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Riccardo Petrella: La nuova lotta per i diritti alla vita.



Riccardo Petrella*

La nuova lotta per i diritti alla vita.
Contro lo slittamento nella cultura dei bisogni.

tratto dal libro FONDAZIONE ROBERTO FRANCESCHI
23 gennaio 1973 - 23 gennaio 2002
Del diritto alla buona acqua

Grazie alle lotte politiche, sociali e civili condotte nel XIX secolo e 
nella prima
metà del XX secolo, le nostre società hanno formalmente riconosciuto il 
carattere
“naturale” ed inalienabile dei diritti umani e sociali in quanto inerenti 
alla persona
umana. Il che significa che per il fatto di esistere, ogni persona umana ha 
titolo
naturale ed inalienabile, ad una serie di diritti considerati 
indispensabili ed essenziali
alla vita individuale e collettiva. È il principio dell’ entitlement.
I diritti non devono essere acquisiti.

Essi sono innati e nessuno deve dimostrare di “meritarli”, salvo nel caso 
in cui
un individuo o un gruppo di individui sia stato privato dalla giustizia 
dello Stato
del godimento parziale o totale, temporaneo o definitivo, di certi diritti. 
Beninteso
ai diritti corrisponde una serie di doveri individuali e collettivi, 
altrettanto
naturali ed imprescrittibili che consentono il buon funzionamento del “vivere
insieme” nell’interesse generale.

Nel corso degli ultimi trent’anni, a partire dagli Stati Uniti e poi in Europa
Occidentale, con una accelerazione significativa a partire dalla metà degli 
anni
’80, le società dette “sviluppate” hanno abbandonato le concezioni testé 
menzionate
per passare da una cultura dei diritti ad una società fondata sulla cultura
dei bisogni.
La prima categoria dei diritti ad essere stata “declassata” è quella dei 
diritti
sociali (diritto al lavoro, diritto ad un reddito di base decente, diritto 
contro i
rischi di malattia, diritto all’educazione, diritto alla pensione...), 
quella che per
l’appunto ha richiesto nel passato le lotte più dure contro i poteri 
dominanti.

Grazie ad una panoplia di misure legislative e di nuove pratiche sociali, 
le classi
al potere degli ultimi trent’anni hanno imposto la tesi che i diritti 
sociali non sono
dei diritti “naturali” ma dei diritti acquisiti e che, come tali, sono 
reversibili a
seconda dell’evoluzione della società e, soprattutto, delle risorse 
finanziarie. I
diritti sociali sarebbero, dunque, variabili come una fisarmonica: possono 
essere
estesi ed ampliati o ristretti e ridotti in funzione dell’energia 
disponibile iniettata
(in questo caso, le risorse finanziarie). Sono così riusciti a 
vulnerabilizzare i diritti
sociali rendendoli aleatori e sottomessi agli interessi dei detentori di 
capitale finanziario.

L’accesso e la soddisfazione dei diritti dipendono dalla verifica delle loro
pertinenze rispetto al rendimento , elevato a parametro di definizione del 
valore.
Conseguentemente , il diritto al lavoro è stato trasformato in dovere di 
dimostrazione
di occupabilità.
Ridotta a “risorse umane” la persona non ha più diritti sociali se non è più
occupabile. Tutt’al più essa può fare l’oggetto di assistenza e di compassione
sociale.

Lo stesso dicasi del diritto alla pensione. Lo Stato si dichiara sempre più
incapace di assicurare un regime pensionistico pubblico, a ripartizione 
finanziato
attraverso le imposte ed i contributi sociali. Il pretesto consiste a dire 
che lo Stato
non può mantenere né aumentare il livello, considerato elevato di 
tassazione pena
l’indebitamento delle imprese “neutrali” sui mercati mondiali.

Risultato: quasi dappertutto in “Occidente” gli Stati sono passati ad un 
sistema
pensionistico a “capitalizzazione” secondo il quale ogni individuo deve 
pensare ad
accumulare il capitale che gli permetterà di godere nella vecchiaia, di una 
rendita.
In altri termini, la vecchiaia (e tutto ciò che comporta sul piano delle 
condizioni
di vita materiale ed immateriale) non è più un periodo dell’esistenza 
“illuminato”
dalla solidarietà tra le generazioni ma una fase ridotta ad una questione 
puramente
individualista.
Più il capitale individuale accumulato è elevato, più la pensione sarà 
elevata.
In fondo, se ci limitiamo ai due esempi (lavoro e pensioni),le classi al 
potere
hanno trasformato l’essenziale (il diritto alla vita) in esigenze, 
molteplici, del tutto
relative (bisogno del lavoro,bisogni di rendita vitalizia...)

La seconda categoria di diritti ad essere “declassata” è quella dei diritti 
umani
di base - diritto all’acqua (potabile e per l’alimentazione), diritto 
all’alimentazione,
diritto alla salute, diritto all’alloggio, diritto all’educazione, per 
esempio.
È raro trovare, negli ultimi anni, una dichiarazione ministeriale a 
conclusione
di grandi conferenze neutrali intergovernative o delle Nazioni Unite dove 
l’accento
non sia stato messo sulle nozioni di bisogno piuttosto che su quelle di
diritto.

A Istambul (1996, Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sull’abitato)
hanno parlato di bisogno d’alloggio e non di diritto all’alloggio. Lo 
stesso dicasi
del vertice mondiale della Fao (Roma 1998) sull’alimentazione: l’accesso alla
nutrizione di base è stato proclamato come un bisogno e non più come un 
diritto.
All’Aja (marzo 2000), al 2° Foro Mondiale sull’Acqua, i ministri di 118 
governi
firmatari della Dichiarazione ministeriale finale hanno rifiutato di 
riconoscere
l’accesso all’acqua come diritto per affermare che esso è “un bisogno vitale”.

Il passaggio alla cultura del bisogno, per quanto riguarda i diritti umani 
alla
vita, non ci può sorprendere per le nostre società che si dichiarano, senza 
più sofismi
né sotterfugi retorici, “società ad economia capitalista di mercato”.
In effetti in una economia capitalista di mercato tutto è ridotto a merce e
niente ha valore se non per l’oggetto di transizione di scambio sul 
mercato, così
che il suo valore è determinato in funzione del rendimento del capitale.

L’acqua, l’alloggio, la salute, l’alimentazione, l’educazione sono ormai 
considerati
principalmente come dei beni economici , delle merci.

Non per nulla la fase attuale del trionfo dell’economia capitalista di 
mercato si
fonde su il rispetto e la universalizzazione del “diritto di proprietà 
intellettuale” su
tutto ciò che può essere trasformato in merce, diritto che consente al 
capitale privato
di impadronirsi legalmente, quindi “legittimamente” delle proprietà, anche
se a tempo limitato, e del controllo di tutte le “risorse” materiali ed 
immateriali
esistenti.

La vera ed ultima categoria dei diritti ad essere stata declassata è quella 
dei
diritti politici (libertà politiche, libertà civili, sovranità del popolo, 
autonomia
della giustizia...).
L’esercizio di questi diritti è stato sistematicamente sottomesso a 
restrizione a
vincoli sempre più limitativi e severi per rispondere , si afferma, ad un 
più grande
bisogno di sicurezza individuale e collettiva. Il bisogno di sicurezza è 
ostentatamente
strumentalizzato per ridurre il campo di espressione e di promozione dei
diritti politici e giuridici. Inoltre non si esita più nel parlare di 
“mercato della politica”,
“mercato della giustizia” di riformare le istituzioni politiche e 
giudiziarie per
adeguarle secondo i criteri gestionali propri delle imprese commerciali e 
delle
finanziarie.
Ora non v’è necessità di dimostrare che esiste una profonda differenza tra
“diritto” e “bisogno”. Nel caso del diritto, per esempio del diritto 
all’acqua, ciò
significa che la collettività, politicamente organizzata, deve creare e 
migliorare le
condizioni necessarie ed indispensabili, specie sul piano del finanziamento 
e della
gestione, affinché tutti i membri della comunità abbiano accesso all’acqua 
nella
quantità e nella qualità sufficiente alla vita.
Nel caso del bisogno, invece, l’accesso all’acqua nasce sulle 
responsabilità e sull’iniziativa
di ciascun individuo la cui capacità di soddisfare il bisogno sarà funzionale
alle sua capacità d’acquisto (monetario).
Se la cultura dei bisogni continuerà a dominare nei prossimi anni, più di 4
miliardi di esseri umani saranno privati del diritto alla vita nel 2020-25.

Il senso della storia umana è stato quello di elevare sempre di più l’amore 
ed il
rispetto della vita unitamente a quello di voler vivere insieme ed averne 
la gioia.
I prossimi venti anni richiedono nuovamente un grande sforzo d’innovazione
politica, sociale, economica, tecnologica perché si ritrovi e si proclami 
questo
“senso della storia”, affinché il mondo diventi il luogo ed il tempo della 
vita per
tutti. Come?
Con le lotte politiche, sociali, culturali in sostegno di tutto ciò che 
promuove
il rispetto della vita e la volontà del vivere insieme.

*Riccardo Petrella, docente di Economia Politica all’Università Cattolica 
di Lovanio (Belgio),
Coordinatore dei Comitati Nazionali per il Contratto Mondiale dell’acqua.