Una spiegazione e una difesa (non solo mia) nella discussione sull'Afghanistan



17 luglio 2006

Enrico Peyretti

Una spiegazione e una difesa (non solo mia),

nella discussione interna al movimento per la pace sull’Afghanistan,

dopo l’assemblea del 15 luglio

 

    Devo ancora delle spiegazioni, e devo difendermi, nella discussione, in cui mi sono impegnato, interna al movimento per la pace sul rinnovo della spedizione militare in Afghanistan.

    Ho creduto di dover adottare la posizione positivamente paziente, rappresentata autorevolmente da Lidia Menapace, e in ciò ho ricevuto vari consensi altrettanto significativi e autorevoli, che in parte ho fatto conoscere. Ho ricevuto anche critiche dure, che rispetto: per esempio, tra altri, da parte di Peppe Sini, meritorio operatore di cultura, e da parte di un singolo Giovanni (senza cognome) che sembra parlare per tutto il Centro Gandhi di Pisa.

    Ho letto la mozione conclusiva dell’assemblea autoconvocata del 15 luglio (oggi in rete). Potrei sottoscriverla interamente, se potessi non tenere conto del quadro più generale, perché soltanto in esso può collocarsi una politica di pace progressiva. A quell’assemblea ho mandato un intervento scritto il 12 luglio.

    Se mi si perdona un riferimento personale, posso dire che da decenni (anche grazie all’età e ai grandi maestri incontrati), penso dico e scrivo in libri e in centinaia di articoli le stesse cose dette in quella mozione. Ho anche presentato ripetutamente le istanze del movimento per la pace, oltre che per le vie collettive e pubbliche anche in via personale, in modo corretto, a diversi operatori della politica, grazie alla conoscenza o amicizia allacciata fin dalla gioventù nelle organizzazioni universitarie nazionali. Neppure così ho ricevuto risposte proprio positive, ma non desisto.

    Vorrei avere torto nella posizione che ho preso sulla questione Afghanistan. Come ho detto fin dall’inizio della discussione, posso sbagliare e dovermi convincere del contrario (come tutti, del resto). Come alcuni dei principali interlocutori, ho fatto anch’io dei cambiamenti parziali, come è naturale e giusto in chi cerca di pensare e non ripetersi fisso. Eppure, portato piuttosto per carattere alla timidezza e incertezza davanti agli argomenti altrui, ho sentito abbastanza chiaramente di dovere presentare argomenti e ragionamenti differenti, non nei princìpi ma nelle conclusioni pratiche, dai “senatori obiettori” e dell’assemblea del 15 luglio. Non li riporto ora tutti qui, ovviamente (forse li raccoglierò in un dossier in rete).

    In sintesi: mentre dobbiamo sempre «dire la verità al potere» (Gandhi), dobbiamo altrettanto tener conto di quanto potere abbiamo per realizzare la verità della giustizia e della pace: se la realizziamo almeno in parte facciamo bene, se non la realizziamo per nulla e solo la proclamiamo intera, senza mediazioni, diciamo bene, ma non facciamo bene.

    Mi pare di avere mostrato attraverso alcuni esempi storici e altri paradossali, nei miei interventi del 30 giugno, del 1°, 5, 7, 8, 12, 14 luglio, che nelle decisioni operative, a differenza dell’affermazione pura di ciò che è giusto, sono necessarie e giuste le mediazioni. Il giusto compromesso gandhiano, per realizzare il possibile, è un passo nella verità.

    E questo l’ho detto col pieno rispetto per le coscienze dei senatori obiettori – che ho anche difeso, per esempio, dalla ironia ingiusta di Michele Serra (3 luglio) – insieme alla discussione sugli effetti pratici prevedibili e negativi del voto contrario da loro annunciato. Dico che sbaglia molto Adriano Sofri a qualificare semplicemente come “sciocchzze” (titolo di Repubblica di oggi) quelle dei pacifisti critici del governo. Altrettanto difendo ora i politici mediatori (appello Martone, Menapace e altri, circolato il 13 luglio) dalle accuse sbrigativamente pesanti, che sento ingiuste, di alcuni come i corrispondenti citati all’inizio.

    Sono stato anche accusato da un amico di far valere il governo Prodi più della vita degli afghani. Perdono quell’amico, perché constato su di me come la polemica può trascinare a qualcosa che non si vuole (e chiedo di essere perdonato per tutte le volte in cui vi sono caduto).

    Realizzare vuol dire introdurre pazientemente nella realtà. Pazientare attivamente non è rassegnarsi né accontentarsi. Mediare non è svendere, ma promuovere.

    La cultura della pace riuscirà solo a proclamare principi giustissimi senza cominciare a realizzarli, cioè a introdurli nella politica e nella storia effettiva, che resteranno immutate, cioè belliche e omicide, fino a quando quella cultura pacifica nonviolenta non saprà articolare il proprio contributo tra i due piani distinti e non separati, che sono:

    a) l'obiettivo intero (l'abolizione della guerra e dei suoi strumenti, la difesa popolare nonviolenta, la gestione civile nonviolenta dei conflitti coi Corpi civili di pace); 

    b) i passi prossimi parziali e progressivi nelle condizioni limitate della politica pratica.

    Perciò oggi sono importanti due cose: 

    a) ricordare che il principale lavoro profondo e continuo è culturale-educativo, fino a modificare l’attuale cultura politica generale, da destra a sinistra, con la presa di coscienza chiara e definitiva che o l'umanità abolisce ormai l'organizzazione istituzionale della violenza, o questa abolisce l'umanità;

    b) rinnovare le proposte precise e minime, sintetiche e iniziali, presentate all'Unione il 20 dicembre 2005 (che riportavo testualmente nell’intervento del 6 luglio), e messe in rete dai movimenti di più lunga tradizione, Movimento Internazionale della Riconciliazione, e Movimento Nonviolento.

    A queste condizioni, il profondo giusto moto umano popolare per la pace attiva potrà diventare politica, forza rappresentativa, anche numericamente, di volontà democratiche capaci di incidere nelle istituzioni e nelle decisioni. Altrimenti, il movimento per la pace e la nonviolenza resterà un grido velleitario, giusto e generoso ma frustrato, per la ghignante soddisfazione dei signori della guerra, e per la disperazione del popolo numeroso che in esso ha confidato.    

    Così resterà fino a quando, alle preziose necessarie elaborazioni culturali, morali, storiche, sociologiche, psicologiche, educative, eccetera, non aggiungerà la proposta politica, che significa anche mediazione politica (ho fatto tante volte l’esempio del transarmo verso il disarmo). Escludere la mediazione, come fa la mozione del 15 luglio, è escludere la politica, cioè la realizzazione.

    Proposta e mediazione politica impongono, se vogliamo davvero una realizzazione politica della pace e della nonviolenza nella democrazia, di tener conto dei numeri effettivi nel panorama politico presente. In base a questa semplice necessaria considerazione, è parso evidente - a me come a tante persone davvero più di me serie, competenti, responsabili - che la maggioranza dell’Unione oggi va preservata e non abbattuta, proprio per garantire, nonostante gravi carenze sulla pace al suo interno, la sola oggi possibile progressiva politica di pace.

    Il rinnovo temporaneo della spedizione in Afghanistan, se politicamente indirizzato davvero alla sua riduzione e alla sua fine, mentre nuovi atti di guerra raggelano e insanguinano il mondo, è una condizione amara per impedire che prenda il potere un’altra maggioranza e una politica che troppo bene conosciamo, non impegnata a fermare la guerra, ancor meno dell’attuale restia a fare la guerra ed anzi più interessata a farla, a servizio del bellicismo Usa.

    Amici rigorosi tirano staffilate sul viso e sull’anima di loro amici, accusando niente meno che di essere assassini complici di assassini quanti pensano come ho detto, mentre invece soffriamo nel limite angoscioso di una decisione non pura, parziale, interlocutoria, che vediamo necessaria per procedere. Credetelo, amici severissimi, non siete solo voi che sentite l’orrore del potere che dà la morte, non solo voi lavorate per uscirne!

    Se poi (anche questo è detto e ridetto) i senatori obiettori, e l’assemblea del 15 luglio, sanno quello che fanno, se sanno di potere spostare una maggioranza che si deve preservare (come bene diceva all’inizio, il 29 giugno, anche Peppe Sini: due cose sono entrambe da salvare, l’uscita dalla guerra, e la maggioranza con cui abbiamo sventato l’illegalità berlusconiana e l’assalto alla Costituzione), se questo piano è realistico e responsabile, avranno ragione loro, e sarò cordialmente con loro, perché quello è il mio desiderio più profondo.

    Ma se, come dicono troppi da quella parte, la maggioranza precedente e l’attuale valgono lo stesso e sono entrambe nostre nemiche, allora proprio non sanno quello che fanno.

Enrico Peyretti , 17 luglio 2006