[Pace] L'Afghanistan un anno dopo



RITORNO A HERAT
L'Afghanistan un anno dopo
"Ma se hai voglia di una cosa veramente afghana, compra questa", mi dice il rigattiere, tra elmetti e altri cimeli britannici. E mi passa una Lonely Planet.
1973. L'Hippie Trail. Il viaggio verso l'India degli europei.
La Lonely Planet è nata così.
Entrando da ovest, dall'Iran, Herat era la prima tappa. E ancora oggi è tutta luci, colori. Vita. Herat è la meno afghana delle città afghane - è quello che l'Afghanistan sarebbe stato senza le sue mille guerre. E però, il primo bambino che incroci non ha libri, nello zaino, ma plastica. Non sta tornando da scuola. Sta frugando nella spazzatura.
Perché la guerra, qui, non è affatto finita.
Quando gli americani sono arrivati, nel 2001, era alla fame un afghano su tre. Quando sono andati via, un anno fa, un afghano su due. E ora, con le sanzioni contro i talebani, il 95% della popolazione è in povertà. Ora è alla fame un afghano su uno.
La guerra ha solo cambiato armi.
Pensiamo all'Afghanistan, e pensiamo a un medioevo di violenza e miseria. Ma la via a fianco della Jami Masjid, la moschea del Venerdì, un capolavoro di architettura che scintilla al sole di blu e verde, racconta un'altra storia. Sono tutti antiquari. E dentro, è tutto afghano. "La nostra rovina sono stati gli stranieri", dice Riza Habibi, lucidando una teiera. E per stranieri, intende i sovietici: l'invasione del 1979. "L'Afghanistan era magnifico. E soprattutto Herat, una delle oasi più belle della via della Seta. E poi la Firenze del nostro Rinascimento. Herat è sempre stata un crocevia di artisti. E artiste", dice. Ha intorno argenti, tappeti, perle. E due bottiglie ingiallite: l'Afghanistan è famoso per l'uva. E un tempo, era famoso per il vino. "Gli islamisti vogliono il ritorno alle tradizioni. Alle origini. Ma chi decide quando tutto è iniziato?", dice, mentre il figlio tira fuori un rubab, una specie di liuto, e chiude la porta, e comincia a suonare: ora è proibito. Potrebbe essere arrestato.
Nelle vecchie Polaroid, le ragazze sorridono in shorts al bar dell'hotel Behzad. "Era proprio lì", dice Mahdi Sakhi, 61 anni, indicandomi un semaforo. "Si ballava fino all'alba", dice, mentre suo figlio, che ha 19 anni, mi guarda curioso: non ha mai incontrato un occidentale che non sia un militare.
Ha le stampelle: è saltato su una mina.
Quelle inesplose sono circa 10 milioni. Sparse ovunque da una guerra voluta dopo l'Undici Settembre per trovare bin Laden. Che alla fine è stato ucciso in Pakistan, però, per un attentato opera di cittadini dell'Arabia Saudita: due paesi che sono tra i più stretti alleati degli Stati Uniti. La NATO è questa, vista da qui. Per ogni suo caduto c'è un nome, una foto. Un ritaglio di cronaca. Mentre dei morti afghani non è rimasto neppure un numero.
Non sono mai stati contati.
Il Pardees, invece, l'altro hotel molto frequentato, esiste ancora. Ma adesso, è la municipalità di Herat. E al cancello, sventola la bandiera dei talebani. Nessuno aveva previsto la fuga del presidente Ashraf Ghani. Neppure loro, probabilmente: sono tornati al potere all'improvviso, e a un anno da quel 15 agosto, non sembrano avere le idee chiare. Le scuole femminili, per esempio, sono chiuse. Ma persino Suhail Shaheen, il portavoce, la cui famiglia è a Doha, ha due figlie al liceo. Come sarà il governo? Si avranno elezioni? Un parlamento? Come funzioneranno i tribunali? E l'economia? Per ora si va avanti a decreti. Ed è tutto provvisorio. Il compito di spiegare cosa sia questo Emirato che ha sostituito la Repubblica è stato affidato agli ulema, gli esperti di Islam. Ma quando si sono infine riuniti, a giugno, si sono limitati a dire che l'Afghanistan ha il diritto di vivere in modo afghano.
E domandarsi, e domandare, se i talebani siano diversi da vent'anni fa non ha molto senso: l'età media qui è 18,4 anni. "Ma c'è un risultato intanto che riconosciamo tutti: la sicurezza", dice Gholam Karimi, che vende frutta all'angolo del Pardees. "Per te non è molto, magari. Ma i bambini hanno visto Herat per la prima volta: vivevamo barricati in casa", dice. E in effetti, colpisce: molti girano con Google Maps.
E prima ancora che al castello, ora, o al bazar, o un altro dei 780 siti con cui Herat è diventata patrimonio UNESCO dell'umanità, si scattano un selfie davanti a un'anonima casa in cemento: la casa di Ismail Khan. Uno dei signori della guerra alleati degli americani. Herat era il suo feudo. I talebani l'hanno spedito all'estero.
Anche il teatro in cui si andava per Shakespeare è stato demolito. Ma cinque anni fa. "Perché la pressione qui è soprattutto sociale", mi dice uno degli attori, ora tassista. "Herat è sempre stata una città aperta. Ma ora tutto l'Afghanistan è più conservatore: e i talebani sono il suo specchio. Non hanno né introdotto né imposto il burqa. Fuori da Kabul, è la norma. E anzi: le donne non stanno in burqa, stanno in casa e basta", dice. La comunità internazionale ha molto contestato ai talebani l'obbligo di hijab. Gli afghani meno. "O meglio: è stato contestato, sì. Ma perché l'hijab non è un problema. Si occupassero piuttosto dell'economia. Tutte hanno l'hijab". Sospira. "Magari fosse solo questione di talebani".
Perché più che i talebani, o chiunque altro, contano i mashran. Gli anziani.
In realtà, l'hijab non è un obbligo, è una raccomandazione. "Ma è proprio questo. Non capisci mai cosa è consentito e cosa no. Senza regole precise, tutto sta alla discrezionalità di chi ti ferma. E quindi, finisci per autocensurarti", mi dicono due 26enni in nero fino alle caviglie e tacco dodici al Fifty-Fifty, il fast food che serve il migliore hamburger di Herat - dove un tempo si serviva il migliore Kabuli: riso e carne, il piatto tipico afghano. I ragazzi sono a sinistra, le ragazze a destra. Divisi da un muro. E così il parco vicino. Nelle Polaroid, sono tutti in calesse. Ora si entra non solo separati, ma a giorni alterni. "E tutto questo non è Islam", dicono. "Qui conosciamo tutti il Corano. Siamo tutti musulmani. Sono i talebani, forse, a non conoscerlo. A confondere i musulmani con i pashtun e i loro usi".
I talebani sono tutti pashtun. Mentre è pashtun solo il 42% degli afghani.
"E ora, di te, risponde tuo padre. Non tu. Per questo non stiamo tutte in piazza a protestare", dicono. "Non siamo più manco libere di essere arrestate".
Nessuno, comunque, ha nostalgia degli americani. Né degli italiani. Herat era sotto il nostro controllo. E tra progetti civili e militari, qui abbiamo speso 46 milioni di euro. "Ma guardati intorno", mi dice Zalmay Safa, il responsabile dei Beni Culturali. "Ma una città così, ha bisogno di ONG che scavino pozzi? E poi che importa cosa avete costruito? Parliamo prima di cosa avete distrutto", dice. Anche perché per un dollaro speso, dice, 9 sono stati rubati o sprecati. E legge la lista delle iniziative italiane che ho recuperato online. "La centrale delle ambulanze, sì, è attiva. Il 102. Ma il minareto, no. Non è mai stato restaurato. L'aeroporto non è mai stato ampliato. La ferrovia da qui all'Iran, no. Non c'è. La strada… Ma non è finita. Perché sta nella lista?", dice. "Non va da nessuna parte".
Per lo sviluppo dell'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno speso 143 miliardi di dollari. Più del Piano Marshall. Ma per cose come nove capre da cachemire per il rilancio del tessile. Costate 6 milioni di dollari.
E nessuno neppure sa dove siano.
Nell'officina Volkswagen in cui si veniva a riparare i furgoncini T1 oggi c'è il banco alimentare di Aseel. Una start-up che vende artigianato afghano in tutto il mondo. Ma ora, la comunità internazionale ha bloccato le riserve della Banca Centrale, e così, l'intero sistema bancario: e l'intera economia. "Sono ferme anche le Western Union: siamo come in trappola. Anche se nessuno ha votato per i talebani. Anzi. I talebani sono al potere per via degli accordi di Doha del 2020. Voluti dagli americani", dice Khaled Riaz, 21 anni, uno dei volontari. "E insistete a chiamarla crisi umanitaria", dice. "Questa crisi è tutta politica".
Cinquant'anni dopo, a Herat si viene ancora. Ma per comprarsi un rene. Fuori dal centro la città, via via, si sgretola. Letteralmente. Dalle case in marmo si passa alle case in pietra, e poi a quelle in cemento, e a quelle in mattoni, e a quelle di fango. E poi ai resti delle case di fango. Fino a Shenshayba. In cui più che in Afghanistan, ti senti in un documentario di storia. Un nugolo di bambini scalzi e stracciati ci si affolla intorno, sperando che siano arrivati i talebani: che sia arrivato il pane. Abitano 44 famiglie, qui. E in quaranta si sono già venduti un rene. Per 2.600 dollari. Al Loqman Hakmin, il centro trapianti di Farid Ahmad Ejaz, un medico che si è specializzato a Bari, e ancora vorrebbe che l'Europa gli finanziasse un centro oncologico a Kabul, mi chiede di chiedere donazioni ai lettori: è stato arrestato per traffico di organi, e rilasciato su cauzione. "Adesso ho dolori ovunque", mi dice Ali, 19 anni. Quello a cui è andata peggio. "Mi sono venduto la vita", dice. Non è mai stato più visitato. Per pagarsi le cure, ora, mendica per strada.
Di noi stranieri dice solo: "Non volevate che i nostri reni".
© Il Venerdì di Repubblica 12.8.2022

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