La nonviolenza e' in cammino. 496



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 496 del 3 febbraio 2003

Sommario di questo numero:
1. Antonio Parisella, stragi naziste e fasciste e "guerre ai civili" dei
nostri giorni
2. Alcuni testi di Primo Levi utilizzati in incontri di riflessione in
occasione della giornata della memoria
3. Chiara Zamboni, azione e inaudito nella politica delle donne
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ANTONIO PARISELLA: STRAGI NAZISTE E FASCISTE E "GUERRE AI
CIVILI" DEI NOSTRI GIORNI
[Ringraziamo Antonio Parisella (per contatti: antonio.parisella at unipr.it)
per averci messo a disposizione il testo della sua relazione al convegno
svoltosi a Viareggio il 7 dicembre 2002 su "Alla ricerca della verita': gli
armadi della vergogna". Antonio Parisella e' professore di Storia
contemporanea all'Universita' di Parma, presidente del Museo storico della
Liberazione (Via Tasso, Roma), studioso e amico della nonviolenza]

Alla memoria di Cesare De Simone, cronista giudiziario e scrittore, che
concepiva il suo lavoro come un appassionato contributo alla ricerca di
verita'

La vicenda della cosiddetta "archiviazione provvisoria" da parte della
procura generale militare dei procedimenti per le stragi naziste e fasciste
e' stata ricostruita - su basi documentali e testimoniali - dal Consiglio
della magistratura militare con una relazione approvata il 23 marzo 1999.
Oggi essa costituisce il documento base per ogni intervento e per ogni
riflessione su questo tema. Essa individua i tempi e i modi in cui vennero
commesse irregolarita' ed omissioni nonche' gli uffici e i titolari di essi
sui quali gravano le responsabilita' di averle compiute.
Quanto alle responsabilita' politiche, individuarle non poteva essere
compito di quell'organismo, ma di un organismo parlamentare. La relazione,
tuttavia, ha indicato precise circostanze di tempo che permettono di
risalire ai responsabili politici dei dicasteri interessati: le
"archiviazioni provvisorie" risalgono, infatti, al biennio 1958-60; negli
anni 1965-68 ben 1.250-1.300 fascicoli vennero trasmessi dalla procura
generale militare alle procure militari territoriali, ma si trattava - per
lo piu' - di procedimenti nei  quali - per il passare del tempo - non era
piu' possibile individuare i responsabili. E' a questa fase che dovrebbe
farsi riferimento particolare per cercare di comprendere chi agi' per la
dimenticanza e perche'.
A questa ricerca - a integrazione di quanto Franco Giustolisi ha
meritoriamente scritto sia su "L'Espresso", sia su "Micromega" - ho il
dovere di recare un elemento di verita' riferendo quanto mi testimonio'
Paolo Emilio Taviani, gia' ministro della difesa prima di quel periodo e poi
ministro dell'interno nella fase successiva: con lui ho avuto la fortuna di
intrattenere rapporti di collaborazione, soprattutto nell'ambito del Museo
storico della Liberazione (Roma, Via Tasso), che aveva risollevato dal
declino e dall'oblio e alla presidenza del quale volle che fossi io a
succedergli.
Come gia' aveva fatto quando fu intervistato da Giustolisi e come confermo'
nelle sue memorie, egli rivendico' pienamente e con onesta' la
responsabilita' di avere concordato nell'ottobre 1956 con il ministro degli
affari esteri Gaetano Martino di evitare di richiedere, in quel momento,
l'estradizione di uno dei responsabili della strage dei militari italiani a
Cefalonia del settembre 1943. Egli sottolineava: "in quel momento e per
quell'evento soltanto". Ricordava e invitava a considerare che si era non
solo genericamente in anni di "guerra fredda", ma nel pieno di una duplice
crisi internazionale nei rapporti tra Est e Ovest, con la guerra di Suez da
un lato e la rivolta d'Ungheria dall'altro. Con le truppe e i carri armati
sovietici a poco piu' di 200 km da Vienna, il ruolo militare delle forze
armate della Repubblica federale di Germania (la cui ricostruzione era
ostacolata anche all'interno dell'opinione pubblica di quel paese) era
considerato assolutamente necessario per le politiche di difesa dei paesi
dell'Europa occidentale. Lo svolgimento di un processo per crimini di guerra
ad ufficiali delle forze armate tedesche - secondo il ministro degli affari
esteri italiano - avrebbe potuto "alimentare la polemica sul comportamento
del soldato tedesco". A tale giudizio politico Taviani aveva aderito
pienamente e consapevolmente e restava convinto di aver preso una decisione
saggia e nell'interesse dell'Italia, dei suoi alleati e di quella
particolare pace basata sulla capacita' di dissuasione (da altri definita
"equilibrio del terrore") che era caratteristica dell'eta' della "guerra
fredda".
Personalmente - come forse anche molti fra i presenti - ho partecipato
numerose volte a manifestazioni contro la Nato e sostenuto politicamente per
l'Italia delle posizioni di "neutralita' attiva" (come tanti nostri maestri,
quali Ferruccio Parri, Gerardo Bruni, Piero Calamandrei, Enzo Enriques
Agnoletti, Arturo Carlo Jemolo, e tanti altri): tuttavia, come studioso di
storia che si sforza di comprendere il passato nella sua integralita'
attraverso documenti e analisi delle circostanze, anche quando questo va
contro le nostre scelte e le nostre convinzioni, debbo dire che quel
comportamento di Gaetano Martino e di Paolo Emilio Taviani - facendo valere
esigenze che erano ritenute primarie per l'interesse nazionale e statale
della Repubblica italiana - era in coerenza non solo con le loro scelte
personali, ma anche con quelle dei loro partiti (rispettivamente Pli e Dc),
della maggioranza parlamentare e dei governi della Repubblica da essa
espressi.
Come sanno tutti coloro che sono stati in qualche modo partecipi della vita
politica italiana dopo il 1960 o che l'hanno studiata con attenzione,
conoscendo l'attivita' successiva di Taviani e il ruolo che in essa ha avuto
l'antifascismo, non possono dubitare sulla lealta' e sulla sincerita' con la
quale egli - valoroso comandante partigiano ed esponente del Cln di Genova,
presidente della Fivl, organizzazione dei partigiani non di sinistra -
dichiarava di non essere stato al corrente delle archiviazioni e che,
qualora lo fosse stato, ad esse si sarebbe opposto, anche perche'
successivamente erano gradualmente venute meno alcune delle ragioni della
sua decisione del 1956. Tra l'altro, non va dimenticato che nella sua
attivita' partigiana egli, almeno due volte, era scampato a rastrellamenti
preliminari a stragi nelle quali erano stati uccisi suoi compagni di lotta.
Vi e' un altro elemento sul quale va resa nota la testimonianza di Taviani e
che e' strettamente legato con la ricerca delle responsabilita' delle
archiviazioni. Egli mi disse che - diversamente da quanto in un primo
momento aveva dichiarato a Franco Giustolisi - aveva verificato bene il
comportamento di Randolfo Pacciardi - leader repubblicano "storico",
antifascista anticomunista - suo successore al ministero della difesa,
finendo per convincersi che non aveva avuto alcun ruolo decisivo nella
vicenda. Si sarebbe dovuto - allora - scandagliare meglio su quanto era
avvenuto in seguito, analizzando l'operato di diversi ministri e
sottosegretari alla difesa e, in particolare, i rapporti tra dirigenza
politica ministeriale e vertici della magistratura militare: quest'ultima,
sottolineava, temeva fortemente l'abolizione dei tribunali militari o un
forte ridimensionamento del suo ruolo, in armonia e in applicazione del
dettato della Costituzione. Mi aggiunse che egli non era a conoscenza di
fatti specifici e di coinvolgimenti diretti di persone, nel qual caso - come
per altri eventi - non avrebbe esitato a renderli noti nelle sedi
competenti, giudiziarie e/o parlamentari: erano l'esperienza consolidata e
la riflessione accurata a spingerlo a formulare tale ipotesi.
Ho dedicato spazio a questo aspetto perche' mi sembra che esso trascenda il
caso puramente personale e - dal punto di vista del metodo - sia indicativo
della necessita' di valutare politicamente l'attivita' delle persone in
relazione a tutte le circostanze e a tutti gli elementi che ne condizionano
e ne motivano i comportamenti.
*
Vorrei, ora, accennare brevemente a due altri aspetti che entrano di piu'
nel merito della questione.
Il primo e' quello della necessita' di non fermarsi ai soli fascicoli della
procura generale militare. La realta' che essi presentano e' gia', di per
se', impressionante:
1. Notizie complessive di reato registrate: 2.274
2. Fascicoli trasmessi nel dopoguerra alle procure militari territoriali: 19
3. Fascicoli trasmessi all'autorita' giudiziaria ordinaria (reati non
militari): 270
4. Fascicoli trasmessi alle procure militari territoriali nel 1965-68 (in
genere contro ignoti): 1.250-1.300
5. Fascicoli trasmessi alle procure militari territoriali nel 1996: 695
- tra essi, contro ignoti: 280
- tra essi, contro identificati: 415.
Oggi, quindi, noi ci mobilitiamo sdegnati - di fatto - contro la vergogna
dell'insabbiamento di 415 procedimenti su un totale di 2.274 notizie di
reato.
Nel 1996 Livio Fumiani e Tristano Matta pubblicarono una Carta delle
principali stragi nazifasciste nell'Italia occupata 1943-1945, che indicava
i luoghi di circa 400 stragi con oltre 8 morti. Nello stesso periodo, con
Cesare De Simone avevamo discusso a lungo per predisporre un progetto piu'
ampio di ricerca che, per lui, doveva riguardare i massacri, ulteriormente
distinti in eccidi e stragi.
"Per quanto attiene al dato fondamentale da rilevare - scriveva Cesare De
Simone - (il massacro come crimine di guerra delle truppe naziste o delle
formazioni di Salo') si e' convenuto di procedere sulla base della
definizione giuridica che ne da' la magistratura militare - sia italiana che
straniera - che negli anni dal 1945 al 1949 ha processato alcuni dei
maggiori responsabili (in particolare: processi Kappler e Mackensen a Roma;
processo Kesselring a Trieste; processo Reder a Bologna; processo per la
strage di Oradur sur Glane in Francia; processo per la strage di Kalamatis
in Grecia; processo di Karkov in Urss). Viene definito eccidio l'uccisione
da 2 a 4 persone; viene definita strage l'uccisione da 5 persone in su'".
Ma, secondo lui, andava individuata meglio e con  precisione la tipologia di
episodi ai quali riferirsi.
"Per quanto attiene alle modalita' del massacro - aggiungeva Cesare De
Simone - anche qui il rilevamento si attiene alla definizione giuridica del
crimine di guerra che e' stata messa a punto dal processo di Norimberga del
1946 comprendente, tra l'altro e per i casi che attengono al nostro
rilevamento: a) l'uccisione di civili per rappresaglia ad azioni di guerra
del movimento partigiano; b) l'uccisione preventiva di civili per esigenze
di carattere militare; c) l'uccisione di civili per motivi razziali e/o per
vendetta; d) l'uccisione di partigiani e/o prigionieri di guerra catturati
in combattimento e/o in azioni di rastrellamento; e) l'uccisione di ostaggi
per motivi di rappresaglia e/o razziali e/o di vendetta".
Per quanto mi riguarda, pur aderendo nel caso concreto a tali limiti,
continuavo e continuo ad essere convinto che l'indagine debba estendersi
anche a quello stillicidio di uccisioni individuali determinate da ragioni
analoghe, o anche a quelle di persone estranee a precisi atti di guerra
uccise dopo un sommario giudizio di un organo piu' o meno improvvisato di
giustizia militare.
Avevamo stimato che - rispetto alla cifra dell'elenco di Fumiani e Matta -
il numero degli episodi da considerare sarebbe almeno raddoppiato, se non
triplicato. E va ricordato che - eccezion fatta per la Sardegna, dove non vi
fu occupazione nazista - pressoche' tutte le regioni italiane, dalla Sicilia
al Trentino, Friuli e Valle d'Aosta hanno conosciuto episodi di massacri.
Ora l'ipotesi e' che - nella versione piu' ampia - il numero complessivo
finirebbe per riguardare almeno il quintuplo dei casi, se non di piu'.
*
Nonostante questo ampliamento, ci troveremmo di fronte solo ad una parte
delle morti dovute a cause "non naturali".
Ritengo, infatti, che l'"armadio della vergogna" costituisca solo la punta
di un iceberg la cui massa sia ancora sommersa e inesplorata...
Bisognerebbe, infatti, non limitarsi a considerare le sole notizie di reato
di competenza dell'autorita' giudiziaria militare. Ben 260 di quelle giunte
alla procura generale militare erano per reati di competenza dell'autorita'
giudiziaria ordinaria: erano il 10% del totale dei procedimenti
dellí'"armadio della vergogna" e circa il 60% di quelli contro persone
identificate. Dovrebbero esistere - se cosi' vogliamo continuare a
chiamarli - altri "armadi della vergogna" in alcune citta' sedi di tribunali
e anche altrove. A tale riguardo, vorrei infatti ricordare che le norme
anagrafiche richiedevano/ono che per registrare morti dovute a cause "non
naturali" era/e' necessario un provvedimento delle procure del re/della
repubblica e che le procure decidevano/ono sulla base di indagini della
polizia giudiziaria (in genere, per la loro diffusione sul territorio,
all'epoca, soprattutto i carabinieri). Inoltre, in tutti i casi in cui i
registri anagrafici dei comuni sono andati distrutti per causa di guerra,
ufficiali d'anagrafe, carabinieri e procure si sono avvalsi dei registri
delle parrocchie e/o di quelli degli ospedali e dei cimiteri, oltre che
delle dichiarazioni giurati di testimoni diretti: cosi', nella maggior parte
dei casi, sono state identificate le vittime di bombardamenti e
cannoneggiamenti e di altri atti "normali" di guerra; cosi' - ed esiste
un'agghiacciante serie di riprese cinematografiche per i caduti delle Fosse
Ardeatine -  evidentemente, sono state identificate anche le vittime degli
atti "non normali" di guerra, come le stragi, le esecuzioni sommarie, le
rappresaglie e gli atti d'offesa contro i civili.
Questo insieme di cose mi ha spinto - in passato - a sostenere la proposta
di Enzo Collotti di un'indagine sistematica sulla materia e a collaborare
con Cesare De Simone a elaborare un progetto concreto presso la presidenza
nazionale dell'Anpi e il comitato nazionale per il cinquantenario. Esso si
e' arenato dopo la morte di Cesare De Simone, mentre - con intenti e
metodologie in parte diversi - un altro progetto e' stato sviluppato e
realizzato da un pool di gruppi universitari (Pisa, Bologna, Napoli, Bari)
che su esso hanno realizzato anche un convegno internazionale a Bologna. Su
entrambi oggi informano due appositi siti web.
Ma c'e' qualcosa che mi fa ritenere necessario insistere perche' anche in
altre regioni si sviluppi la ricerca e perche' si proceda in maniera piu'
sistematica. Nel sito dell'universita' di Pisa esiste una cronologia di
episodi registrati da Carlo Gentile (operazioni antipartigiane,
rappresaglie, stragi in Italia 1943-1945) attraverso la consultazione di
fonti d'archivio tedesche, inglesi e americane, oltre che della relativa
bibliografia specifica. Si tratta di solo 329 episodi, a volte di solo
rastrellamento: quelli del Lazio, ad esempio, non arrivano a 20, a fronte
degli oltre 120-130 episodi di uccisioni (anche individuali) che ho censito
sulla base di pubblicazioni locali e dell'elenco riportato da Ricciotti
Lazzero. Questo mi fa chiedere oggi a gran voce che si aprano tutti gli
altri "armadi della vergogna", ovunque collocati, ma anche che - anche solo
attraverso i censimenti delle lapidi e lo spoglio delle fonti e della
pubblicistica locale - si compilino degli elenchi e dei repertori piu'
analitici e piu' credibili.
Fare, a questo proposito, processi retrospettivi alla classe politica della
Democrazia cristiana e degli altri partiti antifascisti o costituzionali del
primo cinquantennio dell'Italia repubblicana mi interessa decisamente di
meno - oggi - del conoscere l'esatta portata  della "guerra ai civili"
recata in Italia dai nazisti e dai fascisti nel 1943-45 (e, sia detto a
scanso di ogni equivoco, anche di quella recata dagli italiani armati piu' o
meno fascisti in Libia, Etiopia, Slovenia, Croazia, Albania e Grecia). Non
si tratta di un'operazione di puro e semplice recupero di memoria offesa.
"Siamo dei combattenti, non degli assassini", era la divisa morale dei Gap
romani quando i loro militanti si ponevano il problema di evitare che le
loro azioni colpissero persone estranee ai loro "obiettivi" (in genere,
esponenti piu' o meno rilevanti degli apparati militari o polizieschi degli
occupanti o dei loro complici).
*
Chi, come me, appartiene al movimento dei nonviolenti ritiene suo compito
non solo di far conoscere e affermare le proprie ragioni ma anche suo dovere
morale di richiedere a tutti coloro - oggi ancora maggioritari - che
ritengono di avere ragioni di combattere con le armi (ammesso che ve ne
possano essere) che operino per delle radicali riduzioni del danno alle
persone innocenti, cioe' per evitare le uccisioni e le menomazioni casuali e
indiscriminate di non combattenti e per operare per l'umanizzazione dei
conflitti, cioe' per l'opposto di quanto oggi prevale negli scenari delle
guerre in atto o potenziali.
Per queste ragioni abbiamo tutti la necessita' di conoscere analiticamente
nei suoi termini reali quella particolare "guerra totale" costituita
dall'aggressione nazista ai popoli dell'Europa. Da parte del fronte
antifascista - stati ed eserciti non meno che popoli, movimenti, ideologie -
essa richiese una reazione militare non meno dura, distruttiva e sanguinosa,
anche se esso non aveva lo sterminio sistematico dell'avversario come fine e
non solo come mezzo (e la differenza non e' di poco conto). Fu proprio -
infatti - la messa in opera di quella "guerra totale" - come era stato per
le aggressioni indiscriminate anche dei neutrali da parte degli Imperi nella
prima guerra mondiale - a legittimare i vincitori a considerare i nemici
sconfitti (o, meglio, i loro capi) come "criminali di guerra" e a
considerare le morti (anche di civili) causate dalle proprie forze armate
come giustificate da un'esigenza primaria di liberazione da essi.
Per questo, in relazione al nostro paese e al nostro popolo non meno che in
relazione agli altri paesi e agli altri popoli d'Europa, abbiamo bisogno di
avere la conoscenza piu' adeguata e precisa possibile della minaccia e della
realta' della violenza che furono costretti a subire.
*
La conoscenza sistematica delle uccisioni dei civili e dei massacri operati
dagli occupanti tedeschi e dalle forze armate e di polizia della Rsi e',
infatti, una necessita' fondamentale per la costruzione della nostra
identita' per due ordini di ragioni.
Vi e' - ed e' stato finora l'aspetto maggiormente indagato - il rapporto
fra, da un lato, lotta di sopravvivenza e lotta di liberazione (armata e non
armata) dal nazismo e dal fascismo e, dall'altro, aspirazioni popolari alla
liberta', all'indipendenza e identita' nazionale, alla giustizia,
all'uguaglianza, alla pace che accomunano alla radice tutti i popoli
d'Europa, al di la' dei regimi e delle forme della politica che divennero
egemoni nel dopoguerra.
Ma vi e' qualcosa di altro e di piu' profondo, sulla quale non abbiamo posto
a fondo la nostra attenzione.
E' qualcosa per cui ho una sensibilita' particolare. Il mio paese, Cisterna
di Latina (allora Littoria), era sulla linea del fronte di Anzio e fu
distrutto al 99% dai bombardamenti aerei americani. Nella battaglia per
conquistarlo, poi, il reggimento Rangers di Fort Smith (Arizona), perse
tutti suoi effettivi tranne sette od otto, alcuni dei quali ho conosciuto
quando ormai erano dei reduci settantenni, sopravvissuti, ma con le gambe
amputate, le braccia meccaniche o con qualche turba psichica di un certo
rilievo. Nella guerra di massa e' una fortuna salvarsi non solo per i
liberati, ma anche per i liberatori e anche chi vince e chi ha la fortuna di
salvarsi, non sempre resta integro o indenne da terribili conseguenze.
Ma quello che voglio dire e' molto specifico. Come accennavo poc'anzi, per
giustificare i bombardamenti sistematici e indiscriminati degli alleati
che - ad esempio - rendevano Dresda non dissimile da come i tedeschi avevano
reso Coventry (per non dire di quelli nucleari degli americani sulle citta'
giapponesi di Hiroshima e Nagasaki), fu elaborato il complesso teorico
giuridico e politico dei "crimini di guerra". Quella durezza crescente
dell'azione militare degli alleati e quel potente dispiegamento di capacita'
distruttiva indiscriminata trovava la sua giustificazione nell'eccezionale
gravita' del nemico cui si era di fronte e nella minaccia che esso aveva
posto in atto contro gli stessi fondamenti biologici e materiali
dell'esistenza dei popoli d'Europa, non solo contro le loro espressioni
culturali, civili e statali.
Se oggi noi ci riconosciamo - giustamente - eredi di quella lotta e delle
ragioni che la sostennero, dobbiamo avere chiaro anche quale fosse l'entita'
della minaccia e come, dove e in quale misura essa era diventata tragica
realta'. Lo sterminio nei lager non era solo un aspetto accessorio del Nuovo
ordine europeo del nazismo e di Hitler. Esso era il punto culminante di una
spirale di violenza che - come un tragico vortice - aveva colpito in maniera
consapevole e diretta le singole vittime civili delle uccisioni immotivate,
i piccoli gruppi di ostaggi, le centinaia di prigionieri uccisi per
rappresaglia, le migliaia di donne, bambini e anziani sterminati nelle
grandi stragi. Ecco, allora, che il conoscere come, quando, dove e con quali
dimensioni i nazisti e i fascisti posero in atto la "politica della strage"
diventa l'indispensabile pietra di paragone con la quale misurare le
circostanze che - storicamente - giustificarono ex post i bombardamenti
aerei ed i cannoneggiamenti marini e terrestri contro obiettivi civili e
popolazioni. In altri termini, per capire perche' fu necessario porre in
essere un cosi' offensivo e distruttivo male minore, e' indispensabile
conoscere la reale portata del male maggiore che era necessario abbattere
per la salvezza di tutti (o, meglio, dei superstiti).
Di questo abbiamo bisogno nella nostra epoca - piu' di cinquant'anni dopo -
perche' nell'opinione pubblica internazionale e di numerosi paesi si fa - a
volte molto sfacciato ed intenso - un "uso pubblico della storia" di tipo
analogico per giustificare i bombardamenti contro gli obiettivi civili e le
popolazioni del nostro tempo. Non con la loro ipotetica efficacia
nell'eliminare una minaccia comparata come analoga a quella che allora fu
perpetrata contro l'umanita' (secondo un procedimento tipico dell'uso della
consuetudine come fonte del diritto) ma con il semplice fatto che allora vi
sono state distruzioni e morti di civili operate dagli alleati.
Anziche' domandare a chi oggi ritiene immorali i bombardamenti contro
obiettivi civili e popolazioni se cinquant'anni fa si sarebbe opposto ai
bombardamenti degli alleati in guerra contro Hitler, chi vuole sostenere la
necessita' e la moralita' dei bombardamenti di oggi ha l'obbligo di
dimostrare che le minacce all'umanita' siano oggi della stessa natura di
quelle di cinquant'anni fa e che siano in grado di recare alle persone
innocenti gli stessi danni e le stesse minacce recati alle persone innocenti
cinquant'anni fa da Hitler, dalle sue forze armate e dai suoi
collaborazionisti.
*
Riferimenti bibliografici essenziali
- C. De Simone, Per la costruzione di una cronologia dei massacri,
comunicazione al convegno internazionale "Identita' e storia della
Repubblica. Per una politica della memoria nell'Italia di oggi", Universita'
La Sapienza, Roma, 26-27 giugno 1997 (inedita).
- M. Franzinelli, Le stragi nascoste. L'armadio della vergogna: impunita' e
rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori, Milano
2002.
- F. Giustolisi, Gli scheletri nell'armadio, in "Micromega", n. 1/2000, pp.
345-356.
- R. Lazzero, Il sacco d'Italia. Razzie e stragi tedesche nella repubblica
di Salo', Mondatori, Milano 1993.
- A. Parisella, La politica della strage, in Idem, Sopravvivere liberi.
Riflessioni sulla storia della Resistenza a cinquant'anni dalla Liberazione,
Gangemi, Roma 1997, pp. 37-57.
- P. Pezzino, Sui mancati processi in Italia ai criminali di guerra
tedeschi, in "Storia e memoria", n. 1/2002, pp. 9-72.
- R. Ricci, Processo alle stragi naziste? Il caso ligure. I fascicoli
occultati e le illegittime archiviazioni, in "Storia e memoria", n. 2/1998,
pp. 119-164.
- P. E. Taviani, Politica a memoria d'uomo, Il Mulino, Bologna 2002.
- I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue
in Toscana, Carocci - Giunta regionale della Toscana, Roma-Firenze 2002.
- Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza fascista e
nazista in Italia, a cura di T. Matta, Electa, Milano 1996.
*
Siti web:
- www.guerraaicivili.it
- www.stm.unipi.it/straginaziste

2. MATERIALI. ALCUNI TESTI DI PRIMO LEVI UTILIZZATI IN INCONTRI DI
RIFLESSIONE IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA
[Nei giorni scorsi, prima e dopo il 27 gennaio, anniversario della
liberazione nel 1945 dei superstiti del campo di sterminio di Auschwitz,
anche quest'anno ho preso parte ad alcuni incontri di riflessione in
occasione della giornata della memoria della Shoah, ad Acquapendente presso
la biblioteca comunale, a Tuscania sia presso l'istituto professionale sia
presso il liceo scientifico, a Viterbo nell'ambito del corso di formazione
per gli obiettori di coscienza in servizio civile presso la Caritas
diocesana; oltre a raccontare di come ho conosciuto i miei maestri ed amici
superstiti dai Lager (quasi tutti ormai defunti, ma vivi nel mio e nel
comune ricordo dell'umanita'), e cio' che di piu' decisivo credo di aver
appreso da loro, ho proposto ai partecipanti di riflettere insieme su alcuni
brevi brani estratti dalle opere di Primo Levi, alcuni dei quali di seguito
riproduco ancora una volta (p. s.).
Primo Levi e' nato a Torino nel 1919, e qui e' tragicamente scomparso nel
1987. Chimico, partigiano, deportato nel lager di Auschwitz, sopravvissuto,
fu per il resto della sua vita uno dei piu' grandi testimoni della dignita'
umana ed un costante ammonitore a non dimenticare l'orrore dei campi di
sterminio. Le sue opere e la sua lezione costituiscono uno dei punti piu'
alti dell'impegno civile in difesa dell'uomo. Opere di Primo Levi:
fondamentali sono Se questo e' un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La
ricerca delle radici, L'altrui mestiere, I sommersi e i salvati, tutti
presso Einaudi; presso Garzanti sono state pubblicate le poesie di Ad ora
incerta; sempre presso Einaudi nel 1997 e' apparso un volume di
Conversazioni e interviste. Altri libri: Storie naturali, Vizio di forma, La
chiave a stella, Lilit, Se non ora, quando?, tutti presso Einaudi; ed Il
fabbricante di specchi, edito da "La Stampa". Ora l'intera opera di Primo
Levi (e una vastissima selezione di pagine sparse) e' raccolta nei due
volumi delle Opere, Einaudi, Torino 1997, a cura di Marco Belpoliti. Opere
su Primo Levi: AA. VV., Primo Levi: il presente del passato, Angeli, Milano
1991; AA. VV., Primo Levi: la dignita' dell'uomo, Cittadella, Assisi 1994;
Marco Belpoliti, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano 1998; Massimo Dini,
Stefano Jesurum, Primo Levi: le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992;
Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica,
Einaudi, Torino 1997; Giuseppe Grassano, Primo Levi, La Nuova Italia,
Firenze 1981; Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta,
Mursia, Milano 1992; Claudio Toscani, Come leggere "Se questo e' un uomo" di
Primo Levi, Mursia, Milano 1990; Fiora Vincenti, Invito alla lettura di
Primo Levi, Mursia, Milano 1976]

Alzarsi

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finche' suonava breve sommesso
Il comando dell'alba:
"Wstawac":
E si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre e' sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E' tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
"Wstawac".

11 gennaio 1946
*
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti
la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente
tutto quanto possiede: sara' un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno,
dimentico di dignita' e discernimento, poiche' accade facilmente, a chi ha
perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potra' a cuor leggero
decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinita'
umana; nel caso piu' fortunato, in base ad un puro giudizio di utilita'. Si
comprendera' allora il duplice significato del termine "Campo di
annientamento"...
[Da Se questo e' un uomo]
*
Che appunto perche' il Lager e' una gran macchina per ridurci a bestie, noi
bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si puo'
sopravvivere, e percio' si deve voler sopravvivere, per raccontare, per
portare testimonianza; e che per vivere e' importante sforzarci di salvare
almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civilta'. Che siamo
schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi
certa, ma che una facolta' ci e' rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni
vigore perche' e' l'ultima: la facolta' di negare il nostro consenso.
[Da Se questo e' un uomo]
*

La bambina di Pompei

Poiche' l'angoscia di ciascuno e' la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si e' fatto nero.
Invano, perche' l'aria volta in veleno
E' filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta gia' del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono pssati i secoli, la cenere si e' pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Cosi' tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l'orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta e' stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull'altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d'assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.

20 novembre 1978
*
Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come
noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal
nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la
strada dell'ossequio e del consenso, che e' senza ritorno.
[Da La ricerca delle radici]
*
L'esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti e'
estranea alle nuove generazioni dell'Occidente, e sempre piu' estranea si va
facendo a mano a mano che passono gli anni. (...).
Per noi, parlare con i giovani e' sempre piu' difficile. Lo percepiamo come
un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici,
di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre
esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento
fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perche' inaspettato, non
previsto da nessuno. E' avvenuto contro ogni previsione; e' avvenuto in
Europa; incredibilmente, e' avvenuto che un intero popolo civile, appena
uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la
cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler e' stato obbedito ed
osannato fino alla catastrofe. E' avvenuto, quindi puo' accadere di nuovo:
questo e' il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
[Da I sommersi e i salvati]

3. RIFLESSIONE. CHIARA ZAMBONI: AZIONE E INAUDITO NELLA POLITICA DELLE DONNE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il testo della relazione di Chiara Zamboni al decimo simposio
dell'Associazione internazionale delle filosofe, svoltosi a Barcellona dal 2
al 5 ottobre 2002. Chiara Zamboni e' docente di filosofia del linguaggio
all'Universita' di Verona, partecipa alla comunita' filosofica femminile di
"Diotima". Tra le opere di Chiara Zamboni: Favole e immagini della
matematica, Adriatica, 1984; Interrogando la cosa. Riflessioni a partire da
Martin Heidegger e Simone Weil, IPL, 1993; L'azione perfetta, Centro
Virginia Woolf, Roma 1994; La filosofia donna, Demetra, Colognola ai Colli
(Vr) 1997]
Per la maggior parte della nostra vita noi agiamo. Siamo impegnate a fare
qualche cosa. In questo c'e' una condizione che non e' solo una costrizione,
ma un piacere. Ma sappiamo quel che facciamo mentre agiamo? Quando un'azione
e' libera e quando non lo e'?
Perche' scegliere di parlare di azione? E' vero che le donne hanno amore per
le parole, ma hanno, e forse anche di piu', un amore fortissimo per il fare.
Dal fare piu' quotidiano del preparare una cena a quello piu' pubblico e
riconosciuto come dare forma ad una rassegna di musica, ad una mostra di
pittura, ad un convegno di filosofe.
Perche' le donne hanno questa passione per l'agire, per il fare in tutti i
suoi aspetti, dal concreto al culturale? Perche' piu' le donne degli uomini?
Qui di seguito cerchero' di dare una risposta, che mi coinvolge in prima
persona. Di fatto anche la mia esperienza e' in gioco quando parlo delle
donne: raccontando di loro parlo anche di me.
Quando adopero i termini "donne" e "uomini" nel testo compio una scommessa
di senso, perche' per se' questi termini sono significanti vuoti, che solo
contesto per contesto prendono significato. Mi muove la fiducia nel fare
questa scommessa di senso: penso infatti che il testo che scrivo sia
sufficientemente aperto in modo tale che le donne e gli uomini che si
trovano a leggerlo possano farlo proprio sia nell'essere d'accordo, sia nel
discostarsene. Anche un testo, e non solo una discussione in presenza, puo'
offrire a chi legge la possibilita' di porsi in posizioni diverse e di
articolare ulteriormente il discorso se una scommessa di senso e' stata
fatta.
*
La risposta che do e' questa. L'esperienza pratica mantiene un legame con le
cose, che e' vitale perche' le modifica e si lascia modificare dal contesto
in uno scambio continuo. Permette in altre parole un va e vieni dove la
trasformazione e' sia attiva che subita. Si entra in una relazione forte con
il mondo che abitiamo.
Le donne hanno con i contesti materiali un legame maggiore degli uomini.
Perche'?
Francoise Dolto, psicoanalista e pensatrice, afferma che gli esseri umani
vivono pulsioni passive e attive. Nelle donne sono piu' forti le pulsioni
passive a causa di una continuita' con la madre. Ora, io aggiungo, le
pulsioni passive hanno a che fare con l'agire. Sembra paradossale ma non lo
e'. Infatti le pulsioni passive hanno a che fare con  un certo tipo di
azione, che e' ben diversa da quella azione tutta proiettata nella
realizzazione di un progetto.
Dolto dice: le pulsioni passive sono vissute dalle donne in continuita' con
la madre. Vuol dire che la continuita' con la madre e il suo mondo e'
vissuta come un tessuto sotterraneo senza che si abbia bisogno di darle una
forma dall'esterno. Le donne vivono passivamente tale continuita' senza che
si avverta la necessita' di intervenire attivamente per dare ad essa una
rappresentazione.
La madre, dandoci la vita e insegnandoci a parlare, ci apre al mondo. La
continuita' che le donne avvertono nei confronti della madre viene allargata
al mondo. Con esso le donne avvertono una continuita' che si esprime nel
patire le relazioni con gli altri e con le cose. Anche in questo caso non
sentono la necessita' di dare una forma, una espressione a tale legame
continuo con il mondo, perche' esso e' sotterraneo, si', ma insistente.
Esso e' prima di ogni consapevolezza. E' precategoriale.
In questa condizione di sotterranea continuita' con il mondo, l'azione viene
avvertita come forte dalle donne quando mantiene vivo e articola sempre di
nuovo tale legame. Viene sentita come sradicata un'azione, che invece
progetta il mondo, con la volonta' lo trasforma, senza stare in uno scambio
con esso.
*
Solo cosi' mi spiego il ritorno insistente del tema dell'agire nel sapere
delle donne.
Ad iniziare dalle filosofe. E penso qui alle grandi filosofe del Novecento
come Simone Weil e Hannah Arendt, che in modi diversi hanno posto al centro
delle loro riflessioni un certo modo di concepire l'azione, ben diversa da
un atto di volonta' che progetta il mondo.
Questa inclinazione si ritrova chiarissima nel movimento delle donne negli
anni '70 e '80 almeno in Italia e in Francia, che sono le due realta' che
conosco meglio. La politica delle donne e' stata ed e' una politica fondata
su pratiche. La pratica dell'autocoscienza, quella dell'inconscio, quella
della relazione - solo per nominarne alcune. Pratiche che si rinnovano nel
tempo. Esse ricavano la loro forza dal saper dare espressione ai sentimenti
che illuminano il reale.
Mi spiego cosi' anche una certa inclinazione femminile a pensare la propria
esperienza come organizzata attorno al fare. Con Diotima, la comunita' di
filosofe dell'universita' di Verona con le quali lavoro, abbiamo interrogato
diverse donne sulla loro esperienza. Dalle loro risposte, pubblicate in El
perfume de la maestra (Icaria), emergeva questo. La loro esperienza era
rappresentata dai momenti piu' significativi della loro vita, e questi
avevano a che fare con quel che era loro capitato agendo in tempi lunghi.
Certo parlavano di momenti particolarmente significativi, che rompevano la
monotonia della ripetizione, che illuminavano di senso la loro vita. Ma era
quel fare complesso che coinvolge pensiero, scelte, passioni ad essere al
centro dei racconti. E questo sia che interrogassimo un'infermiera, o una
bidella, o una maestra.
*
L'agire dunque rinnova il legame passivo e affettivo con il mondo, lo
sviluppa, lo trasforma. E' in continuita' con tale legame e lo rinnova
attraverso lo scambio con gli altri e con le cose. E' per questo che in esso
c'e' godimento.
C'e' godimento proprio perche' c'e' scambio e il tessuto di relazioni
passive che sta sullo sfondo viene fatto risuonare, e' messo all'opera. E'
come se il mondo allora ci venisse incontro.
L'esempio piu' convincente di questo godimento del fare lo si trova
nell'agire delle artiste. Esse mostrano un certo rapporto con la qualita'
propria del materiale con cui interagiscono che e' poetico. Tentano e
ritentano un colore - le diverse luminosita' del giallo -, un elemento come
con il legno e la sua porosita' di gradi diversi. Amano un tessuto per le
tante possibilita' che offre per la morbidezza o rugosita', per il
frusciare, per il marezzarsi dei riflessi o l'assorbire l'oscuro. Le
relazioni con gli altri e con il mondo sono cosi' importanti, che rinunciano
all'opera se questa porta a recidere i legami che si sono creati.
Ovvio che allora l'agire che invece taglia i rapporti con il mondo, perche'
lo progetta in trasformazioni, che si sovrappongono alla realta', invece di
accompagnarla, non ha questo godimento. Penso banalmente a chi progetta
autostrade perfettamente dritte in un paesaggio di colline dolci e sinuose,
che richiedono strade che accompagnino le curve del paesaggio. O a chi
propone leggi di riforma della scuola, senza fare tesoro dell'esperienza
degli insegnanti, accumulata nel tempo. Queste riforme considerano gli
insegnanti e gli studenti come pedine degli scacchi: donne e uomini
senz'anima, senza bisogni e sentimenti, da disporre in un modo oppure in un
altro su una grande scacchiera.
Forse anche in questo agire sradicato c'e' godimento, ma allora e' il
godimento di chi si sente un dio onnipotente, chiuso nella sua solitudine.
*
Una piccola riflessione a questo punto sulla liberta'. Quando quel che si fa
e' progettato prima, e' una semplice esecuzione, allora il fare non e'
libero. E' solo uno strumento per qualche altra cosa. Strumento che non
porta memoria, che va buttato via dopo esser stato usato.
Quando invece l'azione e' considerata come un processo nel quale avviene
qualcosa di vitale tra noi e il mondo, allora l'azione stessa diventa il
centro simbolico del reale. Da un lato viene accolta la dipendenza dal
mondo, e dall'altra contemporaneamente si ha con esso un gioco libero, come
una danza.
Anche il rapporto con il tempo muta. Il tempo del progetto e' proiettato in
avanti, in un futuro da realizzare, rispetto al quale l'azione e' solo
strumento, quindi vive in un presente da carta velina, un presente che
simbolicamente non c'e'. Non e' nulla.
Invece il tempo dell'azione che e' gioco libero ha la pienezza di cio' che
avviene nel presente. Con tutti gli scacchi e fallimenti che ci possono
essere, che fanno parte del processo stesso.
Quando l'agire e' visto come un processo, allora c'e' ascolto di cio' che
avviene di imprevisto. Un evento viene infatti soppesato nell'anima in una
pausa di silenzio interiore. Il silenzio interiore permette di fare
attenzione al senso di cio' che e' avvenuto. E' allora che l'anima lo
comprende come un fatto inaudito, che invece all'ascolto frettoloso puo'
sembrare un fatto tra gli altri, senza particolare importanza.
L'ascolto dell'inaudito porta a trasformare l'azione, a scegliere vie
insolite, rispetto a quelle che ci siamo prefissate. Vie non codificate
simbolicamente. Il presente, che pensavamo in un certo modo, mostra al
proprio interno momenti altri, ricchi di potenzialita' impreviste.
Il mondo si presenta allora come un melograno, pieno di chicchi, che non
sono visibili all'esterno.
Ci sono uomini che hanno riflettuto riflettendo sull'agire come un processo.
Penso a Gregory Bateson, per esempio. E tuttavia vedo che per gli uomini e'
piu' difficile spostare radicalmente l'attenzione sul processo e sul sapere
che se ne ricava. Sono piu' spinti a mostrare i risultati oggettivi di
un'azione. E' molto forte l'impulso in loro a confrontarsi con gli altri
uomini sui prodotti conclusi, determinati e circoscritti.
Questa inclinazione va di pari passo con la passione degli uomini alla
visibilita'. Come se essi esistessero per quel che fanno: per un'opera che
risulti visibile agli altri. E qui va nuovamente interrogata la divisione
cosi' netta che essi compiono tra pubblico e privato, tra visibile e
invisibile. Cio' che rimane invisibile nell'agire non ha per loro
importanza.
In molte donne vedo attenzione al processo dell'agire, agli scambi che
avvengono in questo percorso, al valore delle relazioni, che intrecciano nel
fare questo. Il fatto e' che le donne vanno e vengono tra privato e
pubblico, tra visibile e invisibile. Esse avvertono questi due aspetti come
due elementi di un unico processo. Lo vedo in me: l'opera, il risultato, e'
importante, ma non tanto da sacrificare le relazioni intrecciate nel
processo. Oppure, se taglio a volte queste relazioni per fretta di arrivare
al risultato, cio' rimane come qualche cosa di fuori posto, e che mi mette
fuori posto. Alla lunga mi fa deragliare.
*
Nel processo dell'agire molto di cio' che capita viene lasciato sullo sfondo
e ad esso non viene data nessuna forma. Questa indeterminatezza non viene in
genere avvertita come negativa dalle donne.
Lo sfondo oscuro dell'agire, che rimane senza forma e senza parole che lo
esprimano, ha a che fare con le pulsioni passive.
Le pulsioni passive sono il tessuto grezzo dell'agire. Ne sono la trama
essenziale, della quale l'azione singola e' poi l'ordito.
Questo tessuto grezzo dipende da un patire i legami con la realta', da un
sopportarli nel senso etimologico di soffrire, cioe' sub-fero, che significa
"portare su" di se'.
Il che comporta attraversare la necessita' del mondo cosi' com'e'. Patirla.
Soffrirla.
Un bell'esempio di quello che sto dicendo e' dato da Maria Zambrano.
Zambrano riconosce alla poesia la capacita' di patire la realta'. Scrive in
Filosofia e poesia che i poeti sopportano che le cose amate possano venire
meno. Ne parlano senza preservarsi da questo dolore. Proprio percio'
riescono a restituire, nell'agire della scrittura, la singolarita' della
cosa, nella sua fragilita'. Al contrario i filosofi, amando allo stesso modo
il reale, tuttavia hanno cercato di difendersi dal dolore della sua perdita,
salvando le singolarita' amate nel mondo delle idee. E' vero che in questo
modo si sono preservati dal dolore del reale, ma facendo cosi' hanno
tagliato i rapporti con esso.
Cosi' Simone Weil mostrava nei Quaderni come il patire la necessita' del
nascere e del morire delle cose, dello svilupparsi inesorabile del tempo,
della compresenza di bene e di male in questo mondo permetta l'aprirsi di un
altro piano di realta'. Un piano diverso dell'essere esattamente in questo
mondo.
La passivita' non esclude ovviamente il conflitto: posso combattere cio' che
non ritengo giusto, proprio perche' patisco le distorsioni di una realta'
che conosco. Se i fatti del mondo sono stati accolti nell'anima, sopportati,
allora l'azione conflittuale non e' sradicata. Ha le proprie radici
nell'aver accolto la realta'.
Ad esempio, posso prendere posizione contro la guerra, ma dopo aver
soppesato nell'anima, o, se si preferisce, nel silenzio interiore gli
eventi, portandoli al loro senso e sottraendoli ai significati dati. Non
prima. Non per partito preso.
*
A questo punto, voglio dire quel che ho imparato da Cristina Faccincani, che
ha scritto su El perfume de la maestra della sua esperienza di
psicoanalista. Inizio con il riportare quel che lei dice: "Apparterrebbe a
questo stato di passivita' la possibilita' di una partizione dell'anima di
un altro. Si tratta naturalmente di qualcosa di tutt'affatto diverso, direi
di opposto, rispetto a quelle forme di confusione con l'altro in cui, ad
esempio nel sentimentalismo, l'Io campeggia e l'alterita' dell'altro e'
violentemente cancellata, e nessuno puo' sorgere. Nello stato di passivita'
come partizione si darebbe invece una forma di sapere proprio
dell'affettivita', un sapere dell'affezione al di qua di ogni sapere. Il
modello potrebbe essere lo stato della gestazione, il rapporto magico del
bambino e della madre nella gestazione, magico perche' legato ad una sorta
di atto di fede nella condizione di impossibilita' di controllo. La
passivita' non e' individuale: si puo' essere attivi da soli, ma si puo'
essere passivi solo in due o piu'".
Patire i legami con gli altri e il mondo e' un condividere. Il che significa
che cio' che di passivo c'e' nell'agire non e' individuale, ma e'
condivisione di una condizione di esistenza, di un evento, di un momento
storico, di una difficolta'. Questo avviene prima di ogni riflessione o
pensiero che possiamo fare su cio'.
Fa da modello a questo la prima esperienza in assoluto che abbiamo avuto
nella vita. Quella nella quale siamo venute e venuti al mondo: ci siamo
formati infatti nel nascere in relazione a nostra madre. E da nostra madre
dipendevamo completamente e con fiducia.
Vorrei far notare la differenza di paradigma. Di solito si afferma che
l'azione e' fondamentalmente in relazione agli altri e al contesto, mentre i
momenti di passivita' sono solitari. Qui invece dico: i momenti di
passivita', che formano il tessuto di fondo dell'azione, sono condivisi con
gli altri e con le cose, senza che di tali legami ci rendiamo conto.
L'ordito, che crea qualcosa su questo sfondo di passivita', e' nell'azione
il momento piu' individuale, piu' legato all'intenzione e alla scelta.
L'azione nel suo complesso e' "giusta" quando l'ordito dell'atto individuale
tiene conto della passivita' condivisa con altri e con il mondo.
Sono queste le azioni "giuste" che le donne a volte sanno fare. Non sempre.
Non quando si adeguano ai modelli maschili di azione, separandosi dal loro
patire il mondo.
*
La politica delle donne in Italia ha valorizzato questo agire femminile che
ha le sue radici nei contesti. Lo ha preso in considerazione, mostrando come
esso sia il terreno fertile di pratiche politiche. Ne ha mostrato il valore
simbolico. Lo ha letto alla luce di una scommessa politica di trasformazione
del nostro rapporto con una realta', che e' condivisa in modo diverso dagli
uomini.
La consapevolezza politica e' un salto simbolico, che pero' poche donne
compiono. Percio' la scommessa e' ancora tutta aperta, tutta da giocare.
In questa prospettiva e' interessante capire come le pratiche politiche si
creino e poi anche si spengano, vengano meno. Posso descrivere questo nella
politica delle donne in Italia, che e' quella che conosco meglio.
Una pratica politica nasce sempre in una situazione di scacco, di impasse:
fino a quel momento quel che si faceva aveva senso e restituiva senso nel
rapporto con il mondo, da un certo momento in poi diventa ripetitivo. La
ripetizione e' un certo modo per dire che il nostro scambio con il mondo non
ci restituisce il senso di quello che stiamo facendo. L'agire diventa vuoto,
meccanico.
Delle donne negli anni '70 hanno inventato la pratica dell'autocoscienza,
incontrandosi tra di loro per dire di se' e del loro rapporto con la
realta'. Si sono cosi' sottratte allo sguardo e al discorso degli uomini
sulle donne. Era un modo per uscire dallo scacco di un discorso circolante
sulle donne che non corrispondeva loro. A quel punto il dire di se' tra
donne aveva il godimento di dire finalmente il reale. Tutto cio' venne fatto
con la consapevolezza politica di trasformare con il loro gesto il rapporto
con uomini e donne e dunque il rapporto con il reale. La qualita' politica
del loro gesto lo differenziava da quel parlare tra donne con amicizia, che
sempre era avvenuto anche prima, ma non era stato assunto come un agire che
potesse trasformare il proprio rapporto con la realta', e dunque la realta'
stessa. Non era stato accolto come un fare politica.
Alla meta' degli anni '70 questa stessa pratica, cosi' rivoluzionaria agli
inizi, si esauri'. Incomincio' pian piano la noia di tanti racconti
affastellati l'uno vicino all'altro, senza piu' qualcosa di vitale che
affiorasse. Lo testimoniano le donne che ne sono state le protagoniste.
Il passaggio per alcune alla pratica dell'inconscio presupponeva la pratica
dell'autocoscienza, ma ne faceva un agire diverso, perche' implicava entrare
effettivamente dentro il discorso di un'altra, farle vedere i non detti, gli
elementi convenzionali, le mezze verita'.
Come si vede le pratiche, come nascono, spinte da una situazione di
costrizione, di necessita', cosi' anche si esauriscono. Declinano. Come mai?
Non si tratta tanto della forza degli inizi, della vitalita' dei momenti
sorgivi. Esse hanno piuttosto vitalita' finche' c'e' godimento dello scambio
con il reale, e le pratiche mostrano un movimento del reale. Percio' sono
simboliche. Venendo meno tale scambio, viene meno la loro capacita'
simbolica.
Quando si e' in una situazione di impasse, perche' il mondo sta diventando
muto di senso, sebbene circondate da un'infinita' di messaggi
contraddittori, si e' costrette a pensare ad un altro agire. Ad altre
pratiche. Quando si imbocca una via, si e' solo agli inizi. Non si sa verso
che cosa essa ci portera'. E di conseguenza si mette a fuoco il nuovo agire
politico, agendolo. Imparando da quel che si fa. E mettendo in parola quel
che si scopre, sia quando questo ci sembra illuminare il reale sia quando lo
vela, impedendoci di essere in rapporto ad esso.
La differenza tra queste pratiche e qualsiasi agire in comune e' la
consapevolezza di trasformare politicamente il proprio rapporto con il mondo
e dunque il mondo stesso.
Anche in ambito non femminista ho visto accadere questa dinamica. In alcune
interviste Naomi Klein, punto di riferimento tra i piu' importanti del
movimento contro gli effetti negativi della globalizzazione, faceva la
stessa osservazione. Parlando di alcune pratiche di messa in movimento
locale di azioni di dimostrazione, sosteneva che esse avevano esaurito il
loro senso, e che occorreva trovarne di nuove e di diverse. Anche in questo
caso, come nel femminismo, si trattava di pratiche locali, che avevano dato
il via ad un movimento non locale. E' anche vero tuttavia che Naomi Klein ha
avuto una madre femminista, e dunque conosce le pratiche del femminismo.
*
Cio' che vi e' di piu' pericoloso nelle pratiche e' l'identificarsi con
l'azione. Intendo con questo pensare di essere tutta nell'azione che si
compie. So che Spinoza ha scritto nell'Ethica more geometrico demonstrata
che quanto piu' si fa tanto piu' si e'. Ma se questo viene preso alla
lettera puo' diventare molto pericoloso.
Infatti il significato di un'azione simbolica e' molto piu' ampio del mio io
che compie l'azione. Se l'azione semplicemente mi rappresentasse e basta,
allora io non potrei mai scoprire in essa delle tracce di infinito, una
trascendenza, che mi rimanda a legami con il reale, che si aprono in quel
momento. Momenti del reale che io non conosco.
E' molto interessante notare che nei casi nei quali ci si identifica con
quel che si fa e si pensa di essere propriamente cio' che si fa, si diventa
inconsci.
Nella cultura greca si diceva che gli dei accecano coloro che peccano di
hubris, cioe' di suberbia dell'io. Un io sicuro di se' fino a sfidare il
cielo: si tratta di un io che si identifica con le proprie gesta. Non
accoglie momenti di passivita' nel proprio agire. Allora egli perde la
misura. Sbaglia proprio nel senso di errare: di andare di qua e di la' alla
cieca. In termini contemporanei direi che l'eroe diviene inconscio,
catturato dal suo fare. E cosi' si perde, smarrendo la misura del suo agire.
Questo e' evidente nei conflitti piu' duri, nei quali ad un certo punto
viene superato un limite e chi agisce non lascia un po' di silenzio per
cogliere qualche traccia di infinito nell'azione conflittuale. Il conflitto
e' allora diventato un corpo a corpo. Il suo io a quel punto si e'
identificato con cio' che fa e l'azione diviene inconscia. Va alla rovina
seguendo senza volerlo un vortice inarrestabile.
Si noti come il silenzio interiore e' in sintonia con quei momenti di
passivita', che fanno cogliere l'infinito nell'agire. E paradossalmente
proprio il cogliere l'infinito permette di avere il senso del limite.
Ho fin qui parlato di azione simbolica. Tuttavia sono convinta che quanto
piu' l'azione viene agita come un processo significativo per se stesso, nel
quale vengono colte verita' di se' in rapporto al mondo, tanto piu' anche il
linguaggio assume una vera importanza.
*
Anche il linguaggio puo' essere visto semplicemente come uno strumento per
fare progetti, che saranno poi da realizzare. Lo schema prevalente, che un
po' tutti abbiamo in mente, e' che si progetta con il linguaggio e poi
l'azione entra in campo come strumento di concretizzazione.
Abbiamo fin qui visto cosa sia invece un agire, che accoglie e integra lo
scopo per cui agisce in un processo molto piu' ampio nel quale e' possibile
cogliere l'imprevisto. Questa liberazione dell'azione, che da strumento
diventa significativa di per se', ha come effetto il vedere che anche il
linguaggio puo' essere non solo strumento, ma anche qualcosa di altro. Da
strumento, cioe' sostanzialmente "non-luogo" - qualcosa che viene adoperato
e poi gettato via - il linguaggio si puo' trasformare in "luogo" dove
avvengono scoperte. Il linguaggio allora e' luogo simbolico, nel quale
avviene uno scambio con la realta' di cui si parla, avvengono trasformazioni
e mutamenti politici.
Mi ha sempre colpito come Walter Benjamin in una lettera del 1916 avesse
affrontato questa questione, affermando che la liberazione dell'azione
implica la liberazione del linguaggio. Cosi' che il linguaggio assume tutta
la sua importanza politica come luogo dove avviene la politica e non mezzo
per partiti politici solo pieni di buone intenzioni. Benjamin tuttavia
mancava di una concezione articolata di un agire libero e politico.
Ho trovato invece nella politica delle donne una espressione molto ricca di
che cosa sia agire simbolico nella sua valenza di pratica politica. Non e'
un caso che proprio nella politica delle donne sia stata elaborata
parallelamente una concezione di linguaggio simbolico visto come luogo in
cui c'e' scambio con il reale.

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 496 del 3 febbraio 2003