Greggio e zero tasse: le regioni curde sono un paradiso per gli imprenditori. Ma la democrazia resta una chimera

«Lo vedi quel complesso?». Halo, imprenditore francese di origini curde, indica un blocco di cemento sulla strada tra Erbil e Sulaymaniyah: «È una prigione cogestita dal governo del Kurdistan e dagli americani, ci tengono la maggior parte dei terroristi mediorientali. E da lì stai certo che non scappano». La “fortezza Kurdistan” ha ben poco in comune con l’instabilità del resto dell’Iraq, a partire dalla bandiera, che troneggia su ogni edificio. È quella con il sole dorato, che rappresenta il sogno nazionalista dei Curdi: una grande unica patria che si estenda tra Siria, Iraq, Iran e Turchia. I giovani, nel Nord di quello che fu l’Iraq, parlano solo curdo. L’arabo è legato solo alle funzioni religiose: l’era del panarabismo di Saddam Hussein è lontana anni luce.

La storia recente dell’Iraq, quella dell’occupazione statunitense, è completamente stravolta in Kurdistan. In questa regione la popolazione segue le regole del governo locale, ormai in gran parte autonomo da Baghdad. E qui l’intervento Usa non viene ricordato come invasione, ma come «liberazione» (tahrir). Gli statunitensi sono amici venuti ad aiutare, persone da cui imparare. A Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, una coppia di americani gestisce un fast food tappezzato di bandiere a stelle e strisce, dove l’insegna pubblicizza hamburger preparati nel pieno rispetto della “tradizione culinaria” Usa. Anche la classe dirigente ha fiducia in Washington. «Il sogno di un unico grande Kurdistan può diventare realtà grazie al supporto internazionale e al piano americano per un “Nuovo grande Medio Oriente”», azzarda a mezza voce Adbul-Wahhab Ali, portavoce del Pdk, il partito del presidente Mas’ud Barzani. Secondo il progetto nazionalista, circa trenta milioni di curdi potrebbero unirsi in uno degli Stati più ricchi di risorse naturali al mondo, grazie agli enormi giacimenti di petrolio e gas. «I ventun’anni (1991-2012) di autonomia del Kurdistan iracheno hanno aperto l’acceso ad aziende occidentali e russe. Questo percorso porterà a uno Stato, anche se non sappiamo ancora quando», prosegue fiducioso Ali. 

Per l’imprenditore curdo-francese Halo la regione federalista non è tanto il coronamento delle lotte nazionaliste curde, quanto un solido connubio di affari e sicurezza. «Qui pago molte meno tasse che in Francia. Un cittadino curdo non versa più di cento dollari all’anno in contributi e i servizi sono quasi tutti a carico dello Stato». Un paradiso dei business, ben dipinto da Khorshid Delli, analista politico di Al-Jazeera: «Le compagnie petrolifere occidentali preferiscono Erbil a Baghdad perché cedono una percentuale di gran lunga minore dei loro profitti alle autorità locali».

L’emblema del boom economico è la capitale Erbil, cresciuta rapidamente da torrido villaggio ad agglomerato di centri commerciali e hotel di lusso. In una regione ricca di risorse e con un benessere diffuso, il rischio è quello di diventare troppo simili al modello delle monarchie del Golfo: un’economia che si basa sulla rendita, dove i regimi autoritari restano al potere in virtù della minima pressione fiscale e della distribuzione di servizi a costo zero. Gli stretti rapporti politico-economici tra Kurdistan e Usa rendono ancora più calzante il paragone con le monarchie dei petroldollari, dove le violazioni dei diritti umani sono raramente oggetto delle critiche americane. Un esempio è la legge sul Consiglio nazionale di sicurezza, che secondo l’opposizione ha spartito i vertici delle forze dell’ordine tra i due partiti al governo. «È restrittiva della libertà, ma non ha ricevuto nessuna critica dal consolato americano», protesta il direttore del Centro Metro per la difesa dei giornalisti, Rahman Gharib. «L’Occidente sta progettando di trasformarci in un mercato petrolifero sicuro, privo di diritti, proprio come i Paesi del Golfo».

In Kurdistan la sfera pubblica è rimasta dominata per oltre vent’anni da due famiglie, quella del leader dell’Unione patriottica del Kurdistan (Upk) Jalal Talabani e quella del presidente e guida del Pdk Mas’ud Barzani. Agli occhi dell’opposizione, le classi dirigenti curde non sono poi così differenti da quelle arabe. «L’unica differenza tra noi e loro è che loro sono governati da una famiglia, noi da due», ironizza Ahmad Khaled, membro dell’ufficio stampa del partito d’opposizione Gorran. «Il modello della società è tribale: Gheddafi e Barzani sono della stessa pasta, lasciano il potere ai figli», sostiene con rabbia Hogr Shikha, avvocato e veterano della difesa dei diritti umani. Si riferisce a Nechirvan Barzani, nipote del presidente Mas’ud, attuale primo ministro del Kurdistan.

Neanche ai giornalisti è permesso criticare le due potenti famiglie. «Nell’ultimo anno abbiamo ricevuto oltre 300 denunce di violazioni dei diritti dei reporter», riferisce Gharib. Nel 2010, ad esempio, il giornalista Sardasht Osman è stato ucciso proprio dopo aver scritto un articolo sulla famiglia Barzani. «Osman non aveva criticato Kak Mas’ud (“fratello Mas’ud”, soprannome con cui è noto Barzani tra i suoi sostenitori), aveva parlato di sua moglie e della figlia, del suo onore e della sua dignità», obietta con stizza il portavoce del Pdk Abdul-Wahhab Ali. Secondo Ali e i giudici del Kurdistan, Osman non sarebbe però stato ucciso per aver “mancato di rispetto” alla famiglia Barzani, ma perché coinvolto nella nebulosa organizzazione di un attentato di matrice islamica. «È un’assurdità. Osman era di orientamento laico, non avrebbe mai frequentato dei jihadisti», ribatte Biradost Azizi, giornalista curdo siriano che lavora a Sulaymaniyah dal 2004.

Azizi è arrivato in Kurdistan dopo essere stato espulso dall’università di Damasco a causa delle sue attività politiche. Anche a Sulaymaniyah, però, si è trovato a essere accusato di danneggiare la causa nazionalista in nome della libertà d’espressione. «Cinque mesi – racconta Azizi – fa ho ricevuto l’invito a presentarmi in tribunale con l’accusa di aver “diffamato” il Pkk», il partito indipendentista del Kurdistan turco. «Ho obiettato di non poter essere processato per le mie idee politiche, ma il giudice mi ha risposto che il Pkk non si tocca perché ha combattuto per i territori curdi». Azizi racconta di essere stato minacciato dagli esponenti del Pkk e da quelli del suo alleato siriano, il Pyd. Non ha paura di parlarne o forse non ha tempo di pensarci: la vita è frenetica per un siriano in Kurdistan, 500 dollari al mese per lavorare in radio, poche ore di sonno, un corpo smagrito dal lavoro e dalla militanza politica.

«Le autorità del Kurdistan sostengono che le manifestazioni in difesa dei diritti umani ostacolino il percorso verso uno Stato curdo indipendente», spiega Khaled, del partito d’opposizione Gorran. «Militarizzano la società al fine di reprimere le rivendicazioni popolari», aggiunge il portavoce. Le mobilitazioni di cui parla Khaled sono esplose in piazza nel febbraio del 2011 e culminate in un sit in lungo 62 giorni a Sulaymaniyah. Migliaia di manifestanti scesi in strada per chiedere una maggiore trasparenza finanziaria, il ricambio della classe dirigente, l’indipendenza delle istituzioni e la libertà d’espressione. Nel silenzio dei media occidentali, tutto si era concluso in una campagna di arresti a tappeto e nell’uccisione di dieci dimostranti. A un anno e mezzo da quegli eventi, il fallimento della “Primavera curda” fa ancora meno notizia, sepolta dagli interessi imprenditoriali dei cacciatori di petrolio.