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lavoro o salute? L'altoforno divide
- Subject: lavoro o salute? L'altoforno divide
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 6 Jun 2006 06:23:25 +0200
da il manifesto 4 Maggio 2006 storie Le contraddizioni di una giovane classe
operaia
Lavoro o salute? L'altoforno divide Piombino Claudio Passiatore L'acciaieria Lucchini passa nelle mani dei russi ma lo «spolverino», quella polverina tossica che si deposita ovunque, ha sempre lo stesso colore. C'è un muro coperto dai graffiti che separa la città dalla fabbrica. Da un lato il lavoro e l'economia, dall'altro la qualità della vita Corre lungo un chilometro il muro che divide la città dalla fabbrica. 1077 metri di cemento che separano la vita del quartiere del Cotone, a Piombino, dagli impianti di uno dei più grandi centri siderurgici italiani. Una linea di demarcazione costruita cento anni fa, simbolo della separazione della città dalla fabbrica che nel 2000 gli abitanti della zona hanno deciso di abbellire e colorare, con girasoli, clown e messaggi rivoluzionari. Sandro Papini, 52 anni, si affaccia dal balcone della sua casa con vista sulla fabbrica. «Abbiamo cercato di migliorare il nostro quartiere», spiega Papini che è stato uno dei promotori dell'iniziativa. 80 artisti provenienti da tutta Italia si sono dati appuntamento nella città Piombino, in provincia di Livorno, trentatremila abitanti, città di mare e portuale, città industriale dalla metà dell'Ottocento, per cercare di alleggerire il peso di un vicino rumoroso e inquinante. Una realtà dove negli ultimi anni le tre grandi industrie che hanno fatto la sua storia sono state ingoiate da tre multinazionali. Si chiamano Severstal (Russia), Arcelor (Francia), e Tenaris (Argentina), che rispettivamente hanno acquistato Lucchini, Magona, Dalmine. Perché Se nell'industria italiana si delocalizzano interi settori di produzione nell'est europeo o in Cina, nella siderurgia c'è la tendenza contraria. Costruire un impianto dal nulla in Polonia o Romania costa troppo. Fare l'acciaio buono come quello di Piombino è ancora più difficile. E allora le multinazionali comprano un po' in tutto il mondo. Un destino che è toccato in sorte anche alle industrie di Piombino, importante sbocco sul Mediterraneo, circa mille ettari occupati dalla fabbriche dove negli anni Ottanta lavoravano 12000 mila persone. Lo «spolverino».
A Piombino lo chiamano «spolverino». Ci sono abituati ed è ormai un pezzo della loro vita. E' il pulviscolo che si deposita sulle auto, sui balconi, sui panni stesi. Che l'inquinamento della fabbrica sia il problema della città non è difficile da capire. Le ciminiere che svettano alte accanto alla torre che come un'enorme fiaccola brucia il gas, appartenevano alla Lucchini. I critici la ritengono un carrozzone vecchio e puzzolente. Chi la difende, dice che con l'acciaio prodotto lì dentro sono stati forgiati i binari per le ferrovie di mezza Europa. Acquistata dal colosso siderurgico russo Severstal, in 15 mesi, dal giugno 2004 all'agosto 2005, ci sono stati 3 morti, ai quali va aggiunto un infortunio «in itinere» come lo definisce l'Inail, di un operaio che ha perso la vita nel gennaio 2004 mentre rientrava a casa dopo una giornata di lavoro. A essere messi sotto accusa sono i lavori affidati in appalto alle ditte esterne che si occupano della manutenzione. Se i dipendenti della ex-Lucchini sono 2064, gli operai delle ditte esterne sono circa 1500. Un incrocio tra appalti e subappalti che spesso nasconde il lavoro precario e lo sfruttamento in materia di orario e busta paga. Non migliore la situazione da un punto di vista ambientale. Una parte della cokeria, cioè l'impianto dove viene trattato il carbon-coke, inquina oltre ogni livello di guardia. Una città divisa
Secondo i molti orgogliosi sostenitori dell'acciaio e della storia siderurgica piombinese, la fabbrica è il settore trainante non solo della città ma di tutta l'area. Per altri, invece, dovrebbe chiudere per sempre e lasciare spazio ad altre attività. Non la pensa così il segretario di Rifondazione comunista della Val di Cornia, Alessandro Favilli. «A Piombino, secondo i dati Irpet (Istituto per la programmazione economica della Toscana, ndr), il 53 per cento del prodotto interno lordo viene fuori dalla fabbrica e il 47 per cento della forza lavoro è impiegata in fabbrica». Nonostante ciò, secondo Favilli, oggi dellgli stabilimenti si tende a vedere solo l'inquinamento. «Piombino non può diventare da un giorno all'altro come la diripettaia Isola d'Elba, luogo turistico con ombrelloni sulla spiaggia e alberghi. Per risolvere i problemi di inquinamento e di infortuni sul lavoro bisogna capire che si deve investire in una reidustrializzazione». Di tutt'altra opinione gli abitanti dei quartieri Cotone e Poggetto, 800 persone che vivono a qualche metro dalla fabbrica e che più risentono dell'inquinamento. A dividere le loro vite dalla ex-Lucchini, solo un muro al di sopra del quale passa il fumo della cocheria. Una vita appesa al vento di scirocco che da sud-est spinge diritto nei polmoni lo «spolverino». Katia, 31 anni, figlia di operai, casalinga e madre di un bel bambino di 5 anni vive da sempre al Cotone. Suo padre oggi combatte contro un tumore. «Quando la sera d'estate lavo mio figlio dopo che ha giocato tutta la giornata fuori, l'acqua del suo bagnetto diventa nera». Fabbrica-comune
L'inquinamento della cokeria ha costretto nel novembre 2004 il sindaco di Piombino Gianni Anselmi (Ds) a emettere un'ordinanza per la messa in riscaldo, come si dice gergo, della cokeria. Una specie di stand-by contro cui la proprietà si è opposta facendo ricorso al Tar e al Consiglio di Stato che hanno respinto la richiesta di sospensiva dell'ordinanza. Una vicenda che si è conclusa con la decisione della proprietà di fermare definitivamente l'impianto entro il 31 maggio 2006. «Non siamo anti-industrialisti, ma non è con l'abbassamento della qualità della vita e della legalità che si difende l'industria - spiega Anselmi». Nessuna intenzione di abbandonare la fabbrica, insomma, che rappresenta ancora il 30 per cento della prodotto interno lordo della città. Le prospettive sono buone e il settore siderurgico è in crescita in tutto il mondo. Il gruppo Lucchini ha chiuso il bilancio 2005 con un utile di 73 milioni di euro contro i 36 dell'anno precedente. E per il 2006 le previsioni sono di un ulteriore crescita. «La siderurgia è un settore che tira a livello mondiale - spiega il segretario della Fiom Giorgio Cremaschi. Per questo le multinazionali investono e comprano impianti siderurgici anche in Italia, dove la sola regola è quella del mercato e quando le aziende non guadagnano abbastanza (o intendono trasferire la produzione per ragioni geopolitiche, ndr) se ne vanno, come è successo a Terni dove la proprietà Thyssen-Krupp ha chiuso la produzione del lamierino magnetico». Per i dirigenti della ex-Lucchini il futuro sembra non essere questo. Entro il 2013 è prevista la prima grande tappa di rifacimento dell'altoforno, il cuore dell'acciaieria. Un intervento importante anche sotto l'aspetto economico che l'azienda ha già garantito. «Provvederemo quando sarà il momento», ha spiegato Giovanni Gillerio, amministratore delegato della Lucchini-Severstal. La nuova classe operaia
In una fabbrica che cambia cambiano anche gli operai. Giovani che fanno un lavoro «tosto», qualche volta pericoloso, e pagato con mille euro al mese. Uno stipendio che non permette una vita tranquilla ma solo la roulette russa di arrivare alla fine del mese cercando di non sforare nel conto in banca. Sono queste le nuove tute blu della ex-Lucchini dove l'80 per cento dei lavoratori è al di sotto dei 40 anni. «La paga è di mille, mille e cento euro. Il minimo per sopravvivere, e spesso non ci arrivi neanche al venti del mese - racconta Stefano Bianchi, operaio della ex-Lucchini». In un linguaggio di altri tempi si direbbe che la classe operaia è non è più in paradiso. Per un aumento di 100 euro e il rinnovo del contratto (firmato a gennaio dopo lo sciopero nazionale) ci sono voluti 12 mesi di contrattazione tra sindacati e Federmeccanica. Secondo Pino Bertelli, fotografo ed ex operaio licenziato in tronco dall'Ilva, la firma non ha però abbattuto i due mali delle lotte operaie: la debolezza del sindacato e la precarietà. Per portare avanti le sue idee e le sue lotte, Bertelli è stato espulso dal sindacato e licenziato dall'Ilva. La sua colpa è stata di aver denunciato sul Tirreno e sul manifesto un grave inquinamento causato dalla fabbrica. «La mia era una battaglia ambientale - dice Bertelli. Una migliore qualità della vita in fabbrica doveva servire a migliorare la vita anche in città». Oggi Bertelli si è dedicato a tempo pieno alla fotografia, lo strumento con cui ha raccontato la «diversità» e le storie dei più deboli, dall'Iraq a Chernobyl. «Ho fatto ciò che in fabbrica non si poteva più fare - dice Bertelli. Quando nel 1961 sono entrato all'ex Ilva c'erano ancora i partigiani che hanno combattuto per la libertà e per i più deboli dentro e fuori gli stabilimenti. La città e la fabbrica erano un tutt'uno, non era possibile pensare alla fabbrica e alle sue lotte senza l'appoggio della città». Tra l'ambiente i il lavoro
Una spaccatura tra i due mondi di una stesso territorio in parte ripercorribile nella vita di Ilio Musi. 41 anni di Castagneto Carducci, paese a una ventina di chilometri da Piombino, Musi è entrato in fabbrica da appena un anno. Nello stabilimento Lucchini lavora all'altoforno. Sulla pelle ha alcune piccole cicatrici, segno degli schizzi dell'acciaio fuso con cui ha che fare tutti i giorni. Per arrivare in fabbrica la sveglia suona alle 4,30. Un'ora dopo c'è l'autobus degli operai. Sta fuori fino alle 18, quando può tornare nella sua casa immersa nel verde della Val di Cornia dove vive con la sua moglie Aurora e le due figlie Alice ed Elita. Dopo la giornata passata nello stabilimento di Piombino, dimenticato l'altoforno, le preoccupazioni e i pensieri dei coniugi sono rivolti unicamente a loro. Elita ha 13 anni e dalla nascita ha un grave handicap causato da una paralisi celebrale. A lei e ai temi dei diversamente abili Ilio e Aurora hanno dedicato la loro vita e il loro impegno. Sulla loro storia, hanno realizzato un cortometraggio che racconta delle difficoltà, dei pregiudizi verso l'handicap, delle gioie e dei progressi di Elita. «L'abbiamo voluto fare per sensibilizzare la gente e dare un messaggio sulle capacità di nostra figlia e di tutti i bambini come lei». Una battaglia che combattono con vitalità e senza scoraggiarsi. Una battaglia appassionata che portano avanti per i loro diritti e per un mondo migliore fuori dello stabilimento, oltre il muro sempre più alto che divide una città dalla sua fabbrica. |
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