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"Kosovo: errore di calcolo?" di R. Rossanda



fonte: Il Manifesto
17 agosto 1999
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KOSOVO
Errore di calcolo?
di Rossana Rossanda

Sono molti ormai i commenti disincantati sulla guerra del Kosovo.
Il piu' interessante e' stato domenica quello di Eugenio Scalfari su La
Repubblica.
Dove sono finiti gli obiettivi che la Nato si prefiggeva dopo lo scacco di
Rambouillet?, egli si chiede.
Salvo la ricostruzione e il rientro di una parte importante della
popolazione kosovara, sembrano falliti.

A cominciare dalla pulizia etnica.
Non solo questa non e' cessata quando la Nato ha cominciato a bombardare,
anzi e' aumentata - e questo puo' essere attribuito alla ferocia di
Milosevic - ma e' ripresa in senso inverso dopo che la Kfor presidia tutto
il territorio ed e' insediato un governatore super partes nella persona di
Bernard Kouchner.
Invece che tutto serbo, il Kosovo sara' tutto albanese - cosa che rallegra
Salman Rushdie e qualche opinionista di Le monde - ma non era lo scopo
dichiarato, ed e' da dubitare che sarebbe stato condiviso.
 Secondo, la caduta di Milosevic, anch'esso obiettivo non dichiarato nei
primi giorni ma diventato via via piu' esplicito.

Ma Milosevic non e' caduto ne' con l'inizio del conflitto ne' con la sua fine.
Forse cadra' a causa dell'inverno e della fame, ma non e' stato destituito
da un'ondata popolare finalmente in grado di prendere la parola.
Dalle corrispondenze da Belgrado, incluse quelle del nostro Tommaso Di
Francesco, non si evince l'esistenza di una posizione almeno relativamente
unita e con degli esponenti di un qualche spessore politico e morale.
Ne' sembra che la popolazione serba senta una qualche resipiscenza per
quanto inflitto ai kosovari prima togliendogli ogni autonomia e poi
passando all'evacuazione.
I serbi si sentono non meno perseguitati dalla evacuazione della Krajina e
per gli eventi di fine 1998 rimandano quasi coralmente l'accusa all'Uck che
ha cominciato la guerriglia.

Terzo, nella regione, lungi dall'essere terminato, il terremoto continua.
Il Montenegro minaccia la secessione, completando lo smembramento della
Jugoslavia; la Macedonia e' divisa tra etnie e pretendenti diversi;
l'Albania e' diventata un focolaio di sedizione per tutte le minoranze
albanesi, oltre a essere il tramite di armi e mezzi per l'Uck.
Si aggiunga che l'intera zona e' diventata il punto cruciale dei traffici
di mafia; oltre all'ingegnosita' criminale propria dei profittatori di ogni
guerra e ogni spostamento di popoli, dai Balcani arriva ormai in Europa
senza controllo sia la droga dall'Estremo oriente sia quella dall'America
latina, dopo essere sbarcata su qualche costa greca.
La stabilita' della regione, come ha dimostrato la breve e un po' indecente
parata dimostrativa degli occidentali a Sarajevo, e' assai piu' lontana di
un anno fa.

Se questi sono i risultati - e somigliano assai a quelli che prevedevano i
derisi pacifisti quando dicevano che un intervento bellico avrebbe soltanto
avvelenato le ferite e colpito gli innocenti - e' forse da domandarsi se
davvero essi sono l'infausto esito di una straordinaria necessita' e
avventatezza di chi ha deciso e condotto la guerra, come Scalfari sembra
pensare, e non da ieri.

Se fossero stati invece, almeno a un certo punto, messi in conto?  Il
dubbio nasce se si riflette su una serie di dati.
Che la Nato sia intervenuta perche' considerava sacro e indefettibile il
principio della multietnicita' non era cosi' credibile dopo gli accordi di
Dayton, da essa propiziati, che hanno sancito nel modo piu' solenne la
divisione etnica della Bosnia per regione, per citta' o, a Sarajevo e a
Mostar, persino per quartieri e strade.
Non dico che gli Usa e i diversi governi europei non fossero turbati da
quel che avveniva in Kosovo; dico che non consideravano affatto impossibile
porre fine alle vessazioni serbe e alle vendette albanesi sancendo o, come
pensava Luttwak, una divisione del Kosovo o, come sta avvenendo, una
separazione etnica opposta a quella tentata da Milosevic.
Il non disarmo dell'Uck e anzi l'affidamento ad esso, segnalato anche da
Eugenio Scalfari, in funzione di polizia della zona, e' eloquente.

Il fine primo dell'intervento non era dunque i diritti dei kosovari, ma,
come del resto detto a chiare lettere nel discorso di Clinton a operazione
conclusa, la credibilita' della Nato.
Se la Jugoslavia non accettava la proposta che le veniva presentata a
Rambouillet con l'aggiunta di almeno due provocazioni difficili da ingoiare
- la presenza dell'Uck al negoziato e un controllo Nato sul territorio
jugoslavo - la Nato doveva dimostrare che aveva la forza e i mezzi per
imporle.
Questo diventava l'obiettivo numero uno, in concomitanza con la modifica
dello statuto originale dell'organizzazione da varare in aprile a
Washington. Dopo la caduta dell'Unione sovietica, la cui presenza politica
e militare era stata la causale dell'Alleanza atlantica, questa doveva
trovare un'altra funzione, con poteri di intervento non soltanto difensivo,
non soltanto nella propria area e non soltanto su richiesta dei citati
membri.
I governi dell'Unione europea lo hanno accettato.
Di questa scelta nessuno di essi ha reso conto al parlamento, anche
perche', se non erro, nessun parlamento ne ha chiesto ragione.

Ma perche' gli Stati uniti hanno deciso, dopo qualche anno di esitazione,
di domandare per la Nato, della quale detengono il comando militare, questa
eternizzazione? Perche' non si sono contentati, dopo il crollo dell'Urss,
della vittoria economico-politica del loro sistema per esercitare
un'egemonia crescente sul pianeta, Europa allargata inclusa? Qui le ipotesi
si moltiplicano.
Perche' la potenza economica e la potenza militare non si separano cosi'
facilmente.
Perche' nel momento in cui l'Europa arriva a una relativa autonomia
monetaria e sostiene di voler diventare una regione continentale
politicamente unificata, gli Stati uniti si sentono forse messi in causa
come unica superpotenza mondiale.
E se, di piu', l'Europa chiede agli Stati uniti di sbrogliarle ugualmente
come in Bosnia i nodi che non e' in grado di sciogliere ne' politicamente
ne' militarmente al suo confine orientale, si puo' comprendere che gli
Stati uniti abbiano finito con il decidere, contro la loro posizione
interna isolazionista, di estendere e sancire nell'Europa stessa un loro
controllo militare.

Questo disegno e' stato accettato da tutti i paesi della Ue, per cui
diventa alquanto risibile parlare ancora di una forza militare europea
autonoma.
E, tolto Milosevic e per ora la Russia, ha funzionato anche con tutti i
paesi dell'Est che in occasione dell'intervento in Kosovo hanno aperto alla
Nato ogni possibile snodo, transito, aeroporto fino a proporsi come nel
caso dell'Ungheria di alternarsi all'Italia come base di lancio di
un'eventuale invasione terrestre.
La stessa Russia, dopo le iniziali lacerazioni di Eltsin, ha finito con il
mollare l'uomo di Belgrado e sta facendo le fusa agli Stati uniti.
 In un quadro di questa ampiezza e ambizione, l'esistenza di uno staterello
albanese in piu', o di una grande Albania, che giustamente Scalfari vede
come un ulteriore degrado nella secolare tragedia balcanica, non ha un peso
cosi' determinante: il controllo ne restera' altrove.
Per il nostro amico Giovanni Arrighi questa estensione del potere globale
americano e' un sintomo di crisi di egemonia.
Si puo' discutere.
Certo e' una scelta che fa della guerra in Jugoslavia una svolta non
secondaria ne' transitoria del dopo 1989.


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Mi scuso con tutti coloro che hanno gia' ricevuto questo testo,
e con tutti per l'arbitrio che mi prendo nel mandarvi questo tipo di documenti.
Chiedo a chi non vuole riceverli di mandarmi un cenno.
I contenuti qui espressi non corrispondono necessariamente col mio punto di
vista.
Sdv
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