Re: DATABASE PER LA CHIAMATA ALLA PACE



On 25 Sep 01, at 8:52, Verde Canavese wrote:

> Carissimi,
> saro' noioso, forse rompiballe, ma perche' mai c'e' chi continua a
> definirsi "nonviolento" (scritto correttamente tuttoattaccato) ma poi
> chiama le iniziative "Contro la violenza" e "ANTIGUERRA" ? La pratica
> della nonviolenza dovrebbe spingerci a lavorare PER la pace, la
> solidarieta' eccc. MAI CONTRO qualcosa. Le parole, a mio parere sono
> importantissime in questa stagione di globalizzazione violenta e
> guerriera. Per dare maggiore speranza in un mondo migliore, io curerei
> anche le piccole cose. cordiali saluti ecopacifisti Federico Fiandro
> 



Posso provare a darti ragione ma proprio non ce la faccio.
E' come discutere sulla coerenza di un vegetariano che mangia 
"bistecche di Soja", mentre speri che la tua prossima bistecca non 
sia impazzita o di plastica. 

Anch'io vorrei potere non essere "contro", ma adesso, 2 mesi dopo 
Genova e 15 giorni dopo NY, siamo stati tutti automaticamente 
senza il nostro volere messi "contro".

Siamo volenti e nolenti contro chi giustifica, propaganda la guerra, 
osteggiando, boicottando, sabotando, allontanando, incriminando 
chi e cosa abbai a che fare con le parole Pace, dignità, 
uguaglianza.

Penso, invece che sui termini, che dovremmo tutti riflettere su quello 
che ha scritto Adriano Sofri (a proposito di incriminati) su quanto 
sta succedendo.


Ciao 
Jacopo

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     L'orrore che ci unisce

		       LA DISCUSSIONE di oggi, fra chi ne ha l'età,
                  non sarebbe leale se non si chiedesse come
                  avremmo reagito a un 11 settembre durante la
                  guerra in Vietnam. Io non lo so. Spero, e credo,
                  che avremmo provato dolore per la strage.
                  Avremmo probabilmente dissociato le vittime dai
                  governanti americani, imputando a questi la
                  responsabilità ultima dell'attacco ai loro
                  concittadini e alle loro città, e della stessa
                  disperazione degli attaccanti.

                  Dov'è la differenza? Solo in noi, nel tempo che ci
                  ha lavorati? Intanto, c'era la guerra in Vietnam:
                  oggi ci sono molte guerre, cruente e sorde, ma
                  nessuna che somigli a quella. Poi i vietnamiti non
                  compirono mai un attacco paragonabile. Infine, è
                  forse la cosa più importante, noi, più di trent'anni fa,
                  non avevamo paura che il mondo finisse. Né noi né gli
                  altri. Mentre scrivo, il telegiornale dice da New York:
                  "Qui vanno a ruba i cosiddetti kit dell'apocalisse".
                  Quando ho visto le immagini degli attacchi alle Torri di
                  Manhattan, ho provato il desiderio di essere morto
                  prima. Non l'avrei scritto, se non avessi letto
                  un'intervista in cui Rudolph Giuliani diceva questa
                  stessa cosa. Però Giuliani è il sindaco di New York, e
                  io in America non sono mai andato, benché abbia visto
                  tanti film. Perché ho provato il rimpianto di non esser
                  morto prima di quella vista? Ho cercato di rispondere,
                  cominciando dall'obiezione più ricorrente di chi ha
                  provato sentimenti diversi. L'obiezione che ci sono
                  morti di pregio e morti senza valore: americani per cui
                  ci si commuove, e timoresi e iracheni e afgani per cui
                  non si batte ciglio. E' un argomento che non riesce a
                  persuadermi. In generale non apprezzo che si valutino le
                  cose, e il dolore specialmente, solo comparandole ad
                  altre cose. L'equità cui questo puntiglio comparativo si
                  ispira è spesso un pretesto al cinismo, quando non sia
                  spiegata da un dolore troppo forte direttamente patito,
                  al punto di mutilare provvisoriamente un lato
                  dell'umanità. Dunque rispetto, senza dipenderne,
                  l'obiezione di un orfano ruandese o di una madre
                  irachena, non di un mio concittadino come me (o più di
                  me) illeso e benestante. Se riguardo la mia vita, trovo
                  di non aver lasciato troppo che i pregiudizi
                  deformassero la compassione. Non faccio differenza fra
                  un innocente ammazzato palestinese e uno israeliano.
                  Sono stato dalla parte della Solidarnosc cattolica in
                  Polonia, della gente musulmana a Sarajevo o a Grozny, 
di
                  albanesi e zingari in galera. Non mi basta,
                  quell'obiezione. Per sovrappiù, nelle Torri di Manhattan
                  sono morte, si è detto, persone di sessantatré
                  nazionalità diverse: che non accresce la compassione,
                  però, per dir così, la allarga. Accanto ai commenti che,
                  imbattibile luogo comune, tenevano a distinguere fra il
                  popolo americano e i suoi governanti (se li è eletti,
                  quel popolo, e ha contato e ricontato le schede), ne ho
                  letti anche che arrivavano a opporre i morti ricchi ai
                  morti poveri delle stesse Torri, fino ai manovali
                  immigrati clandestini e senza nome. Esercizi di
                  distinzione. Tu sì, tu no, tu quasi. Il messicano
                  lavavetri che comincia la sua risalita sociale e i
                  dirigenti con l'ufficio ai piani alti: e tutti insieme
                  sulla terrazza panoramica. Col qual punto si arriva a
                  un'altra possibile spiegazione dell'impari commozione:
                  le persone di quegli uffici ci somigliano, forse
                  qualcuno era nostro figlio o cugino, o almeno nostro
                  amico o conoscente. Ci somigliavano, e invece i tutsi e
                  i ragazzini soldati della Sierra Leone non ci
                  somigliavano affatto. E' questo? Forse, ma forse no. E'
                  vero che la simpatia si nutre specialmente della
                  vicinanza, ma è vero anche il contrario. E' vero anche
                  che l'immagine dei bambini in una baracca di Nairobi o
                  di donne invisibili dietro la grata del loro burka ci
                  stringe specialmente il cuore e brucia la distanza.
                  Allora? C'è l'enormità del massacro: tutti quei morti, e
                  solo immaginati, pur nello spettacolo meticoloso e
                  infinito. E c'è il modo: quell'aereo che entra nel
                  palazzo e lo taglia come un coltello nel burro. E c'è il
                  sacrilegio: nel cuore di Manhattan (il Pentagono è
                  un'altra cosa, sbigottisce, ma è più adattabile al gioco
                  al bersaglio grosso del partito dei martiri). Nessuno
                  poteva aspettarselo, benché i libri e i film e gli
                  spot... E' sempre così, nessuno può aspettarselo, e 
dopo
                  un po' tutti dicono: ce lo aspettavamo, sentivamo che
                  poteva succedere. "Siamo stati sconvolti, sorpresi no" -
                  ha detto Woody Allen. Mi avvicino così alla spiegazione
                  di quel desiderio sfinito ­ di essere morto prima.
                  Piuttosto: ai dintorni di quel desiderio, perché di
                  spiegarlo del tutto non ho nessuna voglia. Restano altri
                  due passi da fare. Uno riguarda l'America gendarme del
                  mondo. L'altro ­ l'ho letto in un'intervista di Renzo
                  Piano, forse è un'espressione corrente, non so -
                  riguarda la definizione di Manhattan come una foresta
                  pietrificata. Il gendarme: è il sinonimo malvisto di
                  poliziotto. Lo si deplora quando da gendarme cospira,
                  rovescia governi, sostiene dittatori e squadre della
                  morte. Gli si rinfaccia l'omissione quando si tiene alla
                  larga dalla tragedia ­ come per il rifiuto di Clinton di
                  chiamare genocidio il genocidio dei tutsi, e di
                  intervenire. Di volta in volta gli Stati Uniti sono
                  gendarme o poliziotto del mondo. Il mondo non ne ha
                  altri. Deve dotarsene, ma esita, se la prende con
                  l'America, e si tiene al suo riparo. Si manifesta contro
                  il gendarme, si può aver bisogno di chiamare la polizia.
                  Le persone che hanno guardato l'America colpita al 
cuore
                  hanno reagito così, alcuni col compiacimento di vedere
                  la Potenza sfregiata, altri col panico di sentirsi
                  indifesi e abbandonati durante l'assalto dei banditi. Io
                  spero che il mondo, a cominciare dalla sua parte più
                  libera e dunque responsabile, costruisca una legittima e
                  riconosciuta polizia, e intanto mi scandalizzo per le
                  omissioni ciniche e le prepotenze da gendarme
                  dell'America, in Centro America o a Kabul, ma sono
                  spaventato dall'eventualità che non si possa più
                  chiamarla al soccorso, da una qualunque Sarajevo, da 
una
                  qualunque Kabul. Per venire al punto: non occorre
                  pensare che l'America sia la società ideale per temere
                  che la sua vulnerabilità trascini la rovina del mondo.
                  Non occorre amare la Borsa per temere della vita. Sono
                  così arrivato al fondo dell'angoscia. Lo riconosco
                  meglio, questo dolore speciale, che nasce dal sentire
                  col mondo e diventa così intimo, così appuntito. E'
                  quello che avvertiamo, come una fitta d'allarme, quando
                  qualcosa ci avvisa della fragilità della terra. L'ultima
                  notizia delle specie viventi che si estinguono, i mari
                  che soffocano, l'aria che si sporca. Le foreste che
                  bruciano. Ecco: è questo il legame con la foresta
                  pietrificata di Manhattan. La nostra natura è fatta di
                  foreste di alberi e di foreste di pietre murate.
                  L'abbiamo formata e deformata, la natura, e insieme
                  abbiamo reso naturali i nostri manufatti. "Seconda
                  natura", la chiamavamo. Terza, quarta e quinta, ormai. A
                  volte quel che resta, storto e disprezzato, della prima
                  natura si vendica abbattendo città e inondando e
                  seccando: allora riproviamo una paura antica e quasi
                  superstiziosa, ma solo per un momento, e poi
                  ricominciamo a manipolare cielo e terra. Anche i
                  terremoti, le eruzioni, le alluvioni, i buchi nel cielo
                  e le sovversioni del clima li mettiamo sempre di più sul
                  conto del nostro genio. Ma un magnifico aereo portato 
ad
                  abbattere e incendiare una magnifica torre al poco 
costo
                  di un suicidio di banda e di una strage all'ingrosso, la
                  riduce, la rovina presentita, all'imminenza di una
                  notizia di telegiornale. L'Africa, si dice, è spacciata.
                  A Manhattan è spacciato, si sente, il mondo, e si
                  desidera esser morti prima. Prima, quando sembrava 
che
                  la terra, mortale, sarebbe comunque durata ancora per 
un
                  tempo incomparabile con la vicenda delle nostre vite
                  personali e del pugno di generazioni che immaginiamo 
col
                  nome di futuro. Prima di temere che fra il tempo delle
                  vite nostre e dei nostri figli e nipoti e bisnipoti e il
                  tempo del mondo avvenga un corto circuito. Questo 
incubo
                  è il sogno vero dei martiri suicidi e assassini: non i
                  paradisi delle fontane e delle vergini. Il sogno di
                  emulare il Creatore nel gesto finale del Distruttore. Di
                  restituire al nulla la creazione. Di essere ciascuno Dio
                  in terra ­ in terra, o nel suo aeroplano civile
                  dirottato col temperino.

di ADRIANO SOFRI  da La Repubblica