rassegna stampa: Benvenuti a Velenitaly



A cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "espresso.repubblica.it" - 04 aprile 2008

L'espresso conferma la pericolosità del vino.
L'espresso conferma tutto quanto pubblicato nell'inchiesta Velenitaly. Dopo
gli esami svolti sul vino sequestrato negli stabilimenti di Veronella e di
Massafra le procure di Verona e Taranto hanno contestato il reato di
adulterazione di sostanze alimentari (art 440) che punisce "chiunque
corrompe o adultera sostanze destinate all'alimentazione rendendole
pericolose alla salute pubblica".

Non si tratta quindi di una truffa innocua con acqua e zucchero ma di una
situazione che mette a rischio la salute dei consumatori come hanno
verificato gli stessi inquirenti contestando il reato più grave. Non solo.
La presenza di acido cloridrico, acido solforico e di altre sostanze
gravemente pericolose per la salute nel vino oggetto dei primi sequestri era
citata sia nel comunicato stampa del Corpo forestale dello Stato sia nel
primo provvedimento della procura di Verona.

Finora però i vini prodotti dagli impianti incriminati sono rimasti in
commercio. Ed è sorprendente notare come nonostante gli esami abbiano
accertato da settimane la pericolosità di questi prodotti, soltanto ieri la
procura di Taranto abbia disposto il sequestro dei campioni di vino in
quindici aziende di tutta Italia che si erano rifornite presso gli impianti
sequestrati.
Quanto vino fuorilegge è stato venduto finora grazie al silenzio delle
autorità di controllo?

BENVENUTI A VINITALY
(di Paolo Tessadri)
L'espresso conferma la sua inchiesta sulla pericolosità di 70 milioni di
litri di vino a basso costo venduti in tutta Italia. Nelle botti sequestrate
finora sono state individuate tracce di concimi, sostanze cancerogene,
acqua, zucchero, acido muriatico e solo un quinto di mosto. Per questo i
magistrati hanno contestato il reato di sofisticazione alimentare, che
punisce chi produce sostanze pericolose per la salute

AGGIORNAMENTO DEL 3 APRILE, ORE 19,50
Molti lettori chiedono che L'espresso faccia i nomi delle aziende coinvolte
nello scandalo. Noi abbiamo pubblicato nell'articolo tutti i nomi e tutti
gli elementi che siamo riusciti a raccogliere con certezza. Saremmo stati
felici di pubblicare la lista completa delle ditte sotto inchiesta, ma non
siamo riusciti a ottenerla. La richiesta di piena trasparenza su questa e su
altre sofisticazioni alimentari che mettono a rischio la salute dei
consumatori - come abbiamo scritto - non va rivolta a noi ma ai ministeri
competenti: in questo caso, quello delle Politiche agricole e quello della
Sanità  Di vino ne contengono poco: un terzo al massimo, spesso di meno. Il
resto è un miscuglio micidiale: una pozione di acqua, sostanze chimiche,
concimi, fertilizzanti e persino una spruzzata di acido muriatico. Veleni a
effetto lento: all'inizio non fanno male e ingannano i controlli, poi
nell'organismo con il tempo si trasformano in killer cancerogeni.
Secondo i magistrati di due procure e la task force che da sei mesi indagano
sulla vicenda, questo cocktail infernale è il protagonista della più grande
sofisticazione alimentare mai scoperta in Italia. Perché con la miscela
tossica sono state confezionate quantità mostruose di vino. Gli inquirenti
ritengono che si tratti di almeno 700 mila ettolitri: sì, 70 milioni di
litri messi in vendita nei negozi e nei supermercati come vino a basso costo
anche dai marchi più pubblicizzati del settore. Un distillato criminale che
ha riempito circa 40 milioni di bottiglie, fiaschi e confezioni di tetrapack
d'ogni volume, offerte a un prezzo modestissimo: da 70 centesimi a 2 euro al
litro.

L'inchiesta è tutt'ora in corso: solo una parte dei prodotti pirata è stata
sequestrata perché è impossibile rintracciare tutte le bottiglie. Ma gli
elementi raccolti dagli investigatori mostrano un sistema industriale di
contraffazione che nasce dalla criminalità organizzata e alimenta le grandi
cantine: le aziende coinvolte nello scandalo sono già 20. Otto si trovano al
Nord: in provincia di Brescia, Cuneo, Alessandria, Bologna, Modena, Verona,
Perugia. Il resto invece è sparso tra Puglia e Sicilia: le sorgenti del vino
contraffatto e dei documenti che gli hanno permesso di invadere le botti.
Perché con questo sistema criminale i produttori riuscivano a risparmiare
anche il 90 per cento: una cisterna da 300 ettolitri costava 1.300 euro, un
decimo del prezzo normalmente chiesto dai grossisti del vino di bassa
qualità.


Retrogusto al metanolo L'istruttoria è nata partendo da uno dei soliti
sospetti: una cantina di Veronella che 22 anni fa venne coinvolta dal dramma
delle bottiglie al metanolo. Ricordate? Diciannove persone uccise mentre
altre 15 persero la vista per colpa del mix a base di mosto e di un alcol
sintetico, normalmente utilizzato nelle fabbriche di vernici: un liquido
inodore e micidiale. Una tragedia che cancellò la credibilità della nostra
enologia e stroncò l'export. Ma nello stabilimento di Bruno Castagna anche
quella lezione sembra dimenticata. Quando nello scorso settembre scatta
l'irruzione, gli agenti del Corpo forestale di Asiago e dell'Ispettorato
centrale per il controllo dei prodotti agroalimentari trovano subito una
situazione anomala: accanto alle cisterne c'erano taniche piene di acido
cloridrico, altre con acido solforico e 60 chili di zucchero. Gli ispettori
mettono tutto sotto sequestro e fanno esaminare campioni di vino bianco e
rosso per capire cosa contengano. I test condotti nell'Istituto agrario di
San Michele all'Adige e nel laboratorio di Conegliano Veneto
dell'Ispettorato centrale forniscono lo stesso verdetto choc: in quel
liquido di uva ce n'è circa un quinto, il minimo indispensabile per dare un
po' di sapore. I test sono concordi: tra il 20 e il 40 per cento, non di
più. E il resto? Acqua, concimi, fertilizzanti, zucchero, acidi. Sì, acidi:
usati per mimetizzare lo zucchero vietato per legge. L'acido cloridrico e
l'acido solforico vengono utilizzati per 'rompere' la molecola dello
zucchero proibito (il saccarosio) e trasformarlo in glucosio e fruttosio,
legali e normalmente presenti nell'uva. Un metodo che consente così di
sfuggire ai controlli. Risultato: da una normale analisi non emergerà la
contraffazione. I due acidi, assieme alle altre sostanze cancerogene, non
uccidono subito, ma lo fanno progressivamente, in modo subdolo. L'acido
cloridrico, comunemente chiamato acido muriatico, può provocare profonde
ustioni se finisce sulla pelle, se ingerito è devastante.

A Veronella uno degli investigatori è svenuto per i vapori e sono stati
chiamati i pompieri per rimuovere le scorte. Il titolare della cantina è
stato arrestato per il reato di sofisticazione alimentare con pericolo della
salute pubblica: di quel liquido ad alto rischio ne avevano ancora migliaia
di litri. Ma il fascicolo aperto dal pubblico ministero di Verona Francesco
Rombaldoni poco alla volta si è gonfiato di reati pesantissimi:
l'associazione a delinquere per gli imprenditori vinicoli del Nord. Che
diventa addirittura associazione mafiosa per i loro referenti meridionali.
Sacra cantina unita Partendo dai silos veneti gli agenti della Forestale
sono arrivati ai fornitori della pozione micidiale. La pista conduce fino a
Massafra in provincia di Taranto. Secondo l'accusa, l'intruglio proviene da
due stabilimenti: la Enoagri export srl e la Vmc srl, vini, mosti e
concentrati. Per gli inquirenti il gigantesco impianto della Vmc è stato
costruito non per produrre vino, ma per fabbricare quantità industriali di
quel mix velenoso: c'è un vero laboratorio chimico. Da lì l'inchiesta si
allarga ancora e si estende in tutta Italia, con squadre di investigatori
all'opera anche in Sicilia, mentre il coordinamento per il fronte Sud viene
preso dal pm Luca Buccheri della Procura di Taranto. Pochi giorni fa il
magistrato ha sequestrato i due stabilimenti, ma gli investigatori sono
convinti che i titolari siano solo dei prestanome. Dietro di loro, in
realtà, ci sarebbero gli investimenti della Sacra corona unità, il nucleo
storico della mafia pugliese. E poiché ogni documento falso richiede altre
coperture, altre aziende nelle mani della malavita avrebbero fornito
certificati e ricevute per giustificare l'attività delle distillerie di
veleno. Tutto finto: vino, forniture, bolle di trasporto, fatture. A
Massafra è stata sequestrata la Tirrena Vini, definita dagli inquirenti una
'cartiera'. E sono spuntati documenti taroccati realizzati pure da ditte di
Trapani, che hanno fatto ipotizzare un collegamento operativo con Cosa
nostra siciliana. E per questo anche la Direzione investigativa antimafia è
scesa in campo per intercettare i movimenti di capitali impegnati
nell'operazione criminale.

Cocktail al veleno Una volta scoperte le sorgenti, gli specialisti della
Forestale e dell'Ispettorato centrale per il controllo dei prodotti
agroalimentari si sono messi a studiare tutti gli acquirenti della pozione.
E hanno ricostruito la mappa di quella che definiscono la più grande frode
mai scoperta in Italia: 70 milioni di litri di vino corretto o fabbricato
con liquidi pericolosi per la salute. Viene creata una task force di
investigatori e informato il ministero delle Politiche agricole. La miscela
è finita nelle cantine di sei regioni: Lombardia, Piemonte, Veneto, Umbria,
Puglia e Sicilia. I primi test avrebbero riscontrato lo stesso cocktail di
Veronella: solo il 20-30 per cento è vino, il resto è composto dal solito
intruglio di fertilizzante, concime, zucchero e acido made in Massafra. Ma a
preoccupare ministero e inquirenti è soprattutto l'uso che ne avrebbero
fatto due impianti, uno nel Bresciano e l'altro nel Veronese, che sono
leader in Italia nell'imbottigliamento e nella vendita di vini a basso
prezzo. Solo da questi due stabilimenti sono uscite milioni di bottiglie, di
fiaschi e di cartoni destinati in massima parte al mercato nazionale.

È chiaro che a questo punto l'inchiesta assume una dimensione di alto
impatto per l'economia italiana. Con il rischio di un danno d'immagine ben
più grave di quello provocato dall'allarme sulla bufala. Per questo il
vertice del ministero ha scelto una linea di massima cautela: sia per non
compromettere gli sviluppi investigativi sul versante mafioso, sia per non
infliggere un nuovo colpo alla credibilità dei nostri prodotti. Il settore
basso del mercato è anche quello dove la concorrenza internazionale è più
forte, con nuove nazioni che si lanciano con prodotti a prezzi infimi. Ma
nonostante i sequestri, moltissime delle bottiglie sotto inchiesta restano
in vendita: 'L'espresso' ne ha visto un intero stock in un centro
commerciale del Nord-est.

D'altronde le quantità contraffatte accertate finora dagli investigatori non
hanno precedenti: 700 mila ettolitri. Un record, che può inondare un'altra
delle risorse nazionali con un fiume di vino dal retrogusto di acido
muriatico.
(03 aprile 2008)

Nel Brunello c'è il tranello
di Emiliano Fittipaldi
Il celebre vino fatto con altre uve. Il Chianti allungato con rosso
d'Abruzzo. Il Passito sotto processo. L'olio tunisino spacciato per
italiano. E l'aceto di Modena che nasce a Napoli. Così viene distrutta la
credibilità dei prodotti più prestigiosi  Un bicchiere di BrunelloBrunello
che non è Brunello, Chianti Classico allungato con Montepulciano d'Abruzzo,
olio d'oliva extravergine italiano fatto con olive tunisine, Passito di
Pantelleria taroccato, aceto balsamico di Modena prodotto ad Afragola,
paesone a metà strada tra Napoli e Caserta. La grande truffa dei marchi made
in Italy non riguarda solo le devastanti sofisticazioni che danneggiano la
salute, ma anche la presunta qualità dei brand più prestigiosi del nostro
mercato agroalimentare. Che dietro le etichette blasonate nasconde spesso e
volentieri calici amari. Negli ultimi mesi alcuni dei migliori prodotti
nostrani sono finiti nel mirino di procure, dei carabinieri, degli esperti
della Forestale e della Guardia di finanza, che hanno aperto inchieste a
catena che fanno traballare l'immagine (e le vendite) del food&wine
tricolore, proprio durante un appuntamento fondamentale come il Vinitaly di
Verona. Gli ultimi dati del ministero delle Politiche agricole  sono
sconfortanti: l'8,5 per cento dei campioni analizzati in vari settori sono
'irregolari', frutto cioè di alterazioni e sofisticazioni di ogni genere. Il
picco negativo è nell'ortofrutta: un prodotto su tre viola la legge.

Blitz a Montalcino Partiamo dal Brunello di Montalcino, tra i vini Docg più
celebri del mondo. Prime indiscrezioni sulle indagini della Procura di Siena
sono già trapelate su qualche giornale, ma secondo quanto appreso da
'L'espresso' il lavoro degli investigatori sta disegnando una frode in
commercio colossale, per cui il 30-40 per cento del carissimo vino prodotto
nel 2003 (ma sotto la lente ci sono anche le annate dal 2004 al 2007)
rischia di non poter fregiarsi né del marchio di Denominazione d'origine
controllata e garantita né del nome 'Brunello'. I pm hanno guardato dentro
al bicchiere, e nel fondo hanno scovato il marcio.
Allo stato le aziende coinvolte sono cinque, gli indagati più di 20.
L'accusa dei magistrati è, per i cultori, una vera bestemmia: aver mischiato
all'uva di qualità Sangiovese, l'unica ammessa dalle rigide regole del
disciplinare, altre qualità di origine francese: dal Merlot al Cabernet
Sauvignon, dal Petit Verdot al Syrah. Vitigni usati per produrre dal 10 al
20 per cento del prodotto finale. I motivi del taroccamento sono due: le
quantità del Sangiovese disponibile, in primis, sono insufficienti a coprire
la domanda crescente di mercato. Inoltre il miscelamento sarebbe legato a
una mera questione di palato: il consumatore, soprattutto quello americano,
preferisce al gusto forte del Brunello Doc una variante morbida, più dolce e
'transalpina'. Molti negano, qualcuno rettifica, Montalcino è sgomenta, ma
le prove sembrano schiaccianti: le Fiamme gialle hanno trovato nelle cantine
le ricette con cui gli enologi preparavano lo shake di vini, conservati in
vasche differenziate prima del cocktail da imbottigliare. Appunti riservati
grazie a cui gli esperti confezionavano, dosando con cura le proporzioni, il
falso Brunello.

Le posizioni degli indagati sono diverse, ma quattro imprese che esportano
in mezzo mondo, come Antinori, Banfi, Frescobaldi e Argiano, hanno migliaia
di bottiglie bloccate ed ettari di vitigni sotto sequestro. A gennaio
(l'inchiesta è iniziata a novembre) ci sono state perquisizioni anche nelle
botti di Biondi Santi, Val di Cava e Casanova dei Neri. Nelle prime due gli
inquirenti e gli esperti dell'Ispettorato per il controllo della qualità non
hanno riscontrato irregolarità, mentre Casanova resta sotto osservazione.
Altre tenute potrebbero finire sotto la lente dei magistrati, che stanno
studiando le foto aeree scattate dalla Gdf per individuare i vitigni
clandestini.

Chianti d'Abruzzo Se l'alterazione rischia di demolire l'immagine del
Brunello, sul piano penale sono molti i capi d'accusa che potrebbero
sporcare la fedina degli indagati. Oltre al declassamento del vino e la
frode in commercio aggravata dalla norma che tutela i prodotti doc, i pm
ipotizzano reati come la falsificazione dei registri di cantina, falso
ideologico, la ratifica di documenti truccati.

Anche chi doveva vigilare e ha chiuso un occhio rischia grosso: pare che ci
siano indagati anche tra i responsabili del Consorzio del Brunello (quasi
250 aziende affiliate) che per legge deve tutelare il disciplinare di
produzione. "Chi ha sbagliato la pagherà cara, verrà cacciato
dall'associazione, il vino verrà declassato a Igt da tavola", sbotta
laconico il presidente Francesco Marone Cinzano. Di certo le aziende
tremano, perché sanno che i giudici in Toscana non fanno sconti. La frode
sul Brunello è, infatti, simile a quella messa in piedi sul Chianti
classico. L'inchiesta, segretissima, investe alcune grandi aziende che
producono - come si legge in vecchi comunicati stampa - 'i rossi italiani
più amati dagli americani'. Peccato che il Chianti finito in milioni di
bottiglie, in realtà, fosse mescolato con il Montepulciano d'Abruzzo. La
truffa è stata smascherata dagli uomini della Guardia di finanza, coordinati
dai pm senesi: in controlli di routine hanno scoperto che alcune ditte
toscane compravano quantità industriali di Montepulciano dalla Cantina
sociale di Tolla, in Abruzzo. False fatture, falsi documenti di trasporto,
truffa: i responsabili della leggendaria Ruffino, di proprietà della
famiglia Folonari, hanno già patteggiato due anni. Una tranche
dell'inchiesta è ancora aperta, e investe un'altra cantina prestigiosa del
Chiantishire. Il ministro Paolo De Castro spiega che non bisogna fare di
tutta l'erba un fascio, e che anche nel settore vitinicolo il rispetto delle
regole verrà affidato presto a controlli terzi. "Abbiamo aumentato le
verifiche", ragiona, "bisogna puntare sulla qualità e sulla difesa della
salute. C'è da dire, a difesa dei produttori, che le norme europee si
moltiplicano a velocità impressionante, non è facile stargli dietro. Ma
sulla legalità non si transige".

La vendemmia del BrunelloOlio tunisino I crimini, però, non si contano. I
magistrati stanno indagando anche un altro must del nostro agroalimentare,
l'olio d'oliva. In Puglia, che produce il 40 per cento del totale nazionale,
voci e rumors su taroccamenti di massa si rincorrono da lustri. Dal 2000
nelle bottiglie i Nas e le Fiamme gialle hanno trovato di tutto: olio di
semi, clorofilla, coloranti, miscele spurie. Ma in piccole aziende e frantoi
di provincia. Ora il pm di Trani Michele Ruggiero ha aperto il vaso di
Pandora, alzando il velo sulla più grande truffa all'olio mai fatta in
Italia. Tra il 2006 e il 2007 tre milioni 278 mila bottiglie da un litro
sono state spacciate come olio 'italiano', 'biologico' ed 'extravergine',
anche se in realtà erano riempite con liquido di bassa qualità che arrivava
da Spagna, Grecia e Tunisia. Prodotti etichettati con marchi di nicchia come
quello dei Frantoi Oleari Umbri, dall'azienda Buonamici (di proprietà di
Cesara, la giornalista del Tg5, e dei suoi fratelli), ma anche venduti negli
scaffali dei supermercati con il logo della Coop e della Conad. Secondo gli
uomini della Gdf gli acquirenti erano però ignari del raggiro architettato
da Giacomo Basile, titolare dell'omonima ditta di Andria, in provincia di
Bari, uno dei più grossi distributori nazionali. L'olio tunisino e greco è
stato comprato in tutto da 20 aziende della Penisola, che lo hanno
imbottigliato, marchiato e spedito nei negozi e nelle grandi catene di
distribuzione. Scoperta la truffa, gli uomini del comandante provinciale
della Finanza di Bari Fabrizio Carrarini hanno inseguito le bottiglie pirata
nei supermercati di tutta Italia: a oggi sono state recuperate circa due
milioni di tonnellate delle tre immesse sul mercato. Gran parte del prodotto
è finito anche all'estero, difficilmente si riuscirà a rintracciarlo.
Inutile piangere sull'olio versato.

Onorevole Passito "È alla vetta di quanto mi sia dato di assaggiare nel
settore", commentava estasiato Bruno Vespa degustando il Passito
dell'Abraxas, l'azienda dell'ex ministro dell'Agricoltura Calogero Mannino.
Non poteva sapere, il giornalista, che il contenuto di molte bottiglie poco
aveva a che spartire con il vero Passito di Pantelleria: secondo la Procura
di Marsala il vino era stato infatti adulterato, tanto che l'ex senatore
Udc, che nel 1988 firmò il decreto che istituiva il marchio Doc, ora è
imputato per associazione per delinquere finalizzata alla frode in
commercio, sofisticazione e appropriazione indebita. In effetti Mannino,
insieme a sodali e cantinieri, avrebbe anche rubato 115 ettolitri di Passito
doc di una azienda (la Bonsulton srl), sostituendolo con vino adulterato. Se
le intercettazioni telefoniche raccontano che l'ex ministro si accordava con
il suo enologo per imbottigliare il prodotto 2004 fuori da Pantelleria (in
sprezzo del disciplinare), ci sarebbero le prove di una sofisticazione di
ben 300 mila bottiglie nel periodo 2002-2006. Tra i presunti truffatori,
oltre a Mannino c'è anche Salvatore Murana, già condannato con sentenza
definitiva per i medesimi reati: i due producono circa il 20 per cento del
Passito (falso) che invade le enoteche del pianeta. Nessuno sembra però
preoccuparsi più di tanto del destino dei consumatori: la
commercializzazione delle bottiglie non è stata infatti bloccata.

Dulcis in fundo, recentemente in Parlamento è persino passata (grazie a
Maurizio Ronconi dell'Udc) una norma che depenalizza la sofisticazione dei
vini: Mannino non rischia più un anno di reclusione, ma al massimo una multa
da 15 mila euro.

Modena in provincia di Napoli I supertarocchi del Chianti, il finto Passito
e l'olio fasullo trasformano in una storia di colore una vicenda che è nota,
agli addetti ai lavori, come la "guerra dell'aceto balsamico di Modena".
Dura da vent'anni, e vede confrontarsidue eserciti agguerriti a colpi di
carte bollate. Nord contro Sud: da un lato i produttori modenesi, dall'altro
la ditta De Nigris. Che di emiliano non ha nulla: l'aceto è 'di Modena' solo
nell'etichetta, perché produzione e imbottigliamento vengono effettuate ad
Afragola, Napoli. Il fatto è che De Nigris non è un pesce piccolo: il suo
aceto pesa sul 27 per cento delle esportazioni totali, e dal 1989 ha vinto
ricorsi e sentenze al Consiglio di Stato, al Tar del Lazio e alla
Cassazione. "L'aceto 'di Modena' si può fare a Modena e Afragola. E in
nessun altro luogo", chiosa l'amministratore. "Come mai? Noi abbiamo i
requisiti. Il marchio è legato alla qualità del prodotto e all'ingegno
umano, non certo ai vitigni che si coltivano nella provincia modenese: anche
i miei concorrenti usano a man bassa mosti provenienti da tutta Italia".
Peccato che al ristorante, nei supermarket e dal salumiere, quando aprono il
borsellino per regalarsi un piccolo lusso di gola, la stragrande maggioranza
degli italiani (e degli ingenui stranieri) crede davvero che l'aceto sia
fatto a Modena, il Passito a Pantelleria, l'olio italiano in Italia, il
Chianti nel Chianti. (hanno collaborato Giuliano Foschini e Giuseppe Lo
Bianco)
(03 aprile 2008)
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