Il genio della bottiglia. La sicurezza e il settore nucleare



articolo tratto da governareper.it, area ulivista nata per appoggiare Romano Prodi:

Il genio della bottiglia. La sicurezza e il settore nucleare

di Giuseppe Cucchi
13 apr 05
È illusoria la speranza di riuscire a riconquistare una condizione di assoluta sicurezza nel settore del nucleare. Potremo arrivare a controllare il fenomeno, mai ad eliminare del tutto la possibilità di ricevere colpi improvvisi e terribili. Il genio nucleare è definitivamente uscito dalla sua bottiglia e non esistono né minacce né lusinghe che possano convincerlo a rientrare.


Il genio nucleare non vuole più rimanere confinato all’interno della sua bottiglia. Si agita, scalpita, fa capolino dal tappo, sparisce per qualche giorno o qualche settimana, riappare nell’attimo in cui la sua comparsa è più inaspettata o più scomoda, sfugge ad ogni controllo. Solo di tanto in tanto riusciamo ad intravederlo magari inserito nella complessa ragnatela di ricatti tessuta da un rogue state o impegnato ad annodare legami con la malavita internazionale o mentre flirta con un qualsiasi movimento terroristico. Poi sparisce di nuovo e noi ci culliamo in un’angustia di mano in mano più acuta e ormai prossima a superare i limiti raggiunti nel periodo del confronto nucleare dei blocchi quando l’olocausto nucleare appariva ad ogni istante come una possibilità immanente e concreta.


E pensare che alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, nel momento in cui firmammo e ratificammo tutti insieme il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Non Proliferation Treaty o Npt o Tnp) ci eravamo illusi di avere almeno imbrigliato questo genio maligno attraverso un accesso alla tecnologia nucleare ad uso militare limitato ad un ristrettissimo numero di Stati – “Potenze Nucleari” li chiamava pomposamente il Tnp! – che offrissero ogni possibile garanzia di stabilità politica ed istituzionale. Negli anni successivi la realtà ha però dimostrato quanto sia illusorio coltivare speranze non supportate da adeguati strumenti. Un concetto che Teodoro Roosvelt, il vecchio Roosvelt, in altri tempi esprimeva sostenendo che è sempre bene “parlare a bassa voce ma avere al seguito un grosso bastone”. Il Tnp era infatti un trattato in molti punti carente. Innanzitutto esso prevedeva che la ratifica non dovesse in alcun modo intralciare lo sviluppo del nucleare a fini pacifici. Le Potenze Nucleari erano anzi tenute ad aiutare lo sviluppo dei firmatari non nucleari in questo settore, facilitandone se del caso l’accesso alle tecnologie critiche. C‘è da meravigliarsi quindi se oggi l’Iran sostiene di muoversi entro i limiti del consentito allorché lo si accusa di aver posto in opera impianti destinati all’arricchimento dell’uranio? O se, in perfetto parallelo, la Russia rifiuta di interrompere quelle forniture a Teheran che essa considera perfettamente lecite e che sono perfettamente lecite perlomeno sino a che ci si attiene alla lettera e non allo spirito del Tnp? Persino gli Stati Uniti, che ricoprono in questo momento il poco invidiabile ruolo di custodi del genio e della bottiglia, sono costretti ad ammettere come in queste condizioni sia del tutto inappropriato parlare di violazione del Trattato. Occorrerebbe invece considerare seriamente l’ipotesi di una sua revisione (dichiarazioni del Presidente Bush de il 15/03/05). In secondo luogo come tutti i trattati il TNP è valido soltanto per una ben precisa categoria di Stati vale a dire per quelli che negli anni hanno ritenuto opportuno firmarlo e ratificarlo. Ciò ha portato alla automatica esclusione dalla disciplina che esso impone di tutti coloro che per una ragione o per l’altra non hanno ritenuto di doversi autoescludere dalla corsa alla proliferazione. Eccezioni certo, ma eccezioni di straordinaria importanza se si considera come in questa categoria rientrino protagonisti di assoluto rilievo come Israele, l’India ed il Pakistan. Tutti e tre divenuti, nel filo degli anni , membri del club delle potenze nucleari. In ogni caso poi anche se si è tra i firmatari del Trattato il Tnp prevede – ed è questa la terza delle sue debolezze – una comoda via di uscita nel caso in cui si cambi idea. Basta infatti denunciare la volontà di recesso ed in tre mesi si è fuori, liberi di imboccare qualsiasi strada si sia deciso di prendere, ivi compresa quella della proliferazione. L’intenzione di recesso, autentica o enunciata a fini esclusivamente politici che essa sia, serve poi mirabilmente da strumento di ricatto. Lo sa molto bene la Corea del Nord che per un lungo periodo ha tenuto in tensione la comunità internazionale con il suo “ esco /non esco” dal Tnp. Infine due altri punti, forse i più importanti di tutti. In primo luogo il fatto che il Tnp identifica adeguati strumenti di controllo senza però prevedere nel contempo alcuna sanzione concreta nei riguardi di eventuali violatori. Si tratta evidentemente di una lacuna intenzionale. Non si riesce infatti ad immaginare quali possano essere le sanzioni che la comunità internazionale sarebbe eventualmente in grado di decidere ed applicare nei confronti di un reprobo. Allorché i tre Stati di cui si è parlato in precedenza sono divenuti nucleari - e due di loro si sono affrettati a proclamare immediatamente con orgoglio quale fosse la loro nuova condizione - le reazioni sono state soltanto di facciata ed i pochi provvedimenti concreti adottati nei loro confronti sono stati cancellati dopo pochissimo tempo, vittime di considerazioni di carattere strategico. In secondo luogo il trattato non prevede alcuna garanzia per le Cosiddette “Potenze non nucleari”. Almeno in linea teorica esse potrebbero quindi essere tranquillamente vittime di un ricatto o addirittura di un attacco nucleare senza che le “Potenze nucleari” firmatarie siano in alcun modo obbligate ad intervenire per difenderle o comunque aiutarle. È ben vero che per alcuni queste garanzie sono sancite in altri fori e fornite nell’ambito di altre organizzazioni. È quanto avviene per tutti gli Stati che non dispongono di potenziale nucleare e sono membri della Nato. Per la maggioranza dei firmatari però un Tnp onusto di tutte queste carenze finisce col configurarsi come un vero e proprio “patto leonino” che comporta soltanto vantaggi per il ristretto circolo di chi goda di uno status nucleare riconosciuto e unicamente svantaggi per tutti gli altri. Si tratta di una condizione già difficile da accettare in tempi normali, allorché la sicurezza collettiva non appare particolarmente a rischio, ma che diviene del tutto inaccettabile quando sopravvengono elementi nuovi destinati a far lievitare in maniera esponenziale il nostro livello di insicurezza reale o percepito che esso sia. Il che in fondo è la medesima cosa.


Per la maggioranza degli analisti strategici, la proliferazione, pur rimanendo sempre riprovevole, diviene molto pericolosa soltanto quando non risulta stabilizzante. L’esempio classico a riguardo è quello dei cinquanta anni di confronto fra i due blocchi durante i quali, secondo la terminologia in uso “ la possibilità di essere costretti a combattere la guerra impossibile, cioè quella nucleare, rese impossibile anche impegnarsi in quel tipo di guerra che restava possibile, cioè quella convenzionale”. Si tratta di una regola che si è rivelata valida anche per i membri irregolari del club nucleare. Gli ordigni a disposizione di Israele e la sua disponibilità ad utilizzarli nell’ambito di una dottrina di impiego conosciuta come “ipotesi Sansone” hanno infatti finito col bilanciare la superiorità convenzionale degli stati arabi, nonché l’esistenza in Nord Africa e Medio Oriente di un vasto arsenale chimico e biologico. Non è un caso il fatto che quasi tutti gli stati arabi abbiano costantemente rifiutato di ratificare le convenzioni per il bando delle armi B e C di cui sono firmatari sostenendo - la frase è del Presidente Mubarak – che “il biologico ed il chimico sono il nucleare dei poveri”. Israele comunque non combatte più una guerra dal 1973, vale a dire dall’anno in cui prese seriamente in considerazione l’ipotesi di porre in atto l’”ipotesi Sansone “dopo gli iniziali rovesci nel conflitto dello Yom Kippur. Anche nel caso dell’India e del Pakistan la proliferazione ha finito col risultare stabilizzante, forse perché ha interessato i due Stati rivali pressoché nel medesimo tempo. Ora anzi la stabilizzazione è giunta a tal punto che per la prima volta entrambi si interrogano con serietà sulla opportunità di ricercare una soluzione negoziata per il Kashmir. La possibilità di un nuovo conflitto è infatti del tutto esclusa dalla prospettiva di una escalation che potrebbe anche non arrestarsi alla soglia nucleare. Almeno nel caso del Pakistan ciò non esclude però il fatto che con i fattori di stabilizzazione convivano anche pesanti elementi di potenziale destabilizzazione. La situazione politica del paese e l’idea che esso possa soccombere domani a tensioni interne di matrice estremistica religiosa lasciano infatti l’immaginazione libera di spaziare su terrificanti prospettive di gruppi integralisti in controllo di 30/60 testate e di adeguati mezzi di lancio. Come verificato di recente, il polo nucleare pakistano è inoltre rapidamente divenuto un centro di irradiamento di conoscenze e di materiali verso destinazioni che sfuggono del tutto al controllo del Governo attualmente al potere ad Islamabad.


Su questa situazione di per sé già pesante ma ancora controllabile, sia pure con grande difficoltà, si innestano ora i due differenti casi dell’Iran e della Corea del Nord ove il processo di proliferazione appare sin dall’inizio destinato ad imporsi come fortemente destabilizzante. L’accesso al nucleare da parte di Teheran sancirebbe infatti la nascita e l’affermazione di una nuova potenza regionale destinata a dominare in una area geografica che va dal Mediterraneo all’Afghanistan estendendosi altresì in direzione della penisola arabica; una area pressoché coincidente con quella in cui i musulmani sciiti sono maggioranza. Tutti gli equilibri strategici in atto verrebbero di conseguenza posti in discussione, da quelli che esistenti da secoli fra sciiti e sunniti nonché fra arabi e persiani a quelli che gli Stati Uniti cercano ora faticosamente di imporre attraverso una serie di guerre ed una costante presenza per cui stanno pagando un prezzo molto elevato. Salterebbe inoltre l’equilibrio delle forze che garantisce lo “stato di non guerra “fra Israele ed il mondo islamico. È comprensibile quindi come a questo punto divengano sempre più insistenti e credibili le voci di un possibile strike preventivo degli Stati Uniti od israeliano sui presunti siti nucleari iraniani. Per una volta almeno Washington sembra però disposta a giocare di fino nel corso di questa partita. O forse cerca soltanto di spiazzare l’avversario. Così autorevoli esponenti del Governo ventilano la possibilità che gli Stati Uniti si uniscano al Direttorio europeo nella trattativa ora in corso con Teheran. Contemporaneamente però il Presidente Bush aumenta lo spessore della cortina di fumo arrivando a sostenere, nel testo del medesimo discorso, da un lato che “non vi è alcun piano per uno strike preventivo contro l’Iran” e dall’altro che “nessuna ipotesi di azione contro l’Iran è comunque esclusa a priori”. Al Pentagono vengono poi finanziati progetti ricerca per mini ordigni nucleari destinati a distruggere bunkers ed infrastrutture sotterranee….E quali e dove siano questi bunkers e queste infrastrutture chi lo deve capire lo capisca! Da parte israeliana infine non si fa mistero (la notizia è del 16 marzo) del fatto che il Primo Ministro Sharon abbia già dato alle Forze Armate l’ordine di approntare i piani per una eventuale azione di sorpresa. Tra l’altro il fatto che ciò avvenga in questo particolare momento politico caratterizzato dal miracolo della ripresa delle trattative di pace fra israeliani e palestinesi dimostra come Tel Aviv consideri una eventuale proliferazione nucleare iraniana tanto pericolosa e destabilizzante da far passare in secondo ordine ogni altra considerazione. Altrettanto e per alcuni aspetti ancora più destabilizzante della proliferazione iraniana è poi la proliferazione nucleare della Corea del Nord. Ci troviamo qui di fronte al caso anomalo di un potenziale nucleare usato come efficace strumento per impedire la bancarotta del regime al potere. Caso anomalo e strano ma non del tutto nuovo poiché quando l’Urss esplose in quindici differenti Stati una tecnica eguale, fatto salvo qualche minore adattamento, fu utilizzata tanto dalla Ucraina quanto dal Kazakistan. Rispetto a quei due esempi la proliferazione nucleare nord coreana ha però la peculiare caratteristica di rischiare di far saltare tutti gli equilibri di un’area ove i soggetti che potrebbero accedere con rapidità alla capacità nucleare sono parecchi. Non è affatto detto, tra l’altro, che alcuni in realtà non lo abbiano già fatto. Sulla Corea del Sud ci sono fortissimi sospetti della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) e se fino ad ora se ne è parlato molto poco ciò dipende dal fatto che quella Corea figura sulla lavagna nella colonna dei buoni e che la politica internazionale ha dei precisi tabù e delle chiare regole. Analogamente non si è mai approfondito il fatto che il Giappone disponga di impianti nucleari ben più avanzati di quelli iraniani o nord coreani - con conseguente confortevole produzione di uranio arricchito o di plutonio utilizzabili a scopi militari - possieda missili sviluppati ufficialmente per il lancio di satelliti ma che potrebbero agevolmente essere utilizzati come mezzi di lancio di ordigni ed abbia raggiunto un livello tecnologico così avanzato da consentirgli di accedere al nucleare militare in modo quasi istantaneo. Sempre che, come nel caso della Corea del Sud, ciò non sia già avvenuto…


Un esame dei problemi posti dalla proliferazione che si limiti ai soli Stati rischia però in questo particolare momento storico di risultare inadeguato e riduttivo a causa del prepotente irrompere in scena di un terrorismo internazionale che appare pienamente disponibile a compiere il terribile balzo di qualità costituito dal passaggio dall’utilizzazione di strumenti convenzionali all’impiego di armi di distruzione di massa. Si tratta di una possibilità che gli americani hanno considerato come realistica sin dal giorno successivo all’attacco alle torri gemelle, chiedendosi soltanto “quando” ciò sarebbe avvenuto e magari “dove”si sarebbe verificato l’evento. Mai “se” ciò sarebbe o meno avvenuto. Per noi europei invece l’interrogativo era concentrato nel “se” ed è questa la ragione per cui a quattro anni di distanza dal 2001 siamo molto più indietro degli Stati Uniti nell’allestire un efficace sistema di risposta ad un attentato Nbcr. O, se non altro, di gestione delle sue conseguenze. Qualche serio dubbio in questo momento cominciamo comunque ad averlo anche noi, e non siamo i soli. Anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha infatti dato come scontata la più pessimistica fra le ipotesi nel suo recente discorso commemorativo degli attentati di Madrid invitando la comunità internazionale ad adottare con urgenza regole che le consentano di fronteggiare efficacemente il nuovo terrorismo. Dal punto di vista nucleare gli approvvigionamenti non dovrebbero risultare molto difficili per eventuali malintenzionati. Come si sottolineava alcuni anni fa la dissoluzione della Unione Sovietica ha infatti lasciato senza lavoro trenta mila cervelli depositari di conoscenze pericolose, ha ridotto a livelli ridicoli la sorveglianza di circa dodici mila siti ove è possibile trafugare materiale e sorgenti radioattive, ha reso evidente il fatto che il disfacimento dell’Urss era stato tale negli ultimi anni da rendere impossibile a chiunque ricostruire quanti fossero in realtà gli ordigni nucleari sovietici esistenti e dove essi fossero collocati. Su questo quadro già di per sé sconfortante si sono poi innestate quelle nuove realtà costituite dal “mercatino nucleare” pakistano, aperto a tutti i fratelli islamici, e dal ”mercatino missilistico nord coreano”, disposto ad accogliere a braccia aperte chiunque sia in grado di pagare adeguatamente. Da considerare poi come i movimenti terroristici siano in grado di muoversi con una flessibilità del tutto sconosciuta agli Stati. Risulta di conseguenza molto più difficile impedirne l’accesso alle potenziali fonti di approvvigionamento. Nel complesso siamo così di fronte ad una prospettiva estremamente cupa e tale da giustificare la proposta di una azione congiunta articolata su cinque punti con cui Kofi Annan ha concluso il suo discorso. Nell’attesa che la comunità internazionale raggiunga un accordo ci sono comunque alcune cose che possono essere fatte a livello nazionale per diminuire il rischio derivante dalla attuale situazione. Innanzitutto in ambito politico diplomatico occorrerebbe battersi seriamente per una revisione del Tnp. Intendiamoci, una revisione vera, destinata ad eliminare tutti i difetti elencati all’inizio di questo esame, non un maquillage che lo intacchi soltanto in superficie e lo lasci inalterato in profondità e sostanzialmente inadeguato alle sfide future come esso è ora. Bisognerebbe poi rendersi conto con lucidità di come la Nato costituisca l’unica valida garanzia di cui disponiamo e come di conseguenza questo aspetto della Alleanza debba essere valorizzato, pienamente esplorato e se possibile addirittura ampliato. In pari tempo potrebbe essere utile riprendere in sede Unione Europea il discorso, impostato alcuni anni fa ma poi troppo rapidamente abbandonato, relativo all’utilizzazione su scala europea delle possibilità offerte dall’esistenza di un arsenale nucleare inglese e di una force de frappe francese. È ovvio come non si possa parlare di condividere il possesso del nucleare – De Gaulle stesso affermava che “le nucleaire ne se partage pas”- ma nel dibattito di allora si stava già imponendo una idea di deterrenza condivisa (dissuasion partagèe) che forse varrebbe la pena di approfondire ulteriormente. Più difficile e molto più articolato il discorso del contrasto al terrorismo. Qui in realtà anche sul piano nazionale molto è già stato fatto. Non vi è stato però il coraggio di compiere quel passo decisivo ed indispensabile che consisterebbe nel riunire tutte le competenze, sia quelle del pre che quelle del post, nell’ambito di qualcosa grosso modo equivalente alla “Homeland Defense” statunitense.


Inutile infine, qualsiasi cosa si faccia, illudersi di riuscire a riconquistare una condizione di assoluta sicurezza in questo settore. Potremo arrivare a controllare il fenomeno, mai ad eliminare del tutto la possibilità di ricevere colpi improvvisi e terribili. Il genio nucleare è definitivamente uscito dalla sua bottiglia e non esistono né minacce né lusinghe che possano convincerlo a rientrare!