Credo che la speranza sia una virtù da coltivare
sempre e anche che si possano difendere i Nobel dati per quel che si proclama
voler fare anzichè per quel che si è fatto.
Ma la mia posizione è diversa: la realtà dovrebbe
venire prima di ogni speranza ed essere la base dell'assegnazione dei meriti -
dei premi.
Quando non si pone al centro la realtà, si assiste
a dei fenomeni particolari, almeno per quel che vedo io. Ne metto in evidenzia
due:
-Mi sembra incredibile l'inversione logica attuata
da Raniero La Valle per difendere il Nobel a Obama.
La Valle scrive:
È la prima volta, che io sappia, che si critica il Nobel non per quello che
il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe fare ma ancora non ha fatto; e
si critica non perché il premio non se lo meriti, ma perché non gli serve;
Quando secondo me si dovrebbe pacificamente
scrivere:
E' la prima volta, che io sappia, che si DA' un
Nobel non per quello che il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe fare e
ancora non ha fatto, non perchè se lo meriti, ma perchè il Nobel potrebbe
servirgli (condizionarlo) nel fare la politica che vorrebbe.
Veramente incredibile questo abbaglio logico
(peraltro: io non le ho ancora sentite le critiche
all'assegnazione del Nobel in quanto INUTILE).
-Mi sembra anche interessante il fenomeno, che si
vede in molti interventi di politici o amanti della pace, secondo cui Obama
vorrebbe la pace, un paese e un mondo pacifici e giusti, ma non può riuscire ad
ottenere ciò cui aspira per l'opposizione di altri.
Come a dire: Obama è il bene, l'ideale perfetto che
si deve piegare al male, ai suoi oppositori.
Questo a me sembra né più nè meno che un
pre-giudizio senza basi nella realtà. Perchè, se è vero che ci sono molti
oppositori a Obama, è altrettanto vero che nessuno obbliga Obama a prendere
certe posizioni e a compiere certi atti, che di certo non vanno nella direzione
della pace che ci illudiamo di perseguire seppure senza
raggiungerla.
Faccio solo due esempi: a proclamare una
Gerusalemme ebraica, legittimando così la pulizia etnica che si sta
svolgendo a Gerusalemme est è stato Obama, e credo lui solo, ancor prima di
diventare Presidente: e senza una Gerusalemme est palestinese non ci potrà
essere nessuna pace giusta in Palestina. Questa è farina del sacco di Obama, non
una concessione indispensabile ai suoi oppositori.
A voler rinfocolare la guerra in Afghanistan è solo
la politica di Obama, voluta da lui, non è un compromesso con i suoi oppositori.
Insomma, a me sembra più responsabile attribuire a
Obama tutto quel che fa, non solo il "bene" o il tentativo di farlo: il "male"
non è una esclusiva dei suoi oppositori.
Lorenzo
----- Original Message -----
Sent: Friday, October 23, 2009 3:56
PM
Subject: Fw: [pace] Fw: Il Nobel ad
Obama
Il premio a una
politica
[ articolo per il
n. 21 di Rocca (rocca@cittadella.org) ]
Il premio Nobel per la pace non è infallibile.
Anzi molte volte ha preso delle autentiche cantonate (come la scelta di
Kissinger, di Begin…) ma questa volta, finendo inopinatamente nella casa
bianca di Obama, non ha sbagliato. E invece è nato un putiferio: perché
proprio Obama, che finora ha fatto solo grandi discorsi senza realizzare
niente? Perché Obama, che non si è ancora ritirato dall’Iraq, che non ha
persuaso Israele, non ha messo a posto l’Iran, non sa che pesci pigliare in
Afghanistan? Perché Obama, che ancora non è riuscito a chiudere Guantanamo?
Perché Obama che ha spaventato le assicurazioni senza ancora riuscire a dare
l’assistenza medica agli americani poveri? Perché Obama, che del premio non ha
alcun bisogno, mentre molto ne avrebbero bisogno un dissidente cinese in lotta
per la democrazia, o un militante per i diritti umani braccato dal
potere?
È la prima volta, che io sappia, che si critica
il Nobel non per quello che il premiato ha fatto, ma per quello che vorrebbe
fare ma ancora non ha fatto; e si critica non perché il premio non se lo
meriti, ma perché non gli serve; e perché il premiato non sta all’opposizione,
ma sta al potere.
In realtà le critiche al Nobel per Obama sembrano
ancora in cerca di motivazioni, ma una cosa la dicono chiaramente già subito:
che dopo il coro di osanna al “primo presidente nero degli Stati Uniti”
(sventolato come prova che essi sono una vera democrazia, che sono un modello
di convivenza razziale, che sono un faro per tutti i popoli e che “non
possiamo non dirci americani”), a molti Obama è caduto dal cuore, e proprio
perché questi ammiratori delusi sono attaccati agli Stati Uniti di ieri, così
muscolosi e “identitari” in nome di tutto l’Occidente, e temono gli Stati
Uniti che vorrebbe fare Obama oggi: pacifici, internazionalisti e
interreligiosi.
Intanto molte critiche sono infondate. Riguardo
all’Iraq quello che conta non è l’immediatezza del ritiro delle truppe
d’invasione, ma il fatto che gli Stati Uniti rinuncino, come ha annunciato
Obama, a mantenervi basi militari permanenti. E ben si sa che col pretesto di
Saddam Hussein, l’avanzamento dell’insediamento militare americano nel mondo
arabo e verso l’Estremo Oriente, è stata la vera ragione (più che il petrolio)
della seconda guerra contro l’Iraq. Per Guantanamo il Senato americano ha
approvato in questi giorni una legge che stabilendo di giudicare negli Stati
Uniti i prigionieri che non possono essere rilasciati, permetterà la chiusura
di quel lager. Quanto alla lotta per il servizio sanitario nazionale, essa
procede lentamente affrontando l’offensiva ideologica scatenata contro il
presidente, accusato di essere “socialista”, ma non si è fermata. Con Israele
effettivamente va male: ma lì sappiamo che c’è ben poco da fare senza un
mutamento profondo di quello Stato, che gode di un grande potere sull’America,
e davvero ha in mano il destino di Obama.
Ora è proprio perché il presidente americano
vuol rendere pacifica, internazionalista e interreligiosa non una piccola
ONLUS, ma la maggiore potenza militare ed economica del mondo, che merita il
Nobel. Può darsi che non ci riuscirà, perché moltissimi nemici ed alleati si
metteranno di traverso (altrimenti non sarebbero stati così corrivi e
funzionali all’America di Bush); ma l’averlo deciso, aver vinto su questa
linea una campagna elettorale, averlo proclamato nei punti topici del mondo,
dal Cairo ad Accra all’Europa all’ONU, e aver avviato delle politiche che
tendono a realizzare l’obiettivo di un mondo unito, pluralistico, senza armi
nucleari e non violento, è il più alto servizio che si potesse fare alla pace;
e meno male che quelli del Nobel se ne sono accorti e hanno voluto premiare
non un uomo ma una politica, la cui finalità è tutta nel futuro, per attuare
la quale ci vorrà più di una generazione e che perciò ha bisogno di tutto
l’appoggio possibile, ivi compreso il Nobel per la pace.
Quando Giovanni XXIII, un mese prima di morire,
ricevette il premio Balzan per la pace, aveva appena finito di scrivere
l’enciclica “Pacem in terris” e aveva aperto il Concilio; la “Pacem in terris”
era il manifesto di un mondo nuovo, e il Concilio era l’anticipazione di
un’umanità ricomposta in unità, riconciliata con se stessa e con Dio. Ancora
oggi quel programma giovanneo è ben lungi dall’essere attuato, anzi si è
andati perfino indietro rispetto a quel mondo, a quell’umanità e a quella
Chiesa che i segni dei tempi di allora facevano intravedere come possibili: ma
nessuno potrebbe dire per questo che quel premio per la pace fosse sbagliato o
che papa Giovanni non se lo fosse meritato.
Raniero La Valle
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