Sì, lo sappiamo. Il soldato ucciso giorni fa scriveva a casa
"La guerra è una cosa sporca, ma qualcuno deve farla" (dal GR1). Dunque, sapeva
che era guerra. Non mi riferivo a quel che dicono "quelli", ma a quel che sente
la coscienza comune, progressivamente, nei tempi lunghi. Naturalmente, non al
100%. Ciao, Enrico
----- Original Message -----
Sent: Tuesday, July 14, 2009 6:31
PM
Subject: Re: [pace] un soldato
ucciso
Ma che
dici, Enrico.
I nostri "vati" (Berlusconi, Gasparri) dicono che
non siamo in guerra ma in missione di pace!
Ci prendono in giro?
Pino Canale
Il giorno 14/lug/09, alle ore 15:25, Enrico Peyretti ha scritto:
Oggi un soldato italiano è stato ucciso in
guerra, in Afghanistan. Si sa, in guerra si uccide o si muore, o tutt'e due.
Un altro soldato è grave. Dichiarazioni ufficiali di cordoglio. Poco più di
50 anni fa, sarebbe stato esaltato come un eroe. Sarà certamente onorato, ma
il tono pubblico - se non sbaglio - è più quello della disgrazia che
dell'impresa. Ancora a Nassyria, pochi anni fa, i morti (per colpevole
imprevidenza) erano quasi i figli migliori della Patria, alfieri del bene
contro il male. Ha buone ragioni il testo qui sotto, che ho diffuso. Dice
bene Jacques Ellul: "Il nostro non è il tempo della violenza, ma della
consapevolezza della violenza". E' anche tempo di violenza, certo, ma la
coscienza è cambiata, nonostante tutto ciò che osta. Quando si dice che
Gandhi, e altri come lui, sono passati invano nel nostro tempo, non si
considera tutto, e si lascia che il male occupi il nostro occhio, che non sa
bene vedere i movimenti lenti e lunghi. Ma sempre senza illusioni che il
bene sia facile e il male non sia forte. Enrico Peyretti
Eppur si
muove........ Non è vero che
tutto va peggio
Diminuiscono
le guerre - Dalla fine della Guerra Fredda a
oggi i conflitti armati nel mondo sono diminuiti del 41%: è questo uno dei
sorprendenti risultati dello Human Security Report, una
ricerca durata ben cinque anni, svolta dall’Università di Vancouver, in
Canada, che sfata il “falso mito” dell’aumento delle violenze su scala
globale negli ultimi anni. Secondo la ricerca, intitolata Guerra e pace nel
XXI secolo, a partire dal 1992 si registra in tutto il mondo una drastica
riduzione dei conflitti, dei genocidi e delle violazioni dei diritti umani.
Già all’inizio del 2005, uno studio dell’Università del Maryland aveva
segnalato il recente declino del numero delle guerre, al contrario della
percezione diffusa. Ma i risultati dell’ Human Security Report, la
prima e più completa ricognizione sulle guerre combattute dal 1946 a oggi,
vanno oltre e ci svelano un gigantesco crollo del numero di guerre
internazionali e delle guerre civili e, di conseguenza, anche dei genocidi e
delle vittime in generale.
Tra il 1981 e il 2001, le crisi
internazionali sono crollate di oltre il 70%. Il numero delle vittime di
genocidio e di pulizie etniche è crollato dell’80%, malgrado i massacri che
hanno insanguinato Bosnia e Ruanda verso la metà degli anni Novanta. La
media dei caduti in un singolo conflitto bellico è diminuita enormemente,
dai 37.000 del 1950 ai 600 morti del 2002. Il traffico internazionale di
armi, tra il 1990 e il 2003, è sceso del 33%. (Questo non significa,
purtroppo, che sia diminuita in parallelo anche la spesa mondiale per gli
armamenti, che è anzi aumentata: dagli 800 miliardi di dollari del 1998 ai
1200 di oggi.)
Inoltre, a partire dagli anni
Novanta è emersa, grazie alla spinta delle opinioni pubbliche occidentali,
l’idea da parte di molti Stati membri dell’ONU di un ‘diritto di ingerenza’
umanitario nei conflitti locali per evitare le violenze contro i civili.
Questo ha portato a un allargamento del fronte di impegno dell’ONU, cui ha
corrisposto una diminuzione del 40% delle guerre civili nel mondo a partire
dalla metà degli anni Novanta ad oggi. E, negli ultimi quindici anni, sono
stati risolti mediante negoziato più conflitti interni che nei due secoli
passati” (daItalia-ONU: 50 anni, dossier a cura del Servizio
Stampa e Informazione del Ministero degli Affari Esteri, Ed. Voices,
Milano, febbraio 2006).
Si estende la
cultura della pace - Ma la cosa più importante, a mio
avviso, è che negli ultimi tempi si è fatta strada, non senza difficoltà e
inciampi, una cultura di pace che va imponendo, anche per quanto riguarda la
guerra, un tabù così come è già avvenuto, nel corso dei secoli, per la
schiavitù, per la pedofilia, per l’incesto, per il delitto d’onore. Se
analizziamo il lessico della guerra ci rendiamo facilmente conto di come si
sia passati dalle guerre “sante”, quindi benedette da Dio e in quanto tali
indiscutibili, a quelle “giuste”, pur sempre legittimate ma in questo caso
solo dal valore terreno della giustizia, fino a quelle “umanitarie”, che non
sono più nemmeno fondate sulla giustizia ma soltanto sulla pietà umana, con
una progressiva inesorabile diminuzione nella legittimazione dell’uso della
forza; oggi non solo è scomparso qualunque aggettivo, ma la parola “guerra”
stessa è divenuta imbarazzante da pronunciare per i politici di ogni parte,
che preferiscono infatti usare altre espressioni, e parlare – talvolta
contro ogni evidenza – di “missioni di pace”. Quello che è cambiato e che
sta cambiando molto rapidamente è l’immaginario collettivo, che ormai, in
larga parte, rifiuta la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti e
ha capito che non porta al bene di nessuno se non dei commercianti di
armi.
Si estendono
i diritti umani - Sempre secondo i risultati
dello Human Security Report, lo
studio effettuato dall’Università di Vancouver già citato nel paragrafo
sulla diminuzione delle guerre, fra il 1994 e il 2003, nella maggior parte
dei paesi in via di sviluppo c’è stata una diminuzione generale degli abusi
dei diritti umani. Si tratta di un processo che si rinforza vicendevolmente
con il progredire dello sviluppo umano – che, come abbiamo già visto, ha
compiuto grandi passi avanti negli ultimi cinquant’anni – e con l’estendersi
della democrazia, che ancora trent’anni fa esisteva solo in una ventina di
paesi al mondo, mentre ora è applicata, pur con mille limiti e
contraddizioni evidenti, nella maggioranza dei paesi. Infatti, secondo
l’ultimo rapporto della Freedom House (gennaio 2008), per la prima
volta nella storia dell’ONU una maggioranza di governi di stati membri viene
eletta attraverso procedure democratiche: nel mondo oggi ci sono 121
democrazie elettorali (dove ci sono libere elezioni) di cui 90 sono
democrazie liberali.
Si è molto discusso in questi
anni sull’universalità dei diritti umani, sostenendo che essa sarebbe solo
presunta poiché essi sarebbero viziati alla nascita e non esprimerebbero che
la visione di una sola cultura, quella “occidentale”. Io non condivido
questo dubbio perché ritengo che i diritti umani vengano ancora prima del
livello culturale; essi rappresentano molto semplicemente i più elementari
“bisogni” dell’uomo, e sono dunque validi a qualunque latitudine egli si
trovi e in qualunque epoca egli viva. Ma anche facendo un’analisiantropologico-culturale, che vada al di là dei più
banali stereotipi sulle diverse culture, scopriamo che i loro valori di
fondo sono sempre gli stessi. L’etica alla base dei diritti umani è
patrimonio comune di tutti i popoli (…) Questo tuttavia non significa
che dalle varie culture non possano venire contributi anche significativi,
complementari alla Dichiarazione dei Diritti dell’Onu. Un esempio molto
interessante è rappresentato dalla Carta Africana dei Diritti dei Popoli,
che porta l’attenzione anche sui diritti collettivi, oltre che su quelli
dell’individuo; è stata adottata dall’Organizzazione per l’Unità Africana
(OUA) nel 1981 ed è entrata in vigore nel 1986, quando 35 su 50 stati membri
dell’OUA l’hanno ratificata. Al gennaio 2004 ne fanno parte 53 nazioni, cioè
tutti gli stati membri dell’Unione Africana. La Carta, che tutela i diritti
umani a livello regionale africano, presenta delle caratteristiche originali
rispetto ai trattati della stessa natura.
La Carta riconosce sia diritti
civili e politici che economici sociali e culturali, inoltre è la prima
convenzione internazionale sui diritti umani a contemplare molti diritti dei
popoli e non solo dell’individuo in quanto tale; riconosce infatti il
diritto all’uguaglianza, il diritto all’autodeterminazione, il diritto di
proprietà delle proprie risorse naturali, il diritto allo sviluppo e a un
ambiente sano. La Carta prevede, poi, diversi doveri a cui gli stessi
soggetti devono attenersi. Riconosce quindi i doveri dell’individuo verso la
famiglia, la società e la Comunità Internazionale, il dovere di non
discriminare, il dovere di mantenere i genitori in caso di bisogno, di
lavorare al meglio delle proprie capacità e competenze, il dovere di
preservare e rafforzare i valori positivi della cultura
africana.
La Carta Africana
ha istituito la Commissione Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, con
specifici compiti di tutela giurisdizionale, anche se molto limitati.
Infine, nel 1998 è stato approvato dall’OUA un Protocollo Opzionale alla
Carta che istituiva la Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli.
Tale Protocollo Opzionale ha appena raggiunto il numero di 15 ratifiche
necessarie. La Corte Africana dei Diritti è dunque entrata in vigore il 25
gennaio 2004, con la ratifica dell’Unione delle Comore.
Estratto dal
libro (e non per farci la pubblicita'):
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