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(Fwd) Intervista a Nanni Salio
- To: pck-pace@peacelink.it
- Subject: (Fwd) Intervista a Nanni Salio
- From: "francesco iannuzzelli" <francesco@href.org>
- Date: Fri, 30 Nov 2001 22:36:44 -0000
- Organization: peacelink
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da "L'Unione Sarda"
venerdì 30 novembre 2001
http://www.unionesarda.it/news.asp?IDNews=23007&IDCategoria=1&Archivio
INTERVISTA
Nanni Salio, scienziato contro la guerra
Alternativa alla guerra e nonviolenza per lui non sono solo belle
parole. Ma a Nanni Salio, torinese del 1943, ricercatore di storia
della fisica all’università, la militanza nei movimenti per la pace è
costata cara. Una brillante carriera accademica sacrificata per
azioni e ideali.
Alla fine degli anni Sessanta, mentre in Italia si sviluppava l’acceso
dibattito sul nucleare, Salio, neolaureato, firmava una petizione
contro la proliferazione degli esperimenti atomici. Una presa di
posizione che non ha mai voluto nascondere e che «in certi
ambienti scientifici non era molto gradita».
E’ stato segretario dell’Istituto italiano di ricerche per la Pace,
collabora con numerose riviste del gruppo Abele. Tra le principali
pubblicazioni, Scienza e guerra, 1982, La pace educa alla pace,
1983, Le guerre nel Golfo, 1991, Potere della nonviolenza, 1995.
Attualmente è responsabile del Centro internazionale “Sereno
Regis” di Torino. La Comunità di Sestu lo ha invitato a partecipare
al dibattito “Terrorismo e guerra per un nuovo ordine mondiale? Ci
sono alternative”, tenuto mercoledì 28 all’aula consiliare del
Comune.
La nonviolenza oggi è un’utopia?
È piuttosto una distopia pensare che sia possibile portare avanti la
storia dell’uomo come storia di guerra. Questa strada porta solo
all’autodistruzione. La nonviolenza, invece, non è un’utopia.
Sicuramente non lo è stata nel secolo appena trascorso.
La guerra: una necessità?
La guerra è un progetto di dominio e, al contrario della strategia
nonviolenta, viene preparata in tempo di pace.
Lei sostiene che Bin Laden sia una creatura degli Stati Uniti.
Perché?
E’ ampiamente documentato che dal 1979 in poi, cioè dall’anno in
cui l’Urss invase l’Afghanistan, c’è sempre stato un rapporto tra i
servizi segreti della Cia, quelli pakistani, e i guerriglieri mujaheddin.
Dopo la presa del potere dell’Alleanza del Nord, gli stessi servizi
pakistani hanno sostenuto ancora i talebani e quindi Bin Laden che
già faceva parte di quella fazione. Non dimentichiamo inoltre che la
famiglia Bin Laden e la famiglia Bush commerciano da decenni nel
settore petrolifero. [George W Bush era tra i maggiori azionisti di
un fondo d’investimento in società con uno dei fratelli di Bin Laden]
Secondo la teoria del “contraccolpo”, gli Stati Uniti sono in parte
causa della loro tragedia. E’ una giustificazione nei confronti di chi
ha commesso gli attentati dell'11 settembre?
Per un nonviolento non esiste alcuna giustificazione alla violenza.
Questo non significa che non bisogna avere il coraggio di
interrogarsi. La teoria che lei cita è di uno studioso pienamente
inserito nell’establishment americano, Chalmers Johnson, esposta
nel libro Gli ultimi giorni dell'impero americano (Garzanti, Milano
2001). Secondo Johnson, la politica estera ed economica
americana ha prodotto talmente tanti guasti e seminato tanto odio
da ritorcersi contro, anche se i cittadini americani non ne sono
consapevoli. Anche la Cia ha riconosciuto ufficialmente la teoria col
nome di “blowback”.
Dietro l’11 settembre c’è solo Bin Laden?
Giulietto Chiesa ha detto: “Cercate la cupola, non solo Bin Laden”.
Bin Laden è in realtà una metafora. Non abbiamo prove, ma solo
indizi sulla sua piena responsabilità negli attentati dell’11
settembre. Riuscire a compiere un attentato di questa portata
senza la complicità di altre organizzazioni è impossibile. E poi ci
sono dei segnali che farebbero pensare ad un coinvolgimento della
Cia nelle speculazioni finanziarie che hanno preceduto la tragedia.
A 15 miglia dal Pentagono si trova una base aerea per i caccia che
però non hanno fatto in tempo a evitare il disastro al ministero
americano. Il tempo intercorso tra l’attentato alle torri gemelle e
quello del Pentagono sarebbe stato sufficiente perché i caccia
militari intercettassero il jet diretto a Washington. Inoltre
personaggi vicini ai servizi segreti pakistani ritengono impossibili
eventi simili senza la copertura di settori interni. Un attentato di
questo tipo deve essere progettato per anni. E’ impossibile
mantenere il segreto per tanto tempo. L’osmosi tra terrorismo e
servizi segreti, oltretutto, non è una novità. In Italia ne sappiamo
qualcosa.
Come è possibile diffondere il messaggio di pace?
Il movimento per la pace non possiede strumenti mediatici così
potenti da raggiungere tutta l’opinione pubblica.
Nonostante ciò sappiamo che almeno il 50 per cento dei cittadini è
contrario alla guerra e che si aggira attorno a questa percentuale
anche la quantità di coloro che ritengono l’informazione inadeguata
e manipolata. Oggi, una parte significativa dell’informazione che il
movimento per la pace può controllare, usa la tecnologia e
soprattutto Internet, che si sta rivelando molto efficace.
Qual è il compito principale del movimento per la pace?
Sicuramente l’azione educativa che però richiede molto tempo. Il
movimento per la pace non può modificare la situazione
nell’immediato.
Dopo l’11 settembre anche le strategie del movimento devono
cambiare?
Al di là della manifestazione deve esistere l’azione.
Il movimento per la pace deve superare la fase reattiva e spontanea
per diventare struttura organizzata permanente capace di prevenire
le situazioni di crisi e non limitarsi ad inseguire gli eventi. Nel
movimento sono presenti diverse componenti storiche che sono
intervenute contro specifiche guerre. A mio avviso, in questa fase è
richiesto un mutamento importante, ovvero la capacità di assumere
il messaggio e la politica dell’azione nonviolenta come la linea
guida. Sin d’ora questo è stato fatto solo da una minoranza ed è un
elemento di debolezza ancor oggi presente. Una proposta coerente
si basa su alcuni punti essenziali. Da un lato deve avvenire una
democratizzazione delle Nazioni Unite affinché possano svolgere
ciò che ha sancito la Carta internazionale, cioè risolvere il conflitto
con le forze nonviolente (caschi bianchi che intervengono in modo
pacifico). D’altro lato si devono creare le condizioni per un modello
di economia e di sviluppo coerente con uno stile di vita non violento
e non basato sullo sfruttamento.
Gli inviati di guerra sostengono tutti la pace?
No. Il loro è un compito importante ma non tutti credono nel
“Giornalismo di pace” per il quale le notizie devono essere
educative. Johan Galtung ha proposto delle linee guida per i
giornalisti sul sito Transcend.org che dovrebbero essere lette.
Comunque, i peggiori sono i commentatori, quelli che fanno
giornalismo a tavolino.
Per esempio?
Tiziano Terzani, Enzo Bettiza, Oriana Fallaci, per fare qualche
nome. I commentatori spesso giustificano la guerra, invece l’inviato
al fronte, cito Ettore Mo, Maurizio Chierici, riesce quasi sempre a
riportare un punto di vista equilibrato. Bisogna anche dire che i
giornalisti non vengono messi in condizioni di operare al meglio e
liberamente. Un esempio di informazione libera è il libro del
giornalista pachistano Ahmed Rashid, The story of the afghan
warlords (La storia dei signori della guerra afghani) che presto verrà
pubblicato in Italia da Feltrinelli. Bisognerebbe leggere il ritratto che
Rashid ha fatto dei talebani. Ricordiamoci che nel ’94 a Kabul
erano stati accolti come dei liberatori per porre fine alle violenze
dell’Alleanza del Nord.
Laura Floris
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