Enrico, di solito non mi piacciono i politici che
si definiscono realisti, o quelli che considerano realistico attuare solo ciò
che c'è o che c'è stato. Penso sia realismo anche il perseguire ciò che è
umanamente possibile, anche se lontano dalla realtà presente. E credo questa sia
una speranza.
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Sent: Friday, October 23, 2009 10:58
PM
Subject: Re: [pace] Fw: Il Nobel ad
Obama
A parte Obama e Nobel, quello che dice Lorenzo su realtà e
speranza è paralizzante. Se la speranza deve stare dietro la realtà, avremo
una realtà mortalmente statica. E' la speranza che muove la realtà. Io credo -
e spero - che Lorenzo voglia dire: utopia sì, utopismo no, nel significato
insegnato da Ernst Bloch. Cioè, non fuga nel sogno, ma promozione di ciò che è
"inedito" e potenziale nella realtà, davanti alla realtà. Spero.
Ciao, Enrico
----- Original Message -----
Sent: Friday, October 23, 2009 8:33
PM
Subject: Re: [pace] Fw: Il Nobel ad
Obama
Credo che la speranza sia una virtù da
coltivare sempre e anche che si possano difendere i Nobel dati per quel che
si proclama voler fare anzichè per quel che si è fatto.
Ma la mia posizione è diversa: la realtà
dovrebbe venire prima di ogni speranza ed essere la base dell'assegnazione
dei meriti - dei premi.
Quando non si pone al centro la realtà, si
assiste a dei fenomeni particolari, almeno per quel che vedo io. Ne metto in
evidenzia due:
-Mi sembra incredibile l'inversione logica
attuata da Raniero La Valle per difendere il Nobel a Obama.
La Valle scrive:
È la prima volta, che io sappia, che si critica il Nobel non per quello
che il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe fare ma ancora non ha
fatto; e si critica non perché il premio non se lo meriti, ma perché non gli
serve;
Quando secondo me si dovrebbe pacificamente
scrivere:
E' la prima volta, che io sappia, che si DA' un
Nobel non per quello che il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe
fare e ancora non ha fatto, non perchè se lo meriti, ma perchè il Nobel
potrebbe servirgli (condizionarlo) nel fare la politica che
vorrebbe.
Veramente incredibile questo abbaglio logico
(peraltro: io non le ho ancora sentite le
critiche all'assegnazione del Nobel in quanto INUTILE).
-Mi sembra anche interessante il fenomeno, che
si vede in molti interventi di politici o amanti della pace, secondo cui
Obama vorrebbe la pace, un paese e un mondo pacifici e giusti, ma non può
riuscire ad ottenere ciò cui aspira per l'opposizione di altri.
Come a dire: Obama è il bene, l'ideale perfetto
che si deve piegare al male, ai suoi oppositori.
Questo a me sembra né più nè meno che un
pre-giudizio senza basi nella realtà. Perchè, se è vero che ci sono molti
oppositori a Obama, è altrettanto vero che nessuno obbliga Obama a prendere
certe posizioni e a compiere certi atti, che di certo non vanno nella
direzione della pace che ci illudiamo di perseguire seppure senza
raggiungerla.
Faccio solo due esempi: a proclamare una
Gerusalemme ebraica, legittimando così la pulizia etnica che si sta
svolgendo a Gerusalemme est è stato Obama, e credo lui solo, ancor prima di
diventare Presidente: e senza una Gerusalemme est palestinese non ci
potrà essere nessuna pace giusta in Palestina. Questa è farina del sacco di
Obama, non una concessione indispensabile ai suoi
oppositori.
A voler rinfocolare la guerra in Afghanistan è
solo la politica di Obama, voluta da lui, non è un compromesso con i suoi
oppositori.
Insomma, a me sembra più responsabile
attribuire a Obama tutto quel che fa, non solo il "bene" o il tentativo di
farlo: il "male" non è una esclusiva dei suoi oppositori.
Lorenzo
----- Original Message -----
Sent: Friday, October 23, 2009 3:56
PM
Subject: Fw: [pace] Fw: Il Nobel ad
Obama
Il premio a una
politica
[ articolo per
il n. 21 di Rocca (rocca@cittadella.org) ]
Il premio Nobel per la pace non è
infallibile. Anzi molte volte ha preso delle autentiche cantonate (come la
scelta di Kissinger, di Begin…) ma questa volta, finendo inopinatamente
nella casa bianca di Obama, non ha sbagliato. E invece è nato un
putiferio: perché proprio Obama, che finora ha fatto solo grandi discorsi
senza realizzare niente? Perché Obama, che non si è ancora ritirato
dall’Iraq, che non ha persuaso Israele, non ha messo a posto l’Iran, non
sa che pesci pigliare in Afghanistan? Perché Obama, che ancora non è
riuscito a chiudere Guantanamo? Perché Obama che ha spaventato le
assicurazioni senza ancora riuscire a dare l’assistenza medica agli
americani poveri? Perché Obama, che del premio non ha alcun bisogno,
mentre molto ne avrebbero bisogno un dissidente cinese in lotta per la
democrazia, o un militante per i diritti umani braccato dal
potere?
È la prima volta, che io sappia, che si
critica il Nobel non per quello che il premiato ha fatto, ma per quello
che vorrebbe fare ma ancora non ha fatto; e si critica non perché il
premio non se lo meriti, ma perché non gli serve; e perché il premiato non
sta all’opposizione, ma sta al potere.
In realtà le critiche al Nobel per Obama sembrano
ancora in cerca di motivazioni, ma una cosa la dicono chiaramente già
subito: che dopo il coro di osanna al “primo presidente nero degli Stati
Uniti” (sventolato come prova che essi sono una vera democrazia, che sono
un modello di convivenza razziale, che sono un faro per tutti i popoli e
che “non possiamo non dirci americani”), a molti Obama è caduto dal cuore,
e proprio perché questi ammiratori delusi sono attaccati agli Stati Uniti
di ieri, così muscolosi e “identitari” in nome di tutto l’Occidente, e
temono gli Stati Uniti che vorrebbe fare Obama oggi: pacifici,
internazionalisti e interreligiosi.
Intanto molte critiche sono infondate.
Riguardo all’Iraq quello che conta non è l’immediatezza del ritiro delle
truppe d’invasione, ma il fatto che gli Stati Uniti rinuncino, come ha
annunciato Obama, a mantenervi basi militari permanenti. E ben si sa che
col pretesto di Saddam Hussein, l’avanzamento dell’insediamento militare
americano nel mondo arabo e verso l’Estremo Oriente, è stata la vera
ragione (più che il petrolio) della seconda guerra contro l’Iraq. Per
Guantanamo il Senato americano ha approvato in questi giorni una legge che
stabilendo di giudicare negli Stati Uniti i prigionieri che non possono
essere rilasciati, permetterà la chiusura di quel lager. Quanto alla lotta
per il servizio sanitario nazionale, essa procede lentamente affrontando
l’offensiva ideologica scatenata contro il presidente, accusato di essere
“socialista”, ma non si è fermata. Con Israele effettivamente va male: ma
lì sappiamo che c’è ben poco da fare senza un mutamento profondo di quello
Stato, che gode di un grande potere sull’America, e davvero ha in mano il
destino di Obama.
Ora è proprio perché il presidente americano
vuol rendere pacifica, internazionalista e interreligiosa non una piccola
ONLUS, ma la maggiore potenza militare ed economica del mondo, che merita
il Nobel. Può darsi che non ci riuscirà, perché moltissimi nemici ed
alleati si metteranno di traverso (altrimenti non sarebbero stati così
corrivi e funzionali all’America di Bush); ma l’averlo deciso, aver vinto
su questa linea una campagna elettorale, averlo proclamato nei punti
topici del mondo, dal Cairo ad Accra all’Europa all’ONU, e aver avviato
delle politiche che tendono a realizzare l’obiettivo di un mondo unito,
pluralistico, senza armi nucleari e non violento, è il più alto servizio
che si potesse fare alla pace; e meno male che quelli del Nobel se ne sono
accorti e hanno voluto premiare non un uomo ma una politica, la cui
finalità è tutta nel futuro, per attuare la quale ci vorrà più di una
generazione e che perciò ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, ivi
compreso il Nobel per la pace.
Quando Giovanni XXIII, un mese prima di
morire, ricevette il premio Balzan per la pace, aveva appena finito di
scrivere l’enciclica “Pacem in terris” e aveva aperto il Concilio; la
“Pacem in terris” era il manifesto di un mondo nuovo, e il Concilio era
l’anticipazione di un’umanità ricomposta in unità, riconciliata con se
stessa e con Dio. Ancora oggi quel programma giovanneo è ben lungi
dall’essere attuato, anzi si è andati perfino indietro rispetto a quel
mondo, a quell’umanità e a quella Chiesa che i segni dei tempi di allora
facevano intravedere come possibili: ma nessuno potrebbe dire per questo
che quel premio per la pace fosse sbagliato o che papa Giovanni non se lo
fosse meritato.
Raniero La Valle
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