Uranio impoverito e basi\ poligoni sardi dal quotidiano di sardegna del 28\4\2005



Il caso. Una commissione di inchiesta con troppi dubbi e misteri: intanto la
sindrome dei Balcani continua a uccidere
Trentatré morti da uranio impoverito
l'Italia attende risposte e giustizia

CI SONO M I L I TA R I CHE MUOIONO nel
silenzio. Emilio Di Zazzo era un
brigadiere dei carabinieri. Aveva
quarantasei anni. Secondo l'Osservatorio
militare è la vittima numero trentatré
dell'uranio impoverito. Trentatré
morti in Italia, di cui due in Sardegna,
per la sindrome figlia dei Balcani che ha
iniziato a farci fare i conti con neoplasie
maligne come il linfoma di Hodgkin e
gravi forme di leucemia. L'allarme sul
Du, l'uranio impoverito, nacque quando
ad alcuni soldati che avevano partecipato
alle operazioni militari nei Balcani
vennero diagnosticate alcune forme
tumorali: fu allora che si cominciò a
parlare di una relazione tra l'uso dell'uranio
impoverito nelle armi e l'insorgenza
delle patologie. Da quel momento,
si sono create e radicate convinzioni
differenti, talvolta di segno opposto:
da una parte chi afferma che l'uranio
impoverito vada assolto; dall'altra
quelli che sostengono che il problema
è sottovalutato e a volte anche nascosto.
C'è poi chi punta il dito sulle microparticelle
sprigionate dalle esplosioni
e, più in generale, sulle alte temperature
generate dall'impatto tra il
proiettile e la corazza del carrarmato.
La commissione
La prima risposta dello Stato alla
"sindrome dei Balcani" viene, il 22 dicembre
del 2000, dalla decisione dell'allora
ministro della Difesa, Sergio
Mattarella, di istituire una commissione
d'inchiesta sul fenomeno. A
marzo la commissione, presieduta
dall'ematologo Franco Mandelli, nel
suoprimo rapporto presenta una relazione
nella quale non emergono
connessioni tra i linfomi diagnosticati
ai militari italiani in missione all'estero
e l'esposizione all'uranio impoverito.
Ma i dati - venne fuori successivamente
- erano viziati da un errore
nella raccolta. Antonio Martino,
nuovo ministro della Difesa, autorizza
così la proroga dei lavori della
commissione. Ma, proprio quando
sono attese le conclusioni arriva l'11
settembre: da quel momento sulla
questione cala un velo di silenzio.
Mentre i nostri soldati continuano ad
essere impiegati in missioni in Afghanistan
e in Iraq, proseguono le
denunce delle patologie, ma le domande
di giustizia dei soldati malati
e delle famiglie di quelli morti non
trovano risposta da parte delle autorità
militari e politiche.
La Sardegna di Vacca e Diana
L'indennizzo di novecento mila euro
acccordato dall'avvocatura di Stato
al maresciallo Marco Diana ha riaperto
molte speranze anche se il ministero
della Difesa nega che ci sia un
relazione tra la malattia del sottufficiale
e l'esposizione all'uranio impover
ito.
Ma la Sardegna ha già due croci nel
suo terreno. Salvatore Vacca fu il primo
morto sardo e uno dei primi dell'esercito
italiano a causa delle armi
americane che uccidono anche ad
anni di distanza dal loro impiego. La
malattia lo colse durante una licenza
dalla missione in Bosnia, bombardata
cinque anni prima con quasi diecimila
proiettili all'uranio impoverito.
Era il 1999 e il sottufficiale di Nuxis
aveva 24 anni. Il rientro per la breve
vacanza diventò subito un calvario.
Ricoveri in ospedale militare, a Cagliari,
dove - si legge nelle perizie della
Procura penale del capoluogo -
non gli viene subito diagnosticata la
leucemia che lo ha colpito: la diagnosi
corretta arriva quando ormai è
troppo tardi. Il giovane militare, racconterà
poi la madre, dormiva in una
ex caserma dell'esercito serbo bombardata
dagli Usa e rimessa in sesto
dalle truppeitaliane: il posto peggiore
dove accamparsi, ma in quegli anni
le nostre forze armate non adottavano
alcuna protezione contro le
polveri mortali generate dai proiettili.

Denise Faticante


La guerra e il veleno infinito
Valery Melis è morto il 4 febbraio dello scorso
anno. A stroncare la sua giovane vita è stata una
rarissima forma di leucemia, il linfoma di Hodgkin.
L'aveva contratta proprio al ritorno da alcune
missioni di pace nei Balcani. Ora la famiglia
continua a lottare perché sia fatta giustizia:
"Non è certo una questione di soldi" dicono i
genitori, «Valery non c'è più, è questo che conta,
ma lottiamo per la sua dignità». A un anno
esatto dalla scomparsa del giovane c'è stata la
prima udienza del processo per la causa di risarcimento,
intentata dai genitori contro lo
Stato. Il 4 maggio, poi, a tre mesi di distanza, ci
sarà la seconda. Aveva deciso di servire la Patria
Valery, caporalmaggiore di Quartu: dopo una
prima missione di pace in Albania, nel 1998,
era ripartito. Nel '99 tre mesi a Katlanuvu, tra
Kosovo e Macedonia, a prestare assistenza alle
migliaia di profughi insieme a tanti altri soldati.
Poi il ritorno a casa, stanco e indebolito, e, tra
settembre e ottobre, i primi sintomi della malattia.
Alla fine del '99 la diagnosi: linfoma di
Hodgkin al quarto stadio. Aveva 26 anni e per
lui iniziava un calvario che in 4 anni l'avrebbe
portato alla morte. Un ciclo di chemioterapia
durato 8 mesi, poi altri due di radioterapia. Nel
2002 la prima ricaduta, altra chemio e un autotrapianto
di cellule staminali. Nel 2003 la seconda
recidiva, un altro trapianto e finalmente
il ritorno a casa, nel gennaio 2004. L'operazione
era andata bene, nessuna complicazione,
ma le condizioni del giovane hanno continuato
a aggravarsi sino a portarlo, il 4 febbraio, alla
morte. (g.a.)
L'uranio impoverito viene usato in guerra e nelle
esercitazioni per bucare le corazze dei carri armati.
Quando un penetratore all'uranio impatta
su un obiettivo, o quando un tank con corazzatura
all'uranio o munizioni di questo genere
prende fuoco, parte dell'uranio impoverito brucia
e si ossida in piccole particelle. I penetratori
all'uranio impoverito che non colpiscono l'obiettivo
possono rimanere nel suolo, essere sepolti
o rimanere sommersi nell'acqua. I penetratori
"spenti" si ossideranno nel corso del tempo,
disgregandosi in polvere di uranio. I test dell'Us
Army hanno dimostrato che quando un penetratore
all'uranio impoverito colpisce un
obiettivo, dal 20 al 70 % del penetratore brucia e
si ossida in piccole particelle. La polvere prodotta
da un impatto iniziale potrebbe essere rimessa
in sospensione da impatti successivi. La polvere
di uranio creata dagli impatti finisce per depositarsi
entro un raggio di 50 metri . Test di
esplosioni e studi sul campo hanno mostrato
che la maggior parte della polvere di uranio creata
dagli impatti finisce per depositarsi
entro un
raggio di 50 metri .

Quell'indagine che portò al nulla
Le morti dei militari colpiti da queste sindromi tumorali
si assomigliano tutte, ma non sono state finora
riconosciute ufficialmente. Questi mali portano
alla morte, ma la morte non porta al riconoscimento
della causa di servizio, a un risarcimento per l'impegno
nelle missioni di pace che in questo decennio -
dalla Somalia in poi - hanno coinvolto decine di migliaia
di militari italiani. Nel suo primo rapporto la
commissione Mandelli esclude il rapporto tra malattia
e uranio. Le conclusione finali sono invece un clamoroso
dietrofront: nel numero delle patologie si riscontra
un eccesso di linfomi di Hodgkin. OraMandelli
non presiede più la Commissione, ma i lavori
sono tutt'ora aperti. Ma la verità e aldilà da venire.


genitori di Valery. «L'indennizzo a Marco Diana ci dà la forza di aiutare le
famiglie che combattono per i loro diritti»
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«Saremo noi
i capofila
della lotta»
« C o o rd i n e re m o
le iniziative dei sardi
vittime delle missioni
di pace all'estero
È un dovere verso
nostro figlio
morto per lo Stato»
GIULIA ANTINORI


COORDINEREMO LE FA M I G L I E delle
vittime nella lotta gli indennizzi
»: Marie Claude e Dante
Melis, genitori del giovane Valery,
morto un anno fa al ritorno da una
missione di pace nei Balcani, sono
più che mai decisi a portare avanti la
loro causa contro il Ministero della
Difesa. «Aiuteremo tutte le famiglie
sarde a lottare per i propri diritti», ha
detto Marie Claude Melis, «metteremo
la nostra triste esperienza al servizio
di tutti». Da martedì la famiglia
Melis lotta con una marcia in più. La
notizia del riconoscimento dell'indennità
a MarcoDiana, maresciallo
dell'Esercito, in congedo per cause
di servizio, ha ridato loro un po' di
speranza. «Nessuno potrà ridarci
nostro figlio» ha detto Dante Melis,
«ma ora sappiamo che qualcosa si
sta muovendo». Proprio così. L'avvocatura
dello Stato ha ritenuto fondata
la richiesta di pagamento del
danno biologico, avanzata dal maresciallo
Marco Diana. Lo Stato dovrà
ora pagare al militare di Villamassargia,
un indennizzo di oltre un
miliardo e settecento milioni delle
vecchie lire. «La sentenza a favore di
Marco Diana ha aperto uno spiraglio
per la nostra lotta e per quella di
tante famiglie» ha detto Marie Claude
Melis, «Ora più che mai dobbiamo
continuare a combattere».
E proprio la famigliaMelis sarà il
capofila di questa lotta, della battaglia
di tante famiglie per ottenere
giustizia. Tanti, infatti, i militari sardi
che devono fare i conti con gravi
malattie causate dall'esposizione a
sostanze cancerogene durante le
missioni di Pace all'estero e tante,
soprattutto, le famiglie che hanno
perso un proprio caro e vogliono
che sia fatta giustizia. Ma come?
«C'è chi non sa come muoversi, chi
contattare, cosa fare» ha spiegato
Marie Claude Melis, «noi l'abbiamo
imparato a nostre spese e vogliamo
che la nostra esperienza sia d'aiuto
agli altri». Proprio per questo la famiglia
Melis coordinerà le famiglie
sarde «vittime delle missioni di Pace
» nella lotta per le indennità. Già
neimesi scorsi sono state organizzate
alcune riunioni in giro per la
Sardegna per incontrare genitori,
mogli e figli di militari deceduti al
ritorno dalle missioni di Pace o gravemente
malati.
Le ultime tappe sono state Alghero
e Oristano, ma ora la maratona
continua. Con la famiglia Melis anche
Marco Diana, la famiglia di Giovanni
Pilloni e quella di Fabio Porru:
«Ci si da una mano, un sostegno»
ha raccontato DanteMelis, «ognuno
racconta le proprie esperienze e
ciò serve anche a sentirsi meno soli
». Sono però anche tante le famiglie
che, nonostante la situazione,
non denunciano il fatto: «Molti
hanno paura, magari sono stati minacciati
o hanno ricevuto vane promesse
» ha precisato Marie Claude
Melis, «vogliamo fare un appello
perché escano allo scoperto e chiedano
aiuto: siamo qui per darci una
mano, il loro dramma coinvolge
anche noi».

Lungo calvario tra rabbia e dolore

Aveva 26 anni, per quattro ha lottato contro una forma di leucemia: il
linfoma di Hodgkin
Valery Melis è morto il 4 febbraio dello scorso
anno. A stroncare la sua giovane vita è stata una
rarissima forma di leucemia, il linfoma di Hodgkin.
L'aveva contratta proprio al ritorno da alcune
missioni di pace nei Balcani. Ora la famiglia
continua a lottare perché sia fatta giustizia:
"Non è certo una questione di soldi" dicono i
genitori, «Valery non c'è più, è questo che conta,
ma lottiamo per la sua dignità». A un anno
esatto dalla scomparsa del giovane c'è stata la
prima udienza del processo per la causa di risarcimento,
intentata dai genitori contro lo
Stato. Il 4 maggio, poi, a tre mesi di distanza, ci
sarà la seconda. Aveva deciso di servire la Patria
Valery, caporalmaggiore di Quartu: dopo una
prima missione di pace in Albania, nel 1998,
era ripartito. Nel '99 tre mesi a Katlanuvu, tra
Kosovo e Macedonia, a prestare assistenza alle
migliaia di profughi insieme a tanti altri soldati.
Poi il ritorno a casa, stanco e indebolito, e, tra
settembre e ottobre, i primi sintomi della malattia.
Alla fine del '99 la diagnosi: linfoma di
Hodgkin al quarto stadio. Aveva 26 anni e per
lui iniziava un calvario che in 4 anni l'avrebbe
portato alla morte. Un ciclo di chemioterapia
durato 8 mesi, poi altri due di radioterapia. Nel
2002 la prima ricaduta, altra chemio e un autotrapianto
di cellule staminali. Nel 2003 la seconda
recidiva, un altro trapianto e finalmente
il ritorno a casa, nel gennaio 2004. L'operazione
era andata bene, nessuna complicazione,
ma le condizioni del giovane hanno continuato
a aggravarsi sino a portarlo, il 4 febbraio, alla
morte. (g.a.)


Poligoni. Ventiquattromila ettari contro i sedicimila di tutto il resto
dell'Italia: sono i numeri dell'occupazione militare-.
Sardegna isola di guerre simulate
Pierangelo Masia,
commissione Sanità,
è soddisfatto
per l'indennizzo
al maresciallo Diana:
«La nostra indagine
porterà altri risultati»
Esercitazioni militari Nato a Teulada
ANTONIO MORO
L' I N D E N N I Z ZO R I CO N O S C I U TO
dallo Stato italiano al maresciallo
Marco Diana è
un motivo di grande soddisfazione
anche per la commissione regionale
della Sanità che indaga sugli effetti
dell'utilizzo dell'uranio impoverito
in Sardegna». Ne è convinto
Pierangelo Masia, presidente della
settima commissione che dal settembre
scorso vuol vederci chiaro
su quanto accade nei poligoni militari
dell'isola. «Abbiamo svolto numerose
audizioni e puntuali verifiche
sul campo, ascoltando i diretti
interessati, gli amministratori, i
medici e anche i pastori dei paesi in
cui si svolgono le esercitazioni -aggiunge
il consigliere sassarese dello
Sdi. La nostra iniziativa contribuisce
a sensibilizzare i sardi (e non solo)
su un problema grave e sentito».
Non è un caso che immediatamente
dopo quella del Consiglio regionale
anche il Parlamento abbia attivato
un'indagine conoscitiva sulle
basi militari in Sardegna e in particolare
sul rischio inquinamento
nell'Arcipelago della Maddalena.
Il lavoro della commissione
guidata da Masia, dovrebbe concludersi
prima dell'estate, ma dichiara
il presidente «ci troviamo
di fronte ad una mole di lavoro
che ci porterà a prorogare l'indagine
per qualche mese».
Verificare la corrispondenza tra
le numerose denunce e la realtà
dei fatti in ordine ai rischi per la
salute dove insistono i poligoni
militari, è da sempre questione
controversa. Già dal '90 il professoreCortellesa,
responsabile della
gestione dei dati socio sanitari e
ambientali dell'Istituto superiore
della Sanità, affermò che i dati di
radioattività a Santo Stefano non
erano affatto corrispondenti alla
realtà. L'assenza di controlli
scientifici sulla qualità dell'ambiente
e sull'inquinamento, continua
a rappresentare una preoccupazione
per la salute di quelle
comunità. Sono tante le zone
considerate a rischio in Sardegna:
da Quirra a Villaputzu, da Escalaplano
fino a La Maddalena. Tante
le denunce in questi ultimi anni
da parte delle associazioni, dei
comitati e di quelle forze politiche
che hanno sempre mostrato contrarietà
alla presenza dei militari
nell'isola. Diversi i casi che hanno
destato allarme, in particolare:
Quirra, dove risulta che sei militari
sono deceduti per patologie tumorali,
quattro ne sono affetti e
dei centocinquanta civili, due sono
deceduti per la medesima causa
e undici sono affetti da tumore.
Escalaplano: con una popolazione
di 2600 abitanti avrebbe registrato
undici bambini nati con
gravi malformazioni genetiche e
quattordici casi di tumori tiroidei
accertati. E l'estensione delle zone
destinate alle esercitazioni militari
nell'isola fa paura, quasi
quanto i rischi per le popolazioni.
Il demanio militare permanentemente
impegnato ammonta a
24mila ettari contro i 16mila del
resto dell'Italia. Dodicimila sono
Gli amministratori
chiedono chiarezza
sui rischi per la salute
nelle comunità
gravate dalle servitù
che interessano
l'aria la terra e il mare
gli ettari gravati da servitù e le "zone
di sgombero a mare" superano
l'intera superficie dell'isola. In
Sardegna c'è di tutto e di più. Capo
Teulada, con i suoi 7200 ettari è,
per estensione, il secondo poligono
d'Italia, destinato alle esercitazioni
terra-aria-mare, messo a disposizione
dellaNato. ADecimomannu
c'è l'aeroporto dell'Alleanza
atlantica (gestito dall'Awti)
per l'addestramentoal volo e
per le esercitazioni nei vicini poligoni
di Teulada, Quirra e Capo
Frasca. Quest'ultimo (1416 con
un'area di sicurezza interdetta alla
navigazione) utilizzato dalle
aeronautiche e dalle marine italiane,
tedesche e Nato con esercitazioni
di tiro a fuoco aria-terra e
mare-terra. La Maddalena, dove i
sommergibili a testata nucleare si
trovano all'interno di un Parco
nazionale, quello dell'Arcipelago
e uno internazionale, quello delle
Bocche di Bonifacio.Ma neppure
il contestato Parco del Gennargentu,
ferma i giochi di guerra. È
gravato dalla lettera "D". Significa
uno spazio aereo militarizzato di
600mila ettari che grava sul cuore
della Sardegna senza il supporto
di servitù o demanio militare a
terra. È li che osano gli elicotteri.