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da  www.cosinrete.it



MURI E CANCELLI



Partendo dalle discussioni sulle periferie italiane, innescate dai delitti di Rozzano, Beppe Severgnini, nel "Corriere della Sera" del 28 agosto 2003, ci parla dell’Italia normale, da lui "intravista, viaggiando quest’estate…"

Scrive: "…Avverto subito: non è successo niente. 

Né aggressioni né sparatorie; nessuna violenza, neppure una rissa. 

E' un'Italia dove ho visto cancelli a non finire: non chiudevano un carcere, però. 

Un'Italia tempestata di cattivo gusto: eppure non stavo in Costa Smeralda. 

Un'Italia di muri aggressivi; ma non parleremo delle schifezze che qualcuno s'ostina a chiamare "graffiti". 

Parleremo del Grande recinto italiano. 

Della successione di cancellate inutili, dei muretti non indispensabili, delle reti inspiegabili, delle barricate di lauro cupo, delle lunghe pareti che sembrano uscite da un quadro di Sironi. 

Il paesaggio italiano è violentemente antropizzato, come dicono quelli che non vogliono usare la parola "manomesso". 

La nostra è una terra difficile che abbiamo tentato di rendere più facile. 

Il primo passo, di solito, è stato ritagliarcene un pezzetto.

Talvolta le costruzioni sono ingenue, come quelle che racchiudono campi vuoti: giusto le prove d'una nazione diffidente. 

Ma, spesso, mostrano protervia. 

Ci sono, in giro per l'Italia, recinzioni che gridano vendetta al cielo (che purtroppo è clemente, e non interviene. Deve avere un debole per geometri e architetti). 

La privacy non c'entra. 

La colpa di tanti obbrobri è il (cattivo) gusto del possesso. 

Capisco le ansie di tanti imprenditori, cui non importa che il capannone atterrato nella campagna come un astronave sia bello: basta sia utile, e protetto. 

Conosco i fittavoli che abitano quella "sequenza narcotica di camere vegetali" che è la pianura padana, secondo Guido Piovene. 

So che possono essere comprensivi, lungimiranti, perfino poetici: ma non quando discutono un confine. 

In questo caso esce il personaggio di opinioni categoriche che sogna pertiche, ragiona coi metro e litiga per centimetri; l'uomo antico che alza un muro, sorveglia un argine, e taglia la pianta dei vicino che, a sentir lui, dà ombra al raccolto. 

Dall'esterno s'aspetta sfide e accetta sconfitte; ma nel suo regno chiuso da filari di pioppi o da una cornice di fossi pretende ordine e affidabilità. 

E' un angolo affascinante della mente umana, quello che spinge a circoscrivere. 

E' come se il mondo fosse troppo complicato, e cercassimo di delimitarlo per renderlo comprensibile. 

La casa è il castello degli italiani, non solo degli inglesi (otto connazionali su dieci sono proprietari dell'abitazione: record europeo). 

Solo che a noi non bastano due siepi e due vicini da detestare silenziosamente. 

Vorremmo scavarci intorno un fossato. 

Non potendolo fare, alziamo una cancellata, costruiamo un muro, tiriamo una rete. 

Le punte acuminate, i fili spinati e i cocci di vetro rimandano a un'Italia gotica che occupa ancora un ripostiglio della nostra testa. 

Attenzione: c'è sempre qualcuno, là fuori, che ce l'ha con te. 

E quando non è timore, è timore dell'invidia. 

Spesso facciate squallide nascondono giardini incantevoli, rivelati per caso da un portone aperto. 

E' bizzarro: la stessa persona, che non esita a parcheggiare davanti casa un auto esagerata (anzi, se ne vanta), evita d'esibire un'abitazione lussuosa. 

I lussi, se ci sono, sono dentro: una foresta di optional, dettagli, ricercatezze. 

Il muro esterno è la negazione che precede la domanda: non sono ricco e, se lo fossi, è affar mio. 

Ecco: questa è un'Italia dove non è successo niente. Non ancora."

A noi questa impressione dell’Italia ha colpito molto.

Ha colpito perché è vera, siamo un paese pieno di cancelli e muri di cinta.

La persuasione di Capitini, che per cogliere il valore dell’esistenza occorra aprirsi verso l’altro, è contraddetta dalla visione delle chiusure di cui ci circondiamo per timore dell’altro.

Poiché l’etica predominante che ci guida da secoli è quella dell'istituzione cattolica, i muri di cinta sono il manifesto più evidente del suo fallimento e la prova della necessità di una riforma religiosa come la pensava Capitini.

Non per niente una delle sue figure di riferimento fu Francesco d’Assisi, che aveva scelto come segno della sua vita il rifiuto della ricchezza materiale e l’incontro con tutti gli esseri.