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Adriatico: la discarica delle bombe



Da L'Espresso on-line
http://www.espressoedit.kataweb.it


ADRIATICO / LA DISCARICA DELLE BOMBE 
Un mare di armi chimiche 
Ventimila ordigni affondati a partire dal dopoguerra. Dove oggi lavorano i
pescherecci pugliesi. E le prime analisi sull'acqua e sui pesci dicono che... 

di Primo Di Nicola 

Almeno 20 mila ordigni con caricamento speciale a base di aggressivi
chimici. TUTTI AF- fondati in una piccola area del Basso Adriatico, al
largo del capoluogo Bari e della cittadina di pescatori Molfetta. Si tratta
di bombe chimiche a base di sostanze letali come l'iprite, l'arsenico e
forse anche l'uranio impoverito, che stanno devastando il patrimonio ittico
e l'ambiente marino. Duecentotrentasei incidenti e ricoveri ospedalieri
negli ultimi 45 anni, in cinque casi con esito letale, tra i pescatori che
in assenza di divieti hanno continuato a gettare le reti nelle aree
infestate, esponendosi alle sostanze fuoriuscite dagli ordigni affondati e
corrosi dalla salsedine. Pesci malati e a rischio che continuano a finire
sulle nostre tavole. Questa bomba ecologica è il frutto dello smaltimento
di munizioni obsolete. Una situazione che è nota alle autorità politiche e
militari, ma è stata trascurata.

Solo negli ultimi giorni qualcosa si è mosso per fronteggiare l'emergenza.
Subito dopo le rivelazioni de "L'Espresso" sulla lettera scritta un anno fa
dal sottosegretario all'Ambiente Valerio Calzolaio all'allora presidente
del Consiglio Massimo D'Alema per chiedergli di occuparsi delle bombe
all'uranio sganciate in Kosovo. Nella stessa lettera, Calzolaio descrisse
come allarmante la situazione delle armi chimiche affondate nell'Adriatico.

Non c'è solo quel documento governativo a fornire un'idea sulla
pericolosità degli armamenti chimici che si trovano nel mare pugliese. C'è
un dossier dell'Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata
al mare (Icram), che rappresenta il risultato di due anni ('98-99) di
indagini in mare e di campionamento e analisi delle acque e dei pesci.
L'area prescelta è il tratto di mare esteso 10 miglia nautiche che si trova
a 35 miglia al largo di Molfetta (vedere cartina nella pagina accanto). «I
fondali indagati», recita il rapporto finale del coordinatore delle
indagini Ezio Amato, «costituiscono una delle quattro aree di affondamento
individuate». Quante altre ce ne sono nel resto dell'Adriatico? Impossibile
saperlo: le autorità militari non forniscono informazioni, perché
«avrebbero carattere di riservatezza». È certo, invece, che il caricamento
dei 20 mila ordigni individuati dall'Icram è costituito da aggressivi a
base di iprite e composti di arsenico. In totale, sono state individuate
«24 diverse sostanze costituenti il caricamento speciale; di queste, 18
sono persistenti e in grado di esercitare effetti nocivi sull'ambiente». Ma
in cosa consistono questi micidiali ordigni? Come si sono formate le
discariche chimiche sottomarine? Quali danni possono procurare?

Sino a una trentina di anni fa, riferisce l'Icram, la pratica corrente di
smaltimento di munizionamento militare obsoleto era l'affondamento in mare.
Molti residuati del secondo conflitto mondiale hanno seguito questa sorte.
Cominciò tutto durante la prima guerra mondiale, quando alcuni paesi
belligeranti iniziarono la produzione in grandi quantità di ordigni
chimici. Il trattato di Versailles del 1922 e la Convenzione di Ginevra del
'25 misero al bando il loro uso. Nel periodo tra le due guerre, però, molte
nazioni continuarono a produrne. Anche l'Italia, soprattutto negli anni
Trenta. Centri specializzati per la produzione e lo stoccaggio furono
allestiti tra Bari e Lecce. Questi armamenti furono utilizzati nel '36 in
Abissinia, ma dopo la guerra quelli non usati finirono nell'Adriatico. Gli
italiani non furono i soli a creare le pattumiere chimiche del mare: fecero
lo stesso i tedeschi e gli angloamericani.

Nel '47, il servizio pesca della Marina Mercantile emanò questa direttiva:
l'affondamento degli ordigni chimici doveva avvenire in fondali di una
profondità minima di 460 metri, a una distanza dalla costa di almeno 20
miglia e a 10 miglia dalla rotta di traffico più vicina. Indicazioni poco
rispettate: una grande quantità di armi chimiche sono infatti presenti in
un tratto di fondale a circa 40 miglia a nord di Bari a una profondità tra
150 e 450 metri. Circostanza che spiega la facilità con la quale si
registrano incidenti tra i pescatori (gli ultimi, nel luglio '96). 

In quei fondali c'è una vera santabarbara: bombe a mano, da aereo, da
mortaio, mine, quasi tutte a "caricamento speciale". In alcuni casi
l'aggressivo chimico è conservato in bidoni anch'essi adagiati sui fondali.
E che, a causa della corrosione, continuano a rilasciare sostanze letali.
Vescicanti (iprite e lewisite); asfissianti (fosgene e difosgene);
irritanti (adamsite); tossici della funzione cellulare (ossido di carbonio
e acido cianidrico). A seconda dei casi, queste sostanze provocano la
distruzione delle cellule umane, attaccando occhi, pelle e apparato
respiratorio; alterano la trasmissione degli stimoli nervosi. Negli
organismi che ne entrano in contatto, siano esse allo stato liquido o
gassoso, le sostanze provocano bruciore, edema, congiuntiviti, congestioni
in naso, gola, trachea e bronchi, danni polmonari cronici e asfissia. E non
basta: scientificamente provate sono anche le alterazioni genetiche e le
aberrazioni cromosomiche. Studi approfonditi sugli effetti sull'uomo sono
stati realizzati dal professor Giorgio Assennato dell'Università di Bari,
che ha condotto un'indagine su 232 pescatori pugliesi vittime di incidenti
tra il 1946 e il '94. Che si verificano quasi sempre durante la pesca a
strascico, tecnica che spazza i fondali imbrigliando gli ordigni nelle
reti. Le conseguenze peggiori avvengono per l'esposizione agli agenti
tossici, attraverso l'inalazione dei vapori e il contatto cutaneo. Quando
non c'è un danno immediato agli occhi, è il sistema respiratorio ad
accusare i sintomi più evidenti dell'intossicazione: «Dolore toracico,
tosse, ipofonia e faringodinia», scrive nel suo studio Assennato. Seguono
tachipnea e broncospasmo a distanza di circa 12 ore. Esposizioni gravi
producono la morte per insufficienza respiratoria e polmonite.E,
soprattutto, tumori.

Questo per l'uomo. Quanto ai danni provocati nell'ambiente marino, lo
studio dell'Icram è chiaro. I campioni prelevati dai ricercatori, acqua,
sedimenti e pesci, «sono stati sottoposti a quattro diverse metodologie
d'analisi che indicano la sussistenza di danni e rischi per gli ecosistemi
marini determinati da inquinanti persistenti rilasciati dai residuati
corrosi». In particolare, grazie ai confronti con esemplari della stessa
specie prelevati nel Tirreno meridionale, le analisi hanno rivelato nei
pesci dell'Adriatico «tracce significative di arsenico e derivati
dell'iprite». Particolarmente rilevanti «le alterazioni a carico di milza e
fegato». Le alterazioni epatiche più frequenti sono state la presenza di
steatosi e alterazione focale della colorazione. Per quanto riguarda la
milza è stato osservato un «aumento di volume, consistenza diminuita e
presenza di noduli».

Altre alterazioni a carattere più sporadico sono state riscontrate a carico
delle branchie con presenza di erosioni e emorragie. È stata anche
riscontrata la presenza di parassiti in branchie, cavità addominale e
tessuto cutaneo». Cosa significa tutto questo in linguaggio meno tecnico?
«Che i pesci dell'Adriatico», spiega Ezio Amato, «sono particolarmente
soggetti all'insorgenza di tumori; subiscono danni all'apparato
riproduttivo; sono esposti a vere e proprie mutazioni genetiche che portano
a generare esemplari mostruosi». E non basta. Non essendoci limitazioni
alle attività di pesca, questi pesci continuano a finire sulle tavole dei
consumatori. Con quali conseguenze per la loro salute? Studi specifici non
sono mai stati fatti. «I risultati ottenuti dalla nostra indagine su un
piccolo campione», avverte Amato, «sono allarmanti».

La pattumiera chimica ha messo in moto il ministro delle Risorse agricole
Alfonso Pecoraro Scanio. Venerdì 19 gennaio ha scritto ai colleghi della
Sanità e della Ricerca scientifica Umberto Veronesi e Ortensio Zecchino. «È
nota a tutti la grave vicenda delle armi chimiche affondate nell'Adriatico.
A ciò si aggiunge la presenza di un certo numero di bombe sganciate da
aerei durante la crisi del Kosovo, per le quali recenti notizie lasciano
temere che possa sussistere la presenza di uranio impoverito. È
indispensabile mettere in atto ogni possibile misura per verificare se i
prodotti ittici sbarcati nei porti adriatici presentino anomalie, sia per
la radioattività superiore alla norma, sia per la presenza di sostanze
chimiche tossiche». 

(01.02.2001)
 
Altri contributi:
"Frittura mista di iprite, cianuro e gas nervino. Ecco tutti i siti marini
dove sono state scaricate tonnellate di munizioni" 
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"VIAGGIO TRA I PESCATORI DI MOLFETTA: Lì c'è un palombo e qui c'è un siluro"
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