Il crocifisso e la logica di guerra
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- Date: Tue, 17 Nov 2009 10:20:43 +0100
| Il 
crocifisso e la logica di guerra   La questione 
del crocifisso ha anche questo profilo: se la croce, strumento di supplizio 
(come potrebbe essere la forca, o il muro dei fucilati), è emblema dei seguaci 
di Cristo, allora la vita di questi appare come il culto del sacrificio, la 
religione che vuole ed esalta il dolore. Questa, infatti, è l’idea di molti, ed 
è buon motivo per rifiutare il cristianesimo, come religione dei vili e dei 
necrofili.  Il concetto 
di sacrificio è totalmente ambiguo: l’offerta di animali, o persino di esseri 
umani, nell’illusione di ottenere la benevolenza divina; l’offerta di sé, con 
amore coraggioso, per salvare altri. Il primo è far morire altri per salvare me 
(Abramo era disposto a farlo, se Dio non lo correggeva). Il secondo è dispormi 
anche a morire per salvare altri (come quello che annega salvando un bambino 
dall’annegare).  Solo nel 
secondo senso, ma a rischio di grave equivoco terminologico, si può parlare di 
sacrificio di Gesù. Infatti, Gesù è finito in croce perché, con amore 
coraggioso, si è offerto fino in fondo alla sua missione di annunciare la nuova 
alleanza di Dio, che «vuole misericordia e non sacrifici». Ha affrontato i 
poteri religioso e politico, tra loro complici, che volevano impedire quel 
messaggio di fede e libertà. La sua croce ricorda, a chi lo accoglie con 
fiducia, la forza di amore, di verità e di coraggio – il satyagraha 
gandhiano - con cui Gesù è vissuto, ha insegnato e beneficato, ed è morto 
ammazzato.  La sua croce 
condanna per sempre tutte le torture e le violenze dei potenti inflitte, usando 
il nome di Dio, a chi gli fa resistenza e li smaschera. La croce di Cristo è 
eversione, non rassegnazione. Impugnata dai potenti sulle bandiere e negli 
stemmi statali, dagli stendardi di Costantino e dei crociati, fino alle “guerre 
umanitarie” di oggi, e all’esibizione ecclesiastica, è un furto ipocrita, è 
bestemmia assurda e ridicola. Essi inchiodano sulla croce liberatori e 
innovatori, o semplici resistenti e “insorgenti”, come hanno fatto a Cristo. 
 La guerra, la 
fame, il dominio ideologico, sono la croce con la quale, nella logica di Caifa 
(«che uno muoia per tutti»), si fanno vittime per salvare gli assetti 
dell’ingiustizia, i poteri di fatto, il disordine costituito. La logica di 
guerra è usare il male per togliere un male (cioè quello che non piace a chi ha 
il coltello per il manico). In questa logica, il crocifisso è addirittura la 
minaccia del supplizio. Oh, se armi e condanne eliminassero i malvagi dal mondo! 
Ma, come avverte il saggio Kant, «la guerra è un male perché fa più malvagi di 
quanti ne toglie di mezzo».  La guerra è 
questa criminale stoltezza, eppure celebrata come eroica e giustiziera. La 
croce, nell’animo con cui Cristo la affrontò e la accettò, è la sapienza suprema 
del vincere il male col farsene carico e con l’affondarlo in un supremo 
abbraccio di vita. Un così forte amore e coraggio – è questa la fede dei 
cristiani (può essere anche una osservazione di fatto?) – ricolma l’abisso di 
male su cui pencola la storia, a rischio di distruzione totale (rischio 
descritto con estreme immagini poetiche nei testi apocalittici), e permette a 
noi di impegnarci analogamente, con umiltà e speranza.  Il simbolo di 
ciò, l’immagine di Cristo in croce, vale e ha senso solamente in questa visione. 
Usato da stati e chiese come palo di confine e di sovranità, prima offende 
Cristo e i cristiani, poi disturba chi vi vede soltanto una scena 
impressionante. Tocca alle chiese, se hanno fede, ritirare i crocifissi dagli 
ambienti di vita comune, salva la libertà di chi ci vive. Tocca a tutti 
conservarli quando sono immagini d’arte o oggetti di valore storico, come i 
templi pagani.   
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