Caro Enrico, non riesco proprio a condividere il
tuo entusiasmo e il tuo ottimismo. Non penso proprio a pensare che nel giro di
pochi anni, ossia dalla guerra in Iraq, siano cambiati i toni elogiativi con cui
si esaltano i soldati uccisi. Credo piuttosto che molto dipenda dallo spazio che
i media hanno dato alla notizia. Vale a dire: se c'è una guerra in corso vera a
propria, sempre nei primi servizi dei tg, i soldati sono ben chiamati eroi e
martiri, come quelli di Nassirija, anche perchè laddove ci sono molte immagini,
molti filmati, l'emozione collettiva aumenta e il soldato diventa un simbolo.
Nel caso dell'Afghanistan, dove non abbiamo mai sentito parlare in modo
intensivo di guerra se non prima della guerra in Iraq e per poco tempo, i
soldati uccisi valgono "di meno", sono figli di una guerra minore che si
trascina senza impennate mediatiche di lunga durata da 8 anni. E allora i
tonisono più bassi, è una guerra che fa poco notizia. Non dimentichiamo quindi
che per le guerre, quelle cioè mediaticamente in risalto (ché è la tv a decidere
quando si tratta di vera guerra, per la quale spendere certi aggettivi per i
soldati uccisi), le conseguenza in termini di esaltazione dei morti uccisi sono
ben alti. Ti faccio presente, per esempio, che
"Dal giorno 7 Maggio 2006, a Milano esiste una
via a lui
dedicata. «Via
Fabrizio Quattrocchi,
medaglia d`oro al valor civile, vittima del terrorismo 1968-2004»
"
Merito del Presidente Ciampi, che ha insignito della medaglia
d'oro una persona che una volta sarebbe stato chiamato un cavaliere di
ventura.
Per non parlare delle molte vie o piazze dedicate ai "Martiri di
Nassirija": che vogliamo dire della parola MARTIRI attribuita ai soldati
italiani di Nassirija?
A Milano è previsto anche un parco dedicato a
Quattrocchi e ai soldati uccisi a Nassirija, non si sa se li chiameranno MARTIRI
anche in questo caso.
Lorenzo Galbiati
----- Original Message -----
From:
Sent: Tuesday, July 14, 2009 3:25
PM
Subject: [pace] un soldato ucciso
Oggi un soldato italiano è stato ucciso in
guerra, in Afghanistan. Si sa, in guerra si uccide o si muore, o tutt'e due.
Un altro soldato è grave. Dichiarazioni ufficiali di cordoglio. Poco più di 50
anni fa, sarebbe stato esaltato come un eroe. Sarà certamente onorato, ma il
tono pubblico - se non sbaglio - è più quello della disgrazia che
dell'impresa. Ancora a Nassyria, pochi anni fa, i morti (per colpevole
imprevidenza) erano quasi i figli migliori della Patria, alfieri del bene
contro il male. Ha buone ragioni il testo qui sotto, che ho diffuso. Dice bene
Jacques Ellul: "Il nostro non è il tempo della violenza, ma della
consapevolezza della violenza". E' anche tempo di violenza, certo, ma la
coscienza è cambiata, nonostante tutto ciò che osta. Quando si dice che
Gandhi, e altri come lui, sono passati invano nel nostro tempo, non si
considera tutto, e si lascia che il male occupi il nostro occhio, che non sa
bene vedere i movimenti lenti e lunghi. Ma sempre senza illusioni che il bene
sia facile e il male non sia forte. Enrico Peyretti
Eppur si
muove........ Non è vero che
tutto va peggio
Diminuiscono
le guerre - Dalla fine della Guerra Fredda a
oggi i conflitti armati nel mondo sono diminuiti del 41%: è questo uno dei
sorprendenti risultati dello Human Security Report, una ricerca durata ben
cinque anni, svolta dall’Università di Vancouver, in Canada, che sfata il
“falso mito” dell’aumento delle violenze su scala globale negli ultimi anni.
Secondo la ricerca, intitolata Guerra e pace nel XXI secolo, a partire dal
1992 si registra in tutto il mondo una drastica riduzione dei conflitti, dei
genocidi e delle violazioni dei diritti umani. Già all’inizio del 2005, uno
studio dell’Università del Maryland aveva segnalato il recente declino del
numero delle guerre, al contrario della percezione diffusa. Ma i risultati
dell’ Human Security Report, la prima e più
completa ricognizione sulle guerre combattute dal 1946 a oggi, vanno oltre e
ci svelano un gigantesco crollo del numero di guerre internazionali e delle
guerre civili e, di conseguenza, anche dei genocidi e delle vittime in
generale.
Tra il
1981 e il 2001, le crisi internazionali sono crollate di oltre il 70%. Il
numero delle vittime di genocidio e di pulizie etniche è crollato dell’80%,
malgrado i massacri che hanno insanguinato Bosnia e Ruanda verso la metà degli
anni Novanta. La media dei caduti in un singolo conflitto bellico è diminuita
enormemente, dai 37.000 del 1950 ai 600 morti del 2002. Il traffico
internazionale di armi, tra il 1990 e il 2003, è sceso del 33%. (Questo non
significa, purtroppo, che sia diminuita in parallelo anche la spesa mondiale
per gli armamenti, che è anzi aumentata: dagli 800 miliardi di dollari del
1998 ai 1200 di oggi.)
Inoltre, a partire dagli anni
Novanta è emersa, grazie alla spinta delle opinioni pubbliche occidentali,
l’idea da parte di molti Stati membri dell’ONU di un ‘diritto di ingerenza’
umanitario nei conflitti locali per evitare le violenze contro i civili.
Questo ha portato a un allargamento del fronte di impegno dell’ONU, cui ha
corrisposto una diminuzione del 40% delle guerre civili nel mondo a partire
dalla metà degli anni Novanta ad oggi. E, negli ultimi quindici anni, sono
stati risolti mediante negoziato più conflitti interni che nei due secoli
passati” (da Italia-ONU: 50 anni, dossier a cura del Servizio
Stampa e Informazione del Ministero degli Affari Esteri, Ed. Voices, Milano, febbraio 2006).
Si estende la
cultura della pace - Ma la cosa più
importante, a mio avviso, è che negli ultimi tempi si è fatta strada, non
senza difficoltà e inciampi, una cultura di pace che va imponendo, anche per
quanto riguarda la guerra, un tabù così come è già avvenuto, nel corso dei
secoli, per la schiavitù, per la pedofilia, per l’incesto, per il delitto
d’onore. Se analizziamo il lessico della guerra ci rendiamo facilmente conto
di come si sia passati dalle guerre “sante”, quindi benedette da Dio e in
quanto tali indiscutibili, a quelle “giuste”, pur sempre legittimate ma in
questo caso solo dal valore terreno della giustizia, fino a quelle
“umanitarie”, che non sono più nemmeno fondate sulla giustizia ma soltanto
sulla pietà umana, con una progressiva inesorabile diminuzione nella
legittimazione dell’uso della forza; oggi non solo è scomparso qualunque
aggettivo, ma la parola “guerra” stessa è divenuta imbarazzante da pronunciare
per i politici di ogni parte, che preferiscono infatti usare altre
espressioni, e parlare – talvolta contro ogni evidenza – di “missioni di
pace”. Quello che è cambiato e che sta cambiando molto rapidamente è
l’immaginario collettivo, che ormai, in larga parte, rifiuta la guerra come
strumento di risoluzione dei conflitti e ha capito che non porta al bene di
nessuno se non dei commercianti di armi.
Si estendono i
diritti umani - Sempre secondo i risultati dello
Human Security Report, lo studio effettuato
dall’Università di Vancouver già citato nel paragrafo sulla diminuzione delle
guerre, fra il 1994 e il 2003, nella maggior parte dei paesi in via di
sviluppo c’è stata una diminuzione generale degli abusi dei diritti umani. Si
tratta di un processo che si rinforza vicendevolmente con il progredire dello
sviluppo umano – che, come abbiamo già visto, ha compiuto grandi passi avanti
negli ultimi cinquant’anni – e con l’estendersi della democrazia, che ancora
trent’anni fa esisteva solo in una ventina di paesi al mondo, mentre ora è
applicata, pur con mille limiti e contraddizioni evidenti, nella maggioranza
dei paesi. Infatti, secondo l’ultimo rapporto della Freedom House (gennaio 2008), per la prima volta nella
storia dell’ONU una maggioranza di governi di stati membri viene eletta
attraverso procedure democratiche: nel mondo oggi ci sono 121 democrazie
elettorali (dove ci sono libere elezioni) di cui 90 sono democrazie
liberali.
Si è
molto discusso in questi anni sull’universalità dei diritti umani, sostenendo
che essa sarebbe solo presunta poiché essi sarebbero viziati alla nascita e
non esprimerebbero che la visione di una sola cultura, quella “occidentale”.
Io non condivido questo dubbio perché ritengo che i diritti umani vengano
ancora prima del livello culturale; essi rappresentano molto semplicemente i
più elementari “bisogni” dell’uomo, e sono dunque validi a qualunque
latitudine egli si trovi e in qualunque epoca egli viva. Ma anche facendo
un’analisi antropologico-culturale, che vada al di
là dei più banali stereotipi sulle diverse culture, scopriamo che i loro
valori di fondo sono sempre gli stessi. L’etica alla base dei diritti umani è
patrimonio comune di tutti i popoli (…) Questo tuttavia non significa che
dalle varie culture non possano venire contributi anche significativi,
complementari alla Dichiarazione dei Diritti dell’Onu. Un esempio molto
interessante è rappresentato dalla Carta Africana dei Diritti dei Popoli, che
porta l’attenzione anche sui diritti collettivi, oltre che su quelli
dell’individuo; è stata adottata dall’Organizzazione per l’Unità Africana
(OUA) nel 1981 ed è entrata in vigore nel 1986, quando 35 su 50 stati membri
dell’OUA l’hanno ratificata. Al gennaio 2004 ne fanno parte 53 nazioni, cioè
tutti gli stati membri dell’Unione Africana. La Carta, che tutela i diritti
umani a livello regionale africano, presenta delle caratteristiche originali
rispetto ai trattati della stessa natura.
La Carta riconosce sia diritti
civili e politici che economici sociali e culturali, inoltre è la prima
convenzione internazionale sui diritti umani a contemplare molti diritti dei
popoli e non solo dell’individuo in quanto tale; riconosce infatti il diritto
all’uguaglianza, il diritto all’autodeterminazione, il diritto di proprietà
delle proprie risorse naturali, il diritto allo sviluppo e a un ambiente sano.
La Carta prevede, poi, diversi doveri a cui gli stessi soggetti devono
attenersi. Riconosce quindi i doveri dell’individuo verso la famiglia, la
società e la Comunità Internazionale, il dovere di non discriminare, il dovere
di mantenere i genitori in caso di bisogno, di lavorare al meglio delle
proprie capacità e competenze, il dovere di preservare e rafforzare i valori
positivi della cultura africana.
La Carta Africana ha istituito la
Commissione Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, con specifici compiti
di tutela giurisdizionale, anche se molto limitati. Infine, nel 1998 è stato
approvato dall’OUA un Protocollo Opzionale alla Carta che istituiva la Corte
Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli. Tale Protocollo Opzionale ha
appena raggiunto il numero di 15 ratifiche necessarie. La Corte Africana dei
Diritti è dunque entrata in vigore il 25 gennaio 2004, con la ratifica
dell’Unione delle Comore.
Estratto dal libro (e non per farci la
pubblicita'):
Non è Vero che Tutto va Peggio L'impegno di tanti per un domani migliore sta
già cambiando il mondo di Jacopo Fo e Michele Dotti [Emi
Editore]
|