il termine “guerra” dalla denominazione (con adeguamento dei contenuti formativi) delle Scuole militari di Civitavecchia e di Firenze in ottemperanza con quanto dispone il citato Articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ratificato dall’Italia nel 1977. Ne ripetiamo il testo, repetita iuvant: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”.”



30 giorni x 30 articoli.
Verso il 10 dicembre 2008: leggiamo insieme ogni giorno un articolo
della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

Art. 27
"Contro l'omologazione"
La Tavola della pace rinnova l'appello ai direttori dei TG della RAI:
bastano pochi secondi al giorno nei TG



Oggi, sabato 6 dicembre 2008, leggiamo insieme il ventisettesimo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

"1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.
2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore".


Segue il commento del prof. Antonio Papisca.

"Quanto dispone l'Articolo 27 è infatti all'insegna della libera fruizione del bello e della creatività in tutti campi, dalla letteratura e dalla poesia alla scienza e a tutte le forme artistiche.
La dimensione umanistica che pervade il diritto e il sapere dei diritti umani trova qui esplicito riconoscimento ed incentivo. C'è il respiro dell'umanesimo integrale, che tonifica la persona nel suo tendere al benessere fisico e psichico.
Il sapere dei diritti umani è, in quanto tale, il sapere del bello, perché è il sapere degli universali che pone al centro l'immenso valore della dignità della persona segnata dalla ragione e dalla coscienza.
La creatività culturale, artistica, scientifica non è fine a se stessa. Essa è in funzione della ricerca della verità nelle sue varie forme. E poiché la verità rende liberi, quello della creatività umana è un percorso di conquista e fruizione di tutte le libertà fondamentali.
Nella congerie di malattie, povertà estrema, violenze, disoccupazione e precarietà del lavoro, corsa al riarmo, inquinamento e distruzione dell'ambiente naturale che, in tutte le parti del mondo, angosciano la vita quotidiana di centinaia e centinaia di milioni di "membri della famiglia umana", è anche per me difficile procedere sul filo della bellezza e della creatività culturale, artistica e scientifica.
Ma l'inno al bello, alla creatività e alla crescita culturale, come l'inno alle libertà "da" e "per", è la denuncia più forte che si possa fare delle privazioni e delle umiliazioni cui sono sottoposti tanti esseri umani e le loro famiglie.
Con questa premessa, cercherò comunque di procedere nella sintetica interpretazione dell'Articolo 27. Nell'Articolo in questione si parla di cultura, di arte, di scienza, di partecipazione alla vita culturale e artistica, nonché ai "benefici" (non agli orrori, si badi bene) della scienza.
Cultura e vita culturale hanno ovviamente un significato molto ampio e le definizioni sono innumerevoli. Sociologi, antropologi e filosofi da sempre sono impegnati su questo terreno. La cultura è da intendere non come una statica icona, ma dinamicamente, come un processo che si modifica, evolve o anche involve. Questa dinamica è fatta di credenze, simboli, norme, riti, abitudini, comportamenti che variano a seconda dei luoghi in cui le comunità umane - possiamo anche dire: le 'articolazioni' sociali della 'famiglia umana' - hanno costruito e vivono le loro specifiche storie.
Poesia, arti visive, musica, scienza sono tra quei beni, immateriali nella loro essenza, che più si fruiscono più si moltiplicano. Fa parte della cultura, anzi del patrimonio culturale, non soltanto tutto ciò che ha il sigillo ufficiale dell'UNESCO come "patrimonio dell'umanità" (World heritage), ma anche altri elementi della produzione culturale (letteraria, artistica, scientifica) che contribuiscono a fare identità e segnano la storia delle comunità umane.

Oggi, nel mondo globalizzato al positivo e al negativo, la vita dei popoli, dei gruppi, delle famiglie, degli individui, "interdipende". L'interdipendenza planetaria è squilibrata, ci sono popoli e gruppi che, più che interdipendere, dipendono. I territori, anche quelli che per secoli sono stati caratterizzati da mono-culture nazionali, si multi-culturalizzano.
Il campo è aperto per ricercare insieme e condividere un paradigma di valori universali. E' il campo privilegiato, tipicamente, dalle attività dell'Unesco intese a elucidare concetti e costruirvi sopra accordi internazionali e programmi di cooperazione. Giova ricordare qualche punto della sua Costituzione: "poiché le guerre nascono nelle menti degli uomini, è nelle menti degli uomini che devono essere costruite le difese della pace"; "la reciproca ignoranza di storie e modi di vivere è stata causa comune, nella storia dell'umanità, di quel sospetto e di quella mancanza di fiducia tra i popoli che hanno fatto sì che le differenze siano spesso sfociate nella guerra"; "la più ampia diffusione della cultura e l'educazione dell'umanità per la giustizia, la libertà e la pace sono indispensabili alla dignità della persona e costituiscono sacro dovere al quale tutte le nazioni devono adempiere in uno spirito di reciproca assistenza e impegno".
L'Unesco è, per sua originaria vocazione, assertrice di interculturalità. La sua Conferenza generale ha adottato il 20 ottobre 2005 (con i soli voti contrari di Usa e Israele) la Convenzione "sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali", entrata in vigore il 18 marzo 2007, grazie anche alla rapidità con cui tutti gli stati membri dell'UE l'hanno ratificata.
Gli assunti da cui parte la Convenzione sono così riassumibili: la diversità delle culture è patrimonio comune dell'umanità e deve essere custodita a beneficio di tutti; l'interazione e la creatività nutrono e rinnovano le espressioni culturali; attività, beni e servizi culturali, poiché servono a trasmettere identità, valori e significati non devono essere trattati come aventi un valore soltanto commerciale.
Ci si domanda se tutte le culture abbiano diritto di reclamare il rispetto e la garanzia internazionale. Nella Convenzione citata, l'Unesco fissa dei paletti nella forma di "principi-guida". Il primo di questi riguarda il rispetto dei diritti umani: "La diversità culturale può essere protetta e promossa soltanto se i diritti umani e le libertà fondamentali, quali la libertà di espressione, di informazione e di comunicazione, così come la capacità degli individui di scegliere le espressioni culturali, sono garantiti. Nessuno può invocare le disposizioni di questa Convenzione allo scopo di violare i diritti umani e le libertà fondamentali quali sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o garantiti dal diritto internazionale".
Quella cultura che alberghi nel suo seno, e insista nel perpetuare, principi che siano in contrasto con quanto prescrive il Diritto internazionale dei diritti umani in forma di divieti assoluti (discriminazione uomo-donna, discriminazione razziale, esaltazione della guerra, ecc.), non è legittimata a rivendicare il rispetto della sua identità. Certamente, non saranno i bombardamenti e le occupazioni territoriali gli strumenti né legittimi, né efficaci, per favorire la graduale trasformazione di quella cultura.
La omologazione culturale è la peggiore nemica della cultura come ricchezza "liberamente" conquistata e sviluppata. Omologazione significa distruzione di identità, impoverimento del patrimonio culturale, ostacolo alla creatività culturale e artistica. Se deliberatamente perseguita, è marcata dal segno dell'egemonismo di questo o quello stato, di questa o quella centrale di potere economico, finanziario, tecnologico, va nella direzione opposta a quella prescritta dalla citata Convenzione dell'Unesco. Il nazionalismo è, allo stesso tempo, omologazione ed esclusione.
Le scoperte e le creazioni della scienza e dell'arte non devono restare confinate dentro sfere elitarie e impermeabili, poiché esse costituiscono dono alla comunità per l'arricchimento culturale e sprituale di tutti, senza che ciò costituisca sottrazione di titolarità e di merito a chi li ha prodotti (copy rights, brevetti).
In virtù del Diritto internazionale dei diritti umani gli Stati hanno l'obbligo di rendere possibile non soltanto la fruizione di beni culturali, artistici e scientifici esistenti, ma anche la creazione di nuovi mediante incentivi alla ricerca e alla produzione artistica.
L'Articolo 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali stabilisce puntualmente al riguardo: "2. Le misure che gli Stati parti del presente Patto prenderanno per conseguire la piena attuazione di questo diritto comprenderanno quelle necessarie per il mantenimento, lo sviluppo e la diffusione della scienza e della cultura".
La scienza e le arti devono essere libere. Coerentemente con questo assunto, il terzo comma del citato Articolo obbliga gli Stati "a rispettare la libertà indispensabile per la ricerca scientifica e l'attività creativa".
La scienza e le arti possono fare molto per la causa dei diritti umani. Si pensi alla ricerca nel campo della medicina o in quello della difesa dell'ambiente naturale. Si pensi a certi brani musicali che hanno ispirato e ispirano movimenti sociali di promozione umana. Le arti sono potenti strumenti di comunicazione, di identificazione spirituale, sociale e politica, di dialogo interculturale. Costituiscono codici ricchi di simboli comunicativi. Si può prendere come esempio la musica perchè è la più impalpabile, la più spirituale, forse la più universale (se possibile) delle arti, e allo stesso tempo la più materialmente codificata: il 'pentagramma' è un esperanto ante litteram, di universale conoscenza e fruizione. Si pensi a cosa significa suonare insieme o cantare insieme per il rispetto di un medesimo codice di regole e per la pratica della socializzazione. Un'orchestra o un coro polifonico sono dei paradigmi di "unità nella diversità".
Si può parlare di etica anche per la scienza e le arti? Una possibile risposta sta nell'Articolo 1.2 dello Statuto che l'Università di Padova, fondata nel 1222, ha rinnovato nel 1995: "L'Università degli Studi di Padova, in conformità ai principi della Costituzione della Repubblica Italiana e della propria tradizione che data dal 1222 ed è riassunta nel motto "Universa Universis Patavina Libertas", afferma il proprio carattere pluralistico e la propria indipendenza da ogni condizionamento e discriminazione di carattere ideologico, religioso, politico o economico. Essa promuove l'elaborazione di una cultura fondata su valori universali quali i diritti umani, la pace, la salvaguardia dell'ambiente e la solidarietà internazionale".

Antonio Papisca
Cattedra UNESCO "Diritti umani, democrazia e pace" presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell'Università di Padova (
antonino.papisca at unipd.it).

Tutte le attività promosse in vista del 10 dicembre sono pubblicate sul sito: www.perlapace.it.

Perugia, 6 dicembre 2008

Ufficio Stampa Tavola della pace
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