[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

Baricco per il 21 settembre giornata della pace



Iliade tra guerra e pace  <http://www.repubblica.it/>Repubblica - 15-09-2004



Non sono, questi, anni qualunque per leggere l´Iliade. O per «riscriverla»,
come mi è accaduto di fare. Sono anni di guerra. E per quanto «guerra»
continui a sembrarmi un termine sbagliato per definire cosa sta accadendo
nel mondo (un termine di comodo, direi), certo sono anni in cui una certa
orgogliosa barbarie, per millenni collegata all´esperienza della guerra, è
ridivenuta esperienza quotidiana. Battaglie, assassinii, violenze, torture,
decapitazioni, tradimenti. Eroismi, armi, piani strategici, volontari,
ultimatum, proclami. Da qualche profondità che credevamo più sigillata, è
tornato a galla tutto l´atroce e luminoso armamentario che è stato per
tempo immemorabile il corredo di un´umanità combattente. In un contesto del
genere - vertiginosamente delicato e scandaloso - anche i dettagli assumono
un significato particolare. Leggere in pubblico l´Iliade è un dettaglio, ma
non è un dettaglio qualsiasi. Per esser chiaro, vorrei dire che l´Iliade è
una storia di guerra, lo è senza prudenza e senza mezze misure: e che è
stata composta per cantare un´umanità combattente, e per farlo in modo così
memorabile da durare in eterno, ed arrivare fino all´ultimo figlio dei
figli, continuando a cantare la solenne bellezza, e l´irrimediabile
emozione, che era stata un tempo la guerra, e che sempre sarà. A scuola,
magari, la raccontano diversamente. Ma il nocciolo è quello. L'Iliade è un
monumento alla guerra.

Così la domanda sorge naturale: che senso ha in un momento come questo
dedicare tanto spazio, e attenzione, e tempo a un monumento alla guerra?
Come mai, con tante storie che c´erano, ci si ritrova attratti proprio da
quella, quasi fosse una luce che detta una fuga alla tenebra di questi
giorni?
Credo che una risposta vera la si potrebbe dare solo se si fosse capaci di
capire fino in fondo il nostro rapporto con tutte le storie di guerra, e
non con questa in particolare: capire il nostro istinto a non smettere di
raccontarle mai.
Da qualche profondità che credevamo sigillata la barbarie delle armi,
antico corredo dell´umanità, è ridiventata esperienza quotidiana
Bellissimi sono gli animali e solenne è la natura quando fa da cornice al
massacro
Ettore entra in città e incontra tre donne : è un viaggio nell´altra faccia
del mondo
Una cosa sorprendente è la forza con cui sono tramandate le ragioni e le
figure dei vinti

Ma è una questione molto complessa, che non può certo essere risolta qui, e
da me. Quel che posso fare è restare all´Iliade e annotare due cose che, in
un anno di lavoro a stretto contatto con quel testo, mi è accaduto di
pensare: riassumono quanto, in quella storia, mi è apparso con la forza e
la limpidezza che solo i veri insegnamenti hanno.

La prima. Una delle cose sorprendenti dell´Iliade è la forza, direi la
compassione, con cui vi sono tramandate le ragioni dei vinti. È una storia
scritta dai vincitori, eppure nella memoria rimangono anche, se non
soprattutto, le figure umane dei Troiani. Priamo, Ettore, Andromaca,
perfino piccoli personaggi come Pàndaro o Sarpedonte. Questa capacità,
sovrannaturale, di essere voce dell´umanità tutta e non solo di se stessi,
l´ho ritrovata lavorando al testo e scoprendo come i Greci, nell´Iliade,
abbiano tramandato, tra le righe di un monumento alla guerra, la memoria di
un amore ostinato per la pace. A prima vista non te ne accorgi, accecato
dai bagliori delle armi e degli eroi. Ma nella penombra della riflessione
viene fuori un´Iliade che non ti aspetti. Vorrei dire: il lato femminile
dell´Iliade. Sono spesso le donne a pronunciare, senza mediazioni, il
desiderio di pace. Relegate ai margini del combattimento, incarnano
l´ipotesi ostinata e quasi clandestina di una civiltà alternativa, libera
dal dovere della guerra. Sono convinte che si potrebbe vivere in un modo
diverso, e lo dicono. Nel modo più chiaro lo dicono nel VI libro, piccolo
capolavoro di geometria sentimentale.
In un tempo sospeso, vuoto, rubato alla battaglia, Ettore entra in città e
incontra tre donne: ed è come un viaggio nell´altra faccia del mondo. A ben
vedere tutt´e tre pronunciano una stessa supplica, pace, ma ognuna con la
propria tonalità sentimentale. La madre lo invita a pregare. Elena lo
invita al suo fianco, a riposarsi (e anche a qualcosa di più, forse).
Andromaca, alla fine, gli chiede di essere padre e marito prima che eroe e
combattente. Soprattutto in questo ultimo dialogo, la sintesi è di un
chiarore quasi didascalico: due mondi possibili stanno uno di fronte
all´altro, e ognuno ha le sue ragioni. Più legnose, cieche, quelle di
Ettore: moderne, tanto più umane, quelle di Andromaca. Non è mirabile che
una civiltà maschilista e guerriera come quella dei Greci abbia scelto di
tramandare, per sempre, la voce delle donne e il loro desiderio di pace?
Lo si impara dalla loro voce, il lato femminile dell´Iliade: ma una volta
imparato, lo si ritrova, poi, dappertutto. Sfumato, impercettibile, ma
incredibilmente tenace. Io lo vedo fortissimo nelle innumerevoli zone
dell´Iliade in cui gli eroi, invece che combattere, parlano. Sono assemblee
che non finiscono mai, dibattiti interminabili, e uno smette di odiarli
solo quando inizia a capire cosa effettivamente sono: sono il loro modo di
rinviare il più possibile la battaglia. Sono Sherazade che si salva
raccontando. La parola è l´arma con cui congelano la guerra. Anche quando
discutono di come farla, la guerra, intanto non la fanno, e questo è pur
sempre un modo di salvarsi. Sono tutti condannati a morte ma l´ultima
sigaretta la fanno durare un´eternità: e la fumano con le parole. Poi,
quando in battaglia ci vanno davvero, si trasformano in eroi ciechi,
dimentichi di qualsiasi scappatoia, fanaticamente votati al dovere. Ma
prima: prima è un lungo tempo, femminile, di lentezze sapienti, e sguardi
all´indietro, da bambini.
Nel modo più alto e accecante, questa sorta di ritrosia dell´eroe si
coagula, come è giusto, in Achille. È lui quello che ci mette più tempo,
nell´Iliade, a scendere in battaglia. È lui che, come una donna, assiste da
lontano alla guerra, suonando una cetra e rimanendo al fianco di quelli che
ama. Proprio lui, che della guerra è l´incarnazione più feroce e fanatica,
letteralmente sovrumana. La geometria dell´Iliade è, in questo, di una
precisione vertiginosa. Dove più forte è il trionfo della cultura
guerriera, più tenace e prolungata è l´inclinazione, femminile, alla pace.
Alla fine è in Achille che l´inconfessabile di tutti gli eroi erompe in
superficie, nella chiarezza senza mediazioni di un parlare esplicito e
definitivo. Quel che lui dice davanti all´ambasceria mandatagli da
Agamennone, nel IX libro, è forse il più violento e indiscutibile grido di
pace che i nostri padri ci abbiano tramandato:

"Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio fiorente
possedeva prima, in tempo di pace, prima che giungessero i figli dei Danai;
non le ricchezze che, dietro la soglia di pietra, racchiude il tempio di
Apollo signore dei dardi, a Pito rocciosa; si possono rubare buoi, e pecore
pingui, si possono acquistare tripodi e cavalli dalle fulve criniere; ma la
vita dell´uomo non ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando
ha passato la barriera dei denti."

Sono parole da Andromaca: ma nell´Iliade le pronuncia Achille, che è il
sommo sacerdote della religione della guerra: e per questo esse risuonano
con un´autorevolezza senza pari. In quella voce - che, sepolta sotto un
monumento alla guerra, dice addio alla guerra, scegliendo la vita -
l´Iliade lascia intravedere una civiltà di cui i Greci non furono capaci, e
che tuttavia avevano intuito, e conoscevano, e perfino custodivano in un
angolo segreto e protetto del loro sentire. Portare a compimento
quell´intuizione forse è quanto nell´Iliade ci è proposto come eredità, e
compito, e dovere.

Come svolgere quel compito? Cosa dobbiamo fare per indurre il mondo a
seguire la propria inclinazione per la pace? Anche su questo l´Iliade ha,
mi sembra, qualcosa da insegnare. E lo fa nel suo tratto più evidente e
scandaloso: il suo tratto guerriero e maschile. È indubbio che quella
storia presenti la guerra come uno sbocco quasi naturale della convivenza
civile. Ma non si limita a questo: fa qualcosa di assai più importante e,
se vogliamo, intollerabile: canta la bellezza della guerra, e lo fa con una
forza e una passione memorabili. Non c´è quasi eroe di cui non si ricordi
lo splendore, morale e fisico, nel momento del combattimento. Non c´è quasi
morte che non sia un altare, decorato riccamente e ornato di poesia. La
fascinazione per le armi è costante, e l´ammirazione per la bellezza
estetica dei movimenti degli eserciti è continua. Bellissimi sono gli
animali, nella guerra, e solenne è la natura quando è chiamata a far da
cornice al massacro. Perfino i colpi e le ferite vengono cantati come opere
superbe di un artigianato paradossale, atroce, ma sapiente. Si direbbe che
tutto, dagli uomini alla terra, trovi nell´esperienza della guerra il
momento di sua più alta realizzazione, estetica e morale: quasi il culmine
glorioso di una parabola che solo nell´atrocità dello scontro mortale trova
il proprio compimento. In questo omaggio alla bellezza della guerra,
l´Iliade ci costringe a ricordare qualcosa di fastidioso ma inesorabilmente
vero: per millenni la guerra è stata, per gli uomini, la circostanza in cui
l´intensità - la bellezza - della vita si sprigionava in tutta la sua
potenza e verità. Era quasi l´unica possibilità per cambiare il proprio
destino, per trovare la verità di se stessi, per assurgere a un´alta
consapevolezza etica. Di contro alle anemiche emozioni della vita, e alla
mediocre statura morale della quotidianità, la guerra rimetteva in
movimento il mondo e gettava gli individui al di là dei consueti confini,
in un luogo dell´anima che doveva sembrar loro, finalmente, l´approdo di
ogni ricerca e desiderio. Non sto parlando di tempi lontani e barbari:
ancora pochi anni fa, intellettuali raffinati come Wittgenstein e Gadda,
cercarono con ostinazione la prima linea, il fronte, in una guerra
disumana, con la convinzione che solo là avrebbero trovato se stessi. Non
erano certo individui deboli, o privi di mezzi e cultura. Eppure, come
testimoniano i loro diari, ancora vivevano nella convinzione che
quell´esperienza limite - l´atroce prassi del combattimento mortale -
potesse offrire loro ciò che la vita quotidiana non era in grado di
esprimere. In questa loro convinzione riverbera il profilo di una civiltà,
mai morta, in cui la guerra rimaneva come fulcro rovente dell´esperienza
umana, come motore di qualsiasi divenire. Ancor oggi, in un tempo in cui
per la maggior parte degli umani l´ipotesi di scendere in battaglia è poco
più che un´ipotesi assurda, si continua ad alimentare, con guerre
combattute per procura attraverso i corpi di soldati professionisti, il
vecchio braciere dello spirito guerriero, tradendo una sostanziale
incapacità a trovare un senso, nella vita, che possa fare a meno di quel
momento di verità. La malcelata fierezza maschile cui, in Occidente come
nel mondo islamico, si sono accompagnate le ultime esibizioni belliche,
lascia riconoscere un istinto che lo shock delle guerre novecentesche non
ha evidentemente sopito. L´Iliade raccontava questo sistema di pensiero e
questo modo di sentire, raccogliendolo in un segno sintetico e perfetto: la
bellezza. La bellezza della guerra - di ogni suo singolo particolare - dice
la sua centralità nell´esperienza umana: tramanda l´idea che altro non c´è,
nell´esperienza umana, per esistere veramente.
Quel che forse suggerisce l´Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve
dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire
e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per
quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma
bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce
mortale del fuoco. Non c´è paura, o orrore di sé, che sia riuscito a
tenerli lontani dalle fiamme: perché in esse sempre hanno trovato l´unico
riscatto possibile dalla penombra della vita. Per questo, oggi, il compito
di un vero pacifismo dovrebbe essere non tanto demonizzare all´eccesso la
guerra, quanto capire che solo quando saremo capaci di un´altra bellezza
potremo fare a meno di quella che la guerra da sempre ci offre.
Costruire un´altra bellezza è forse l´unica strada verso una pace vera.
Dimostrare di essere capaci di rischiarare la penombra dell´esistenza,
senza ricorrere al fuoco della guerra. Dare un senso, forte, alle cose
senza doverle portare sotto la luce, accecante, della morte. Poter cambiare
il proprio destino senza doversi impossessare di quello di un altro;
riuscire a mettere in movimento il denaro e la ricchezza senza dover
ricorrere alla violenza; trovare una dimensione etica, anche altissima,
senza doverla andare a cercare ai margini della morte; incontrare se stessi
nell´intensità di luoghi e momenti che non siano una trincea; conoscere
l´emozione, anche la più vertiginosa, senza dover ricorrere al doping della
guerra o al metadone delle piccole violenze quotidiane. Un´altra bellezza,
se capite cosa voglio dire.
Oggi la pace è poco più che una convenienza politica: non è certo un
sistema di pensiero e un modo di sentire veramente diffusi. Si considera la
guerra un male da evitare, certo, ma si è ben lontani da considerarla un
male assoluto: alla prima occasione, foderata di begli ideali, scendere in
battaglia ridiventa velocemente un´opzione realizzabile. La si sceglie, a
volte, perfino con una certa fierezza. Continuano a schiantarsi, le falene,
nella luce del fuoco. Una reale, profetica e coraggiosa ambizione alla pace
io la vedo soltanto nel lavoro paziente e nascosto di milioni di artigiani
che ogni giorno lavorano per suscitare un´altra bellezza, e il chiarore di
luci, limpide, che non uccidono. E´ un´impresa utopica, che presuppone una
vertiginosa fiducia nell´uomo. Ma mi chiedo se mai ci siamo spinti così
avanti, come oggi, su un simile sentiero. E per questo credo che nessuno,
ormai, riuscirà più a fermare quel cammino, o a invertirne la direzione.
Riusciremo, prima o poi, a portar via Achille da quella micidiale guerra. E
non saranno la paura né l´orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche,
diversa, bellezza, più accecante della sua, e infinitamente più mite.

Alessandro Baricco
Segnalato da P.I.