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ILVA, articoli di Antonio Sciotto e di Ornella Bellucci
Tratti da ilmanifesto di
mercoledì 20 giugno 2001
Tra
repressione e infortuni nell'inferno dell'acciaieria
Taranto, Riva usa la cassa
integrazione come un'accetta per punire chi tenta di alzare la testa
ANTONIO SCIOTTO - TARANTO
Una folla di
cassintegrati, dal '99 oltre 600. All'Ilva di Taranto funziona così, il
ricambio è velocissimo: infortuni, proteste sindacali, scioperi,
avances sessuali rifiutate, o il raggiungimento dei 50 anni,
magari. Basta poco e sei messo fuori, in cassa integrazione. L'Ilva - ex
Italsider, azienda pubblica svenduta nel '95 al bresciano Riva per 1400
miliardi di lire - frutta 800-1000 miliardi di utili producendo 8 milioni
di tonnellate d'acciao ogni anno. Nei 20 milioni di metri quadrati della
città-stabilimento, grande oltre due volte la stessa Taranto, chi mette i
bastoni tra le ruote della corsa produttiva è perduto: gli impiegati
troppo sindacalizzati o scomodi fino a due anni fa erano confinati
nell'ormai famosa Palazzina Laf (sulle cui vicende è attualmente in corso
un processo che dovrebbe concludersi entro l'anno, vedi il
manifesto di sabato 16). Oggi c'è un metodo più moderno, valido anche
per gli operai: la cassa integrazione e una riqualificazione
"fantasma", mai partita. Il reinserimento è una chimera: molti
stipendi, che magari raggiungevano o superavano i tre milioni al mese,
spariscono dai libri paga. Intanto, in fila davanti alle porte dello
stabilimento, premono moltissimi giovani che attendono di essere assunti
e che certamente, grazie alle nuove tipologie contrattuali più o meno
"atipiche", costeranno molto meno. Oltre 7000 nuovi contratti
negli ultimi 6 anni, con un turnover del 50%. Cosa ne sia poi di questi
ragazzi una volta che anche loro, per "disgrazia", si siano
infortunati, è tutta un'altra storia. E la potete leggere nell'intervista
a fianco.
Così va all'Ilva. Il primo operaio che incontriamo si chiama Salvatore
M., dipendente del siderurgico dal 1974. "Per circa 26 anni -
racconta - sono stato operatore mezzi di sollevamento. Dal 1986 al 1991,
per una serie di incidenti, ho contratto un'invalidità del 47%. I tubi
che ci ordinavano di spostare erano in giacenza da anni, senza alcuna
manutenzione, tanto che erano coperti dalla ruggine. Molte scaglie di
questa ruggine mi sono finite negli occhi, e mi è stata diagnosticata una
"cicatrice corneale paracentrale" all'occhio sinistro. Inoltre,
a causa di altri incidenti, ho avuto un trauma cranico commotivo e un
infortunio alla mano. Nonostante tutto questo, non mi hanno trasferito a
mansioni più leggere. Dal '95 sono in causa con l'azienda per i danni
biologici, ma finora ho avuto soltanto 10 milioni per il trauma cranico.
La dirigenza Riva dal gennaio del 2000 mi ha messo in cassa integrazione,
offrendomi 300 mila lire in più per un corso di riqualificazione, che
però non è mai stato avviato. Prima prendevo 2 milioni e 600 mila lire al
mese, con premi di produzione e tredicesima. Adesso, a 47 anni, devo
mantenere la mia famiglia con 1 milione e 700 mila lire mensili. Penso
che mi abbiano fatto fuori per i contenziosi che avevo aperto con
l'azienda a causa dei miei infortuni, e perché insistevo per una maggiore
sicurezza nello stabilimento. Ad altri miei colleghi hanno pure offerto
di rinunciare, dietro un compenso di poche centinaia di migliaia di lire
mensili, ai propri contenziosi".
Anche Egidio B. è al siderurgico di Taranto dal 1974. "Nel 1977 -
racconta - ebbi un grave infortunio al braccio destro, che era rimasto
bloccato tra i cilindri del laminatoio. Nel marzo del 2000 è arrivata la
cassa integrazione. Negli ultimi tempi prendevo 3 milioni e 500 mila lire
al mese, oggi mi trovo con 1 milione e 700 mila lire al mese".
Giambattista D., 54 anni, ex impiegato, dice che proprio un infortunio e
il suo essere diventato scomodo hanno spinto l'azienda a metterlo in
cassa integrazione: "Nell'ultimo periodo - spiega - ero ai servizi
doganali, dopo aver lavorato per 22 anni all'ufficio acquisti, soppresso
da Riva poco dopo il suo arrivo e trasferito al nord. Nel '97 scivolai
dalle scale della palazzina doganale, prive dei marmi di calpestìo. Dopo
un anno di operazioni e riabilitazione, nell'aprile del '98 fui mandato
nella palazzina Laf. Al mio posto entrò un altro impiegato:
"temporaneo", dicevano, ma è ancora lì. All'uscita dalla
palazzina Laf mi fu offerto di essere declassato a operaio o di restare a
casa pagato. Scelsi il declassamento. Nel '99 fui messo in cassa
integrazione: mi offrirono 300 mila lire in più per accettare e non
impugnarla. Ho rifiutato. Oggi vivo con 1 milione e 400 mila lire al
mese, prima ne prendevo 3 milioni e 200mila".
Ma come andrà a tutti questi cassintegrati? Ormai sono circa 400, perché
molti, nel frattempo, sono stati messi in mobilità, o, grazie ai benefici
della legge sull'amianto, hanno raggiunto il pensionamento. Sul futuro di
quelli che restano ci sono al momento due posizioni diverse. "La Cee
ha deciso che i finanziamenti ai corsi di riqualificazione, che
dovrebbero venire da stato e regione - spiega Francesco La Cava, Fiom
Cgil Taranto - sono illegittimi. Oggi incontreremo l'azienda e chiederemo
che sia Riva a finanziare i corsi, per reinserire i lavoratori a
novembre. Puntiamo a farli iniziare entro pochi giorni". Contro la
posizione dei confederali, si schierano lo Slai Cobas e gli ex impiegati
della palazzina Laf, insieme a parecchi operai: "La Cee ha fatto
bene a bloccare i finanziamenti - dice Ernesto Palatrasio, Slai Cobas
Taranto - quei corsi sono stati sin dall'inizio una truffa per camuffare
veri e propri esuberi. Noi ci auguriamo che il Tar, nella seduta del
prossimo 26 giugno, annulli il decreto governativo del primo anno di
cassa integrazione e che il nuovo governo non autorizzi il secondo anno
previsto. Chiediamo anzi un risarcimento per i lavoratori e la loro
immediata riassunzione. Se Riva vuole fare i corsi, li potrà fare quando
i lavoratori saranno rientrati. Se aspettiamo il prossimo novembre,
rischiamo che la dirigenza metta in mezzo altri pretesti per non
riassumerli, come le recenti ingiunzioni di chiusura delle cokerie
ordinate dai sindaci di Taranto e Genova".
"Ho visto quel
ragazzo schiantarsi al suolo"
Il racconto di ex
operaio dell'Ilva di Taranto, distrutto da un lavoro rischioso e colpito
dagli infortuni
ORNELLA BELLUCCI -
TARANTO
Le statistiche sul 2000 assegnavano a Taranto la "maglia nera"
degli infortuni sul lavoro, con 113 incidenti ogni 1.000 addetti. Dietro
la freddezza dei numeri ci sono tante storie, molte si possono
raccogliere tra i 12 mila dipendenti dell'Ilva di Taranto. Un ex operaio
del siderurgico, che oggi ha 31 anni, racconta la sua. "Sono entrato
nell'agosto del '98 insieme ad altri ragazzi. Fui messo subito alla
manutenzione lingottiere. Non avevamo esperienza. Lavavamo le lingottiere
sugli stalli, a sei metri dal suolo. Le lingottiere servono a dar forma
alle "bramme", il minerale incandescente che viene versato sui
cilindri per saldarli. Eravamo almeno in tre su ognuna".Avete
ricevuto una formazione?
Dopo i due mesi di prova. Su un pacchetto di 200 ore tra pratica e
teoria, ho fatto 3 ore di teoria, così strutturate: come si legge la
busta paga, come ci si comporta nello stabilimento e un'ora con i
pompieri. Il tutto a scadenza contratto. Noi eravamo quasi tutti ragazzi,
mandarci in formazione significava lasciare sguarnito il posto di lavoro.
Quello che so fare l'ho imparato dagli operai.
Di sicurezza si è parlato?
Ho fatto un'ora dedicata ai gas, ma dopo un anno di stabilimento. Le
condizioni di lavoro sono a rischio. Non c'è controllo. A tre giorni
dall'assunzione nel mio reparto c'è stata una morte. Ho visto un ragazzo
precipitare nel vuoto. Stava collaudando il tetto dell'officina. Ha messo
un piede in fallo. E' morto sul colpo. Lavorava per una ditta esterna.
Spettava al responsabile aziendale accertarsi che i dipendenti della
ditta fossero muniti del materiale di sicurezza. Quel ragazzo non ce
l'aveva.
Cosa ricordi di quei momenti?
Le urla, e il tonfo assordante. E la gente che continuava a lavorare
perché non se n'era accorta. Qualcuno ha chiamato il pronto soccorso. A
noi hanno detto di stare lontani. All'inizio più di un capo aveva tentato
di far passare un'altra versione. "Se diciamo che è morto fuori
dallo stabilimento è meglio". Quando c'era un incidente grave, si
bloccava il reparto per un'ora e si andava a protestare sotto la
direzione. Ma le minacce dei capi incutevano timore, soprattutto ai
giovani. "Se andate lì, scordatevi la conferma".
Chi si è mosso?
Dei ragazzi nessuno: andammo a metà strada. Gli ideali non servono lì
dentro. L'obiettivo era salvare il posto. Il ragazzo morì il lunedì, alla
scadenza dei miei mesi di prova. Dopo tre giorni l'infortunio è toccato a
me. Era fine turno. Potevano essere le 15. L'officina era un ingorgo di
persone. Una settantina, tra turnisti e nuove leve. Avevo imbragato,
secondo le procedure di sicurezza che mi avevano insegnato gli anziani,
una "faccia stretta": un enorme blocco di rame e ghisa. L'avevo
sistemata sul bancone, quando un ragazzo, neo assunto, ha staccato parte
dei miei supporti per imbragare l'altra faccia, non considerando che il
carroponte l'avrebbe alzata per portarla a destinazione. Azionato il
carroponte e sollevato il blocco, la faccia stretta si è staccata
precipitando in velocità. Istintivamente ho cercato di afferrarla: uno
spigolo mi ha tagliato il polpastrello, finendomi sul piede. Non avevo il
casco. Se ti vedevano lavorare senza non ti dicevano niente, eppure sulle
nostre teste c'era una struttura in amianto che cadeva a pezzi. Ci era
stato dato, ma non potevamo usarlo perché durante il lavoro non avremmo
sentito i rumori, lo mettevamo solo quando veniva Riva junior. La prima
preoccupazione è stata: "adesso mi buttano fuori". L'unica
ambulanza dell'Ilva non era disponibile: era stata mandata in cokeria.
Usciamo, fermiamo il primo furgoncino e ci facciamo portare al pronto
soccorso. Mi hanno staccato un bonus di 10 giorni e invitato a fare dei
controlli. Poi sono rientrato al lavoro, senza passare la visita di
controllo. Il giorno dopo sono stato messo di nuovo sul ciclo produttivo.
Ricordi altri infortuni sul posto di lavoro?
Molti, specie alle mani. Non venivano denunciati. Ricordo anche la morte
di un operaio investito da un muletto al treno nastri, dopo aver lavorato
per 12 ore. Oltre alle 12 ore se ne facevano almeno 10 di straordinario.
Vi siete mai rivolti al sindacato?
Sì. A parte la sicurezza, chiedevamo spogliatoi umani, armadietti con una
porta e acqua potabile. Non ce n'era, ci davano i bustoni di carta. Siamo
stati per 4 mesi senza bagno.
Com'è finito il tuo rapporto con l'azienda?
Mi sono ammalato di stress. La mia vita privata era morta. Lavoravo 12
ore al giorno: sveglia alle 5, alle 6i ero in stabilimento. Staccavo alle
16, e alle 17 ero ancora in fila per uscire dal parcheggio. Il mio fisico
non ha retto più.