A parte Obama e Nobel, quello che dice Lorenzo su realtà e
speranza è paralizzante. Se la speranza deve stare dietro la realtà, avremo una
realtà mortalmente statica. E' la speranza che muove la realtà. Io credo - e
spero - che Lorenzo voglia dire: utopia sì, utopismo no, nel significato
insegnato da Ernst Bloch. Cioè, non fuga nel sogno, ma promozione di ciò che è
"inedito" e potenziale nella realtà, davanti alla realtà. Spero.
Ciao, Enrico
----- Original Message -----
Sent: Friday, October 23, 2009 8:33
PM
Subject: Re: [pace] Fw: Il Nobel ad
Obama
Credo che la speranza sia una virtù da coltivare
sempre e anche che si possano difendere i Nobel dati per quel che si proclama
voler fare anzichè per quel che si è fatto.
Ma la mia posizione è diversa: la realtà dovrebbe
venire prima di ogni speranza ed essere la base dell'assegnazione dei meriti -
dei premi.
Quando non si pone al centro la realtà, si
assiste a dei fenomeni particolari, almeno per quel che vedo io. Ne metto in
evidenzia due:
-Mi sembra incredibile l'inversione logica
attuata da Raniero La Valle per difendere il Nobel a Obama.
La Valle scrive:
È la prima volta, che io sappia, che si critica il Nobel non per quello
che il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe fare ma ancora non ha
fatto; e si critica non perché il premio non se lo meriti, ma perché non gli
serve;
Quando secondo me si dovrebbe pacificamente
scrivere:
E' la prima volta, che io sappia, che si DA' un
Nobel non per quello che il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe fare
e ancora non ha fatto, non perchè se lo meriti, ma perchè il Nobel potrebbe
servirgli (condizionarlo) nel fare la politica che vorrebbe.
Veramente incredibile questo abbaglio logico
(peraltro: io non le ho ancora sentite le
critiche all'assegnazione del Nobel in quanto INUTILE).
-Mi sembra anche interessante il fenomeno, che si
vede in molti interventi di politici o amanti della pace, secondo cui Obama
vorrebbe la pace, un paese e un mondo pacifici e giusti, ma non può riuscire
ad ottenere ciò cui aspira per l'opposizione di altri.
Come a dire: Obama è il bene, l'ideale perfetto
che si deve piegare al male, ai suoi oppositori.
Questo a me sembra né più nè meno che un
pre-giudizio senza basi nella realtà. Perchè, se è vero che ci sono molti
oppositori a Obama, è altrettanto vero che nessuno obbliga Obama a prendere
certe posizioni e a compiere certi atti, che di certo non vanno nella
direzione della pace che ci illudiamo di perseguire seppure senza
raggiungerla.
Faccio solo due esempi: a proclamare una
Gerusalemme ebraica, legittimando così la pulizia etnica che si sta
svolgendo a Gerusalemme est è stato Obama, e credo lui solo, ancor prima di
diventare Presidente: e senza una Gerusalemme est palestinese non ci
potrà essere nessuna pace giusta in Palestina. Questa è farina del sacco di
Obama, non una concessione indispensabile ai suoi
oppositori.
A voler rinfocolare la guerra in Afghanistan è
solo la politica di Obama, voluta da lui, non è un compromesso con i suoi
oppositori.
Insomma, a me sembra più responsabile attribuire
a Obama tutto quel che fa, non solo il "bene" o il tentativo di farlo: il
"male" non è una esclusiva dei suoi oppositori.
Lorenzo
----- Original Message -----
Sent: Friday, October 23, 2009 3:56
PM
Subject: Fw: [pace] Fw: Il Nobel ad
Obama
Il premio a una
politica
[ articolo per
il n. 21 di Rocca (rocca@cittadella.org) ]
Il premio Nobel per la pace non è infallibile.
Anzi molte volte ha preso delle autentiche cantonate (come la scelta di
Kissinger, di Begin…) ma questa volta, finendo inopinatamente nella casa
bianca di Obama, non ha sbagliato. E invece è nato un putiferio: perché
proprio Obama, che finora ha fatto solo grandi discorsi senza realizzare
niente? Perché Obama, che non si è ancora ritirato dall’Iraq, che non ha
persuaso Israele, non ha messo a posto l’Iran, non sa che pesci pigliare in
Afghanistan? Perché Obama, che ancora non è riuscito a chiudere Guantanamo?
Perché Obama che ha spaventato le assicurazioni senza ancora riuscire a dare
l’assistenza medica agli americani poveri? Perché Obama, che del premio non
ha alcun bisogno, mentre molto ne avrebbero bisogno un dissidente cinese in
lotta per la democrazia, o un militante per i diritti umani braccato dal
potere?
È la prima volta, che io sappia, che si
critica il Nobel non per quello che il premiato ha fatto, ma per quello che
vorrebbe fare ma ancora non ha fatto; e si critica non perché il premio non
se lo meriti, ma perché non gli serve; e perché il premiato non sta
all’opposizione, ma sta al potere.
In realtà le critiche al Nobel per Obama
sembrano ancora in cerca di motivazioni, ma una cosa la dicono chiaramente
già subito: che dopo il coro di osanna al “primo presidente nero degli Stati
Uniti” (sventolato come prova che essi sono una vera democrazia, che sono un
modello di convivenza razziale, che sono un faro per tutti i popoli e che
“non possiamo non dirci americani”), a molti Obama è caduto dal cuore, e
proprio perché questi ammiratori delusi sono attaccati agli Stati Uniti di
ieri, così muscolosi e “identitari” in nome di tutto l’Occidente, e temono
gli Stati Uniti che vorrebbe fare Obama oggi: pacifici, internazionalisti e
interreligiosi.
Intanto molte critiche sono infondate.
Riguardo all’Iraq quello che conta non è l’immediatezza del ritiro delle
truppe d’invasione, ma il fatto che gli Stati Uniti rinuncino, come ha
annunciato Obama, a mantenervi basi militari permanenti. E ben si sa che col
pretesto di Saddam Hussein, l’avanzamento dell’insediamento militare
americano nel mondo arabo e verso l’Estremo Oriente, è stata la vera ragione
(più che il petrolio) della seconda guerra contro l’Iraq. Per Guantanamo il
Senato americano ha approvato in questi giorni una legge che stabilendo di
giudicare negli Stati Uniti i prigionieri che non possono essere rilasciati,
permetterà la chiusura di quel lager. Quanto alla lotta per il servizio
sanitario nazionale, essa procede lentamente affrontando l’offensiva
ideologica scatenata contro il presidente, accusato di essere “socialista”,
ma non si è fermata. Con Israele effettivamente va male: ma lì sappiamo che
c’è ben poco da fare senza un mutamento profondo di quello Stato, che gode
di un grande potere sull’America, e davvero ha in mano il destino di
Obama.
Ora è proprio perché il presidente americano
vuol rendere pacifica, internazionalista e interreligiosa non una piccola
ONLUS, ma la maggiore potenza militare ed economica del mondo, che merita il
Nobel. Può darsi che non ci riuscirà, perché moltissimi nemici ed alleati si
metteranno di traverso (altrimenti non sarebbero stati così corrivi e
funzionali all’America di Bush); ma l’averlo deciso, aver vinto su questa
linea una campagna elettorale, averlo proclamato nei punti topici del mondo,
dal Cairo ad Accra all’Europa all’ONU, e aver avviato delle politiche che
tendono a realizzare l’obiettivo di un mondo unito, pluralistico, senza armi
nucleari e non violento, è il più alto servizio che si potesse fare alla
pace; e meno male che quelli del Nobel se ne sono accorti e hanno voluto
premiare non un uomo ma una politica, la cui finalità è tutta nel futuro,
per attuare la quale ci vorrà più di una generazione e che perciò ha bisogno
di tutto l’appoggio possibile, ivi compreso il Nobel per la pace.
Quando Giovanni XXIII, un mese prima di
morire, ricevette il premio Balzan per la pace, aveva appena finito di
scrivere l’enciclica “Pacem in terris” e aveva aperto il Concilio; la “Pacem
in terris” era il manifesto di un mondo nuovo, e il Concilio era
l’anticipazione di un’umanità ricomposta in unità, riconciliata con se
stessa e con Dio. Ancora oggi quel programma giovanneo è ben lungi
dall’essere attuato, anzi si è andati perfino indietro rispetto a quel
mondo, a quell’umanità e a quella Chiesa che i segni dei tempi di allora
facevano intravedere come possibili: ma nessuno potrebbe dire per questo che
quel premio per la pace fosse sbagliato o che papa Giovanni non se lo fosse
meritato.
Raniero La Valle
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