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Re: DATABASE PER LA CHIAMATA ALLA PACE
- Subject: Re: DATABASE PER LA CHIAMATA ALLA PACE
- From: bloomcounty at iol.it
- Date: Tue, 25 Sep 2001 15:57:33 +0200
- Priority: normal
On 25 Sep 01, at 8:52, Verde Canavese wrote: > Carissimi, > saro' noioso, forse rompiballe, ma perche' mai c'e' chi continua a > definirsi "nonviolento" (scritto correttamente tuttoattaccato) ma poi > chiama le iniziative "Contro la violenza" e "ANTIGUERRA" ? La pratica > della nonviolenza dovrebbe spingerci a lavorare PER la pace, la > solidarieta' eccc. MAI CONTRO qualcosa. Le parole, a mio parere sono > importantissime in questa stagione di globalizzazione violenta e > guerriera. Per dare maggiore speranza in un mondo migliore, io curerei > anche le piccole cose. cordiali saluti ecopacifisti Federico Fiandro > Posso provare a darti ragione ma proprio non ce la faccio. E' come discutere sulla coerenza di un vegetariano che mangia "bistecche di Soja", mentre speri che la tua prossima bistecca non sia impazzita o di plastica. Anch'io vorrei potere non essere "contro", ma adesso, 2 mesi dopo Genova e 15 giorni dopo NY, siamo stati tutti automaticamente senza il nostro volere messi "contro". Siamo volenti e nolenti contro chi giustifica, propaganda la guerra, osteggiando, boicottando, sabotando, allontanando, incriminando chi e cosa abbai a che fare con le parole Pace, dignità, uguaglianza. Penso, invece che sui termini, che dovremmo tutti riflettere su quello che ha scritto Adriano Sofri (a proposito di incriminati) su quanto sta succedendo. Ciao Jacopo _________________________________________________ L'orrore che ci unisce LA DISCUSSIONE di oggi, fra chi ne ha l'età, non sarebbe leale se non si chiedesse come avremmo reagito a un 11 settembre durante la guerra in Vietnam. Io non lo so. Spero, e credo, che avremmo provato dolore per la strage. Avremmo probabilmente dissociato le vittime dai governanti americani, imputando a questi la responsabilità ultima dell'attacco ai loro concittadini e alle loro città, e della stessa disperazione degli attaccanti. Dov'è la differenza? Solo in noi, nel tempo che ci ha lavorati? Intanto, c'era la guerra in Vietnam: oggi ci sono molte guerre, cruente e sorde, ma nessuna che somigli a quella. Poi i vietnamiti non compirono mai un attacco paragonabile. Infine, è forse la cosa più importante, noi, più di trent'anni fa, non avevamo paura che il mondo finisse. Né noi né gli altri. Mentre scrivo, il telegiornale dice da New York: "Qui vanno a ruba i cosiddetti kit dell'apocalisse". Quando ho visto le immagini degli attacchi alle Torri di Manhattan, ho provato il desiderio di essere morto prima. Non l'avrei scritto, se non avessi letto un'intervista in cui Rudolph Giuliani diceva questa stessa cosa. Però Giuliani è il sindaco di New York, e io in America non sono mai andato, benché abbia visto tanti film. Perché ho provato il rimpianto di non esser morto prima di quella vista? Ho cercato di rispondere, cominciando dall'obiezione più ricorrente di chi ha provato sentimenti diversi. L'obiezione che ci sono morti di pregio e morti senza valore: americani per cui ci si commuove, e timoresi e iracheni e afgani per cui non si batte ciglio. E' un argomento che non riesce a persuadermi. In generale non apprezzo che si valutino le cose, e il dolore specialmente, solo comparandole ad altre cose. L'equità cui questo puntiglio comparativo si ispira è spesso un pretesto al cinismo, quando non sia spiegata da un dolore troppo forte direttamente patito, al punto di mutilare provvisoriamente un lato dell'umanità. Dunque rispetto, senza dipenderne, l'obiezione di un orfano ruandese o di una madre irachena, non di un mio concittadino come me (o più di me) illeso e benestante. Se riguardo la mia vita, trovo di non aver lasciato troppo che i pregiudizi deformassero la compassione. Non faccio differenza fra un innocente ammazzato palestinese e uno israeliano. Sono stato dalla parte della Solidarnosc cattolica in Polonia, della gente musulmana a Sarajevo o a Grozny, di albanesi e zingari in galera. Non mi basta, quell'obiezione. Per sovrappiù, nelle Torri di Manhattan sono morte, si è detto, persone di sessantatré nazionalità diverse: che non accresce la compassione, però, per dir così, la allarga. Accanto ai commenti che, imbattibile luogo comune, tenevano a distinguere fra il popolo americano e i suoi governanti (se li è eletti, quel popolo, e ha contato e ricontato le schede), ne ho letti anche che arrivavano a opporre i morti ricchi ai morti poveri delle stesse Torri, fino ai manovali immigrati clandestini e senza nome. Esercizi di distinzione. Tu sì, tu no, tu quasi. Il messicano lavavetri che comincia la sua risalita sociale e i dirigenti con l'ufficio ai piani alti: e tutti insieme sulla terrazza panoramica. Col qual punto si arriva a un'altra possibile spiegazione dell'impari commozione: le persone di quegli uffici ci somigliano, forse qualcuno era nostro figlio o cugino, o almeno nostro amico o conoscente. Ci somigliavano, e invece i tutsi e i ragazzini soldati della Sierra Leone non ci somigliavano affatto. E' questo? Forse, ma forse no. E' vero che la simpatia si nutre specialmente della vicinanza, ma è vero anche il contrario. E' vero anche che l'immagine dei bambini in una baracca di Nairobi o di donne invisibili dietro la grata del loro burka ci stringe specialmente il cuore e brucia la distanza. Allora? C'è l'enormità del massacro: tutti quei morti, e solo immaginati, pur nello spettacolo meticoloso e infinito. E c'è il modo: quell'aereo che entra nel palazzo e lo taglia come un coltello nel burro. E c'è il sacrilegio: nel cuore di Manhattan (il Pentagono è un'altra cosa, sbigottisce, ma è più adattabile al gioco al bersaglio grosso del partito dei martiri). Nessuno poteva aspettarselo, benché i libri e i film e gli spot... E' sempre così, nessuno può aspettarselo, e dopo un po' tutti dicono: ce lo aspettavamo, sentivamo che poteva succedere. "Siamo stati sconvolti, sorpresi no" - ha detto Woody Allen. Mi avvicino così alla spiegazione di quel desiderio sfinito di essere morto prima. Piuttosto: ai dintorni di quel desiderio, perché di spiegarlo del tutto non ho nessuna voglia. Restano altri due passi da fare. Uno riguarda l'America gendarme del mondo. L'altro l'ho letto in un'intervista di Renzo Piano, forse è un'espressione corrente, non so - riguarda la definizione di Manhattan come una foresta pietrificata. Il gendarme: è il sinonimo malvisto di poliziotto. Lo si deplora quando da gendarme cospira, rovescia governi, sostiene dittatori e squadre della morte. Gli si rinfaccia l'omissione quando si tiene alla larga dalla tragedia come per il rifiuto di Clinton di chiamare genocidio il genocidio dei tutsi, e di intervenire. Di volta in volta gli Stati Uniti sono gendarme o poliziotto del mondo. Il mondo non ne ha altri. Deve dotarsene, ma esita, se la prende con l'America, e si tiene al suo riparo. Si manifesta contro il gendarme, si può aver bisogno di chiamare la polizia. Le persone che hanno guardato l'America colpita al cuore hanno reagito così, alcuni col compiacimento di vedere la Potenza sfregiata, altri col panico di sentirsi indifesi e abbandonati durante l'assalto dei banditi. Io spero che il mondo, a cominciare dalla sua parte più libera e dunque responsabile, costruisca una legittima e riconosciuta polizia, e intanto mi scandalizzo per le omissioni ciniche e le prepotenze da gendarme dell'America, in Centro America o a Kabul, ma sono spaventato dall'eventualità che non si possa più chiamarla al soccorso, da una qualunque Sarajevo, da una qualunque Kabul. Per venire al punto: non occorre pensare che l'America sia la società ideale per temere che la sua vulnerabilità trascini la rovina del mondo. Non occorre amare la Borsa per temere della vita. Sono così arrivato al fondo dell'angoscia. Lo riconosco meglio, questo dolore speciale, che nasce dal sentire col mondo e diventa così intimo, così appuntito. E' quello che avvertiamo, come una fitta d'allarme, quando qualcosa ci avvisa della fragilità della terra. L'ultima notizia delle specie viventi che si estinguono, i mari che soffocano, l'aria che si sporca. Le foreste che bruciano. Ecco: è questo il legame con la foresta pietrificata di Manhattan. La nostra natura è fatta di foreste di alberi e di foreste di pietre murate. L'abbiamo formata e deformata, la natura, e insieme abbiamo reso naturali i nostri manufatti. "Seconda natura", la chiamavamo. Terza, quarta e quinta, ormai. A volte quel che resta, storto e disprezzato, della prima natura si vendica abbattendo città e inondando e seccando: allora riproviamo una paura antica e quasi superstiziosa, ma solo per un momento, e poi ricominciamo a manipolare cielo e terra. Anche i terremoti, le eruzioni, le alluvioni, i buchi nel cielo e le sovversioni del clima li mettiamo sempre di più sul conto del nostro genio. Ma un magnifico aereo portato ad abbattere e incendiare una magnifica torre al poco costo di un suicidio di banda e di una strage all'ingrosso, la riduce, la rovina presentita, all'imminenza di una notizia di telegiornale. L'Africa, si dice, è spacciata. A Manhattan è spacciato, si sente, il mondo, e si desidera esser morti prima. Prima, quando sembrava che la terra, mortale, sarebbe comunque durata ancora per un tempo incomparabile con la vicenda delle nostre vite personali e del pugno di generazioni che immaginiamo col nome di futuro. Prima di temere che fra il tempo delle vite nostre e dei nostri figli e nipoti e bisnipoti e il tempo del mondo avvenga un corto circuito. Questo incubo è il sogno vero dei martiri suicidi e assassini: non i paradisi delle fontane e delle vergini. Il sogno di emulare il Creatore nel gesto finale del Distruttore. Di restituire al nulla la creazione. Di essere ciascuno Dio in terra in terra, o nel suo aeroplano civile dirottato col temperino. di ADRIANO SOFRI da La Repubblica
- References:
- DATABASE PER LA CHIAMATA ALLA PACE
- From: Alessandro Marescotti <a.marescotti at peacelink.it>
- Re: DATABASE PER LA CHIAMATA ALLA PACE
- From: Verde Canavese <verdecanavese at supereva.it>
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