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Belgrado, il giorno dopo
Viaggio tra le strade della capitale, ripulite dalle schede
elettorali e dalle lattine
Belgrado, il silenzio del giorno dopo
di Fulvio Grimaldi
nostro servizio - Belgrado (Liberazione 7/10/2000)
C’è poco da raccontare sull’aria che tira a Belgrado, dopo
averci speso mezz’ora nel breve tragitto dall’aeroporto al
centro. L’unico segno della “rivoluzione” - stupefacente come nei
media e nelle dichiarazioni occidentali il termine-anatema sia
diventato d’un tratto simpatico - gradita all’Occidente è un
mezzo della polizia carbonizzato lungo lo stradone, vetrine
sfasciate nei negozi di elettrodomestici ed abbigliamento
saccheggiati ieri dai manifestanti (scene tagliate dai reportage
televisivi) e poi gruppi di qualche decina di persone che
sventolano bandiere, percorrendo qua e là le vie intorno al
Parlamento. Ci si aspetta da un momento all’altro l’insediamento
ufficiale del nuovo presidente che poi, secondo un annuncio di
queste ore, dovrebbe ricevere come tale gli ambasciatori di tutti
i paesi.
Passo vicino alla sede della tv di stato. C’è ancora qualche
capannello. Mi raccontano di aver appena «punito il direttore
dell’ente televisivo». Più tardi la britannica Sky News ci
mostrerà alcune scene di questa “pacifica rivoluzione”: il
direttore massacrato di botte, preso a calci, quasi linciato, e
poi salvato da alcuni pompieri.
Gli spazzini, tornati in strada dopo cinque giorni di sciopero,
hanno lavorato bene: unici ricordi dell’assalto al parlamento
qualche vetro rotto e nero fumo su parti della facciata. Sono
sparite anche le migliaia di schede che gli assalitori hanno
gettato dalle finestre della commissione elettorale. Difficile,
ora, rifare i conteggi, come chiedeva Kostunica, e confermare
quei brogli che, secondo l’ex opposizione e i paesi Nato, c’erano
già due mesi prima delle elezioni, poi quando Kostunica risultò
primo con dieci punti di vantaggio, non c’erano più, poi, quando
si imponeva il ballottaggio per il mancato superamento del 50%,
c’erano di nuovo. Prodigi balcanici, osservati attraverso
occhiali Nato. Del resto, chissene frega più delle schede.
L’arrivo della democrazia in Jugoslavia si è buttato le schede,
vere o false, alle spalle ed ha risalito gli scaloni del
Parlamento sulle gambe e sugli slogan della piazza. Qualcosa che
di solito le sinistre definivano Rivoluzione.
Dragos Kalajic, conosciuto anche in Italia per le sue conferenze
al tempo delle bombe, docente al Istituto di Studi Geopolitici di
Belgrado, diplomatico di lungo corso, fa in proposito un rilievo
non peregrino: «Com’è che nessuno dalle vostre parti fa un
raffronto tra come le nostre forze di sicurezza - per scelta o
per ordine - hanno affrontato un’insurrezione e quello che si fa
ai dimostranti in paesi democratici come la Repubblica Ceca o
Israele?». Kalajic, che non ha nulla da temere grazie ai suoi
pluralistici e un po’ fantasiosi legami con la Jul da un lato e i
radicali di Seselj dall’altra, si risponde da solo: «in Occidente
il concetto “democrazia” si declina in termini di maggiore o
minore mercato. Non centra null’altro».
Con Kalajic mi dirigo verso la sede di Otpor, il “movimento degli
studenti”, erede dichiarato della protesta giovanile degli anni
’96-’97. Bombolette nere le hanno sostituite con invocazioni come
“Milosevic ammazzati”, “Milosevic all’Aja”, ma anche “La Serbia
ai serbi”. Nazionalista serbo è anche Kalajic, se si usa il
termine per stigmatizzare quelli che si oppongono alla
diasporizzazione di quel popolo e alla sua cacciata dalle terre
d’origine. E di Kostunica apprezza le ripetute dichiarazioni
“nazionaliste”. «Se è sincero e se prevale su quel manutengolo
dei tedeschi che è Djindjic, suo regista nell’ombra, l’Occidente
potrebbe avere delle brutte sorprese. Sarebbero contenti solo gli
americani».
Gli americani? «Sì. Non hanno forse fatto di tutto perché
Kostunica fallisse? Le intimidazioni militari a 360 gradi intorno
alla Jugoslavia, il rosario delle minacce di processare Milosevic
al tribunale-burletta dell’Aja, l’alluvione di soldi illegale da
un governo straniero all’opposizione e ai suoi media. Agli
americani occorre un satana, o uno zerbino. Col satana hanno la
scusa per avanzare militarmente, col tappetino le loro
multinazionali si mangiano il paese vivo. Bisogna vedere se
Kostunica sfugge ai fili del burattinaio Djindjic e diventa,
anziché zerbino come lui, un “Hitlerunica nazionalista”».
Difficile. Hai voglia di dichiararti nazionalista quando poi
distribuisci ai tuoi elettori un opuscoletto in cui ti
identifichi con quegli economisti serbi del G17 che ritengono
Fmi, privatizzazione di Sanità, distruzione, apparato produttivo,
agricoltura, telecomunicazioni, ovviamente con capitali stranieri
visto che qui non c’è una lira, il riscatto dal socialismo reale.
Come in Ungheria, Russia, Romania e tutto il resto. Ti mangeranno
vivo, con tutta la tua bandierina serba che stai sventolando.
Da Otpor Kalajic preferisce non salire. «Ma tu sai dov’è finito
Milosevic?». «Sta in un rifugio sul confine rumeno». «Cosa fa?».
«Aspetta di uscire indenne dal negoziato serbo-russo». «Ma ha la
possibilità di fuggire?». «Solo di nascosto. Gli spazi aerei
tutt’intorno a noi sono chiusi». «Si suiciderà?». «Non credo. E’
un lottatore. Ha già detto agli intimi che il momento dei
socialisti tornerà non appena il liberismo incomincerà a mordere,
la mafia ad arrivare, il divario tra pochi ricchissimi e molti
poverissimi a crescere». Poco dopo, la smentita del fratello di
Slobo, ambasciatore a Mosca: Milosevic è rientrato alla sua
residenza di Belgrado ed ha incontrato il ministro degli Esteri
russo. Sempre da Mosca arriva la voce che a Milosevic sarebbe
stata offerta ospitalità da Libia, Iraq, Cina e Nord Corea,
quelli che gli Usa chiamano gli “Stati-banditi”. L’amico analista
serbo si perde in fondo a una strada semivuota di gente ma piena
di negozi riaperti dopo due giorni, sfolgoranti di lusinghe
Stefanel, Benetton, Marlboro Classic. Non c’è dubbio: il consenso
a Milosevic, che ancora aveva offerto sprazzi nelle sue due
uscite elettorali, a Belgrado e in Montenegro, si è liquefatto. I
suoi sostenitori non sono riusciti neanche ad accennare a una
risposta popolare, visto che a quella repressiva avevano
rinunciato fin dal principio, alla faccia dei cornacchioni
occidentali che anticipavano massacri militari.