Il 
  crocifisso e la logica di guerra
   
  La 
  questione del crocifisso ha anche questo profilo: se la croce, strumento di 
  supplizio (come potrebbe essere la forca, o il muro dei fucilati), è emblema 
  dei seguaci di Cristo, allora la vita di questi appare come il culto del 
  sacrificio, la religione che vuole ed esalta il dolore. Questa, infatti, è 
  l’idea di molti, ed è buon motivo per rifiutare il cristianesimo, come 
  religione dei vili e dei necrofili. 
  Il concetto 
  di sacrificio è totalmente ambiguo: l’offerta di animali, o persino di esseri 
  umani, nell’illusione di ottenere la benevolenza divina; l’offerta di sé, con 
  amore coraggioso, per salvare altri. Il primo è far morire altri per salvare 
  me (Abramo era disposto a farlo, se Dio non lo correggeva). Il secondo è 
  dispormi anche a morire per salvare altri (come quello che annega salvando un 
  bambino dall’annegare). 
  Solo nel 
  secondo senso, ma a rischio di grave equivoco terminologico, si può parlare di 
  sacrificio di Gesù. Infatti, Gesù è finito in croce perché, con amore 
  coraggioso, si è offerto fino in fondo alla sua missione di annunciare la 
  nuova alleanza di Dio, che «vuole misericordia e non sacrifici». Ha affrontato 
  i poteri religioso e politico, tra loro complici, che volevano impedire quel 
  messaggio di fede e libertà. La sua croce ricorda, a chi lo accoglie con 
  fiducia, la forza di amore, di verità e di coraggio – il satyagraha 
  gandhiano - con cui Gesù è vissuto, ha insegnato e beneficato, ed è morto 
  ammazzato. 
  La sua 
  croce condanna per sempre tutte le torture e le violenze dei potenti inflitte, 
  usando il nome di Dio, a chi gli fa resistenza e li smaschera. La croce di 
  Cristo è eversione, non rassegnazione. Impugnata dai potenti sulle bandiere e 
  negli stemmi statali, dagli stendardi di Costantino e dei crociati, fino alle 
  “guerre umanitarie” di oggi, e all’esibizione ecclesiastica, è un furto 
  ipocrita, è bestemmia assurda e ridicola. Essi inchiodano sulla croce 
  liberatori e innovatori, o semplici resistenti e “insorgenti”, come hanno 
  fatto a Cristo. 
  La guerra, 
  la fame, il dominio ideologico, sono la croce con la quale, nella logica di 
  Caifa («che uno muoia per tutti»), si fanno vittime per salvare gli assetti 
  dell’ingiustizia, i poteri di fatto, il disordine costituito. La logica di 
  guerra è usare il male per togliere un male (cioè quello che non piace a chi 
  ha il coltello per il manico). In questa logica, il crocifisso è addirittura 
  la minaccia del supplizio. Oh, se armi e condanne eliminassero i malvagi dal 
  mondo! Ma, come avverte il saggio Kant, «la guerra è un male perché fa più 
  malvagi di quanti ne toglie di mezzo». 
  La guerra è 
  questa criminale stoltezza, eppure celebrata come eroica e giustiziera. La 
  croce, nell’animo con cui Cristo la affrontò e la accettò, è la sapienza 
  suprema del vincere il male col farsene carico e con l’affondarlo in un 
  supremo abbraccio di vita. Un così forte amore e coraggio – è questa la fede 
  dei cristiani (può essere anche una osservazione di fatto?) – ricolma l’abisso 
  di male su cui pencola la storia, a rischio di distruzione totale (rischio 
  descritto con estreme immagini poetiche nei testi apocalittici), e permette a 
  noi di impegnarci analogamente, con umiltà e speranza. 
  Il simbolo 
  di ciò, l’immagine di Cristo in croce, vale e ha senso solamente in questa 
  visione. Usato da stati e chiese come palo di confine e di sovranità, prima 
  offende Cristo e i cristiani, poi disturba chi vi vede soltanto una scena 
  impressionante. Tocca alle chiese, se hanno fede, ritirare i crocifissi dagli 
  ambienti di vita comune, salva la libertà di chi ci vive. Tocca a tutti 
  conservarli quando sono immagini d’arte o oggetti di valore storico, come i 
  templi pagani.