Caro Lorenzo,
il mio non è ottimismo né, tanto meno, entusiasmo. Non
capisco come si possa capire così. Ho fatto un'osservazione,
discutibilissima, sulle primissime reazioni al fatto della morte del
soldato. Quello che mi interessa soprattutto sono i
mutamenti di coscienza collettiva (non dei governanti!) sui tempi
lunghi, molto lunghi, e lenti. Posso sbagliare, può sbagliare Jacopo Fo (si
partiva dal libro suo e di Michele Dotti), ma questa prospettiva va considerata,
magari corretta, ma considerata, perché è facile che la nostra ottica sia
catturata dal corto presente.
Sì, medaglie, parchi e vie milanesi dedicate ad un
avventuriero non stupiscono. Qui vicino a casa mia c'è ancora una via dedicata
ad un "martire" fascista, Carmelo Borg Pisani, che nessuno sa più chi sia, ma a
me e ai miei compagnetti, in prima elementare (1940), la maestra lo esaltò e ci
fece comperare, per una lira, la cartolina con la sua foto in camicia
nera. Era andato a Malta per far saltare una nave inglese. Fu preso e
fucilato. Il mio vicino di banco disse forte, in dialetto, "Hanno fatto
bene!", e la maestra lo sgridò molto. Transit gloria mundi. E anche le cose poco
gloriose. Poveretto il soldato di oggi, e i suoi!
Ciao, Enrico
----- Original Message -----
Sent: Tuesday, July 14, 2009 10:24
PM
Subject: Re: [pace] un soldato
ucciso
Caro Enrico, non riesco proprio a condividere il
tuo entusiasmo e il tuo ottimismo. Non penso proprio a pensare che nel giro di
pochi anni, ossia dalla guerra in Iraq, siano cambiati i toni elogiativi con
cui si esaltano i soldati uccisi. Credo piuttosto che molto dipenda dallo
spazio che i media hanno dato alla notizia. Vale a dire: se c'è una guerra in
corso vera a propria, sempre nei primi servizi dei tg, i soldati sono ben
chiamati eroi e martiri, come quelli di Nassirija, anche perchè laddove ci
sono molte immagini, molti filmati, l'emozione collettiva aumenta e il soldato
diventa un simbolo. Nel caso dell'Afghanistan, dove non abbiamo mai sentito
parlare in modo intensivo di guerra se non prima della guerra in Iraq e per
poco tempo, i soldati uccisi valgono "di meno", sono figli di una guerra
minore che si trascina senza impennate mediatiche di lunga durata da 8 anni. E
allora i tonisono più bassi, è una guerra che fa poco notizia. Non
dimentichiamo quindi che per le guerre, quelle cioè mediaticamente in risalto
(ché è la tv a decidere quando si tratta di vera guerra, per la quale spendere
certi aggettivi per i soldati uccisi), le conseguenza in termini di
esaltazione dei morti uccisi sono ben alti. Ti faccio presente, per esempio,
che
"Dal giorno 7 Maggio 2006, a Milano esiste una
via a lui
dedicata. «Via
Fabrizio Quattrocchi,
medaglia d`oro al valor civile, vittima del terrorismo 1968-2004»
"
Merito del Presidente Ciampi, che ha insignito della medaglia
d'oro una persona che una volta sarebbe stato chiamato un cavaliere
di ventura.
Per non parlare delle molte vie o piazze dedicate ai "Martiri di
Nassirija": che vogliamo dire della parola MARTIRI attribuita ai soldati
italiani di Nassirija?
A Milano è previsto anche un parco dedicato a
Quattrocchi e ai soldati uccisi a Nassirija, non si sa se li chiameranno
MARTIRI anche in questo caso.
Lorenzo Galbiati
----- Original Message -----
From:
Sent: Tuesday, July 14, 2009 3:25
PM
Subject: [pace] un soldato ucciso
Oggi un soldato italiano è stato ucciso in
guerra, in Afghanistan. Si sa, in guerra si uccide o si muore, o tutt'e due.
Un altro soldato è grave. Dichiarazioni ufficiali di cordoglio. Poco più di
50 anni fa, sarebbe stato esaltato come un eroe. Sarà certamente onorato, ma
il tono pubblico - se non sbaglio - è più quello della disgrazia che
dell'impresa. Ancora a Nassyria, pochi anni fa, i morti (per colpevole
imprevidenza) erano quasi i figli migliori della Patria, alfieri del bene
contro il male. Ha buone ragioni il testo qui sotto, che ho diffuso. Dice
bene Jacques Ellul: "Il nostro non è il tempo della violenza, ma della
consapevolezza della violenza". E' anche tempo di violenza, certo, ma la
coscienza è cambiata, nonostante tutto ciò che osta. Quando si dice che
Gandhi, e altri come lui, sono passati invano nel nostro tempo, non si
considera tutto, e si lascia che il male occupi il nostro occhio, che non sa
bene vedere i movimenti lenti e lunghi. Ma sempre senza illusioni che il
bene sia facile e il male non sia forte. Enrico Peyretti
Eppur si
muove........ Non è vero che
tutto va peggio
Diminuiscono
le guerre - Dalla fine della Guerra Fredda a
oggi i conflitti armati nel mondo sono diminuiti del 41%: è questo uno dei
sorprendenti risultati dello Human Security Report, una ricerca durata
ben cinque anni, svolta dall’Università di Vancouver, in Canada, che sfata
il “falso mito” dell’aumento delle violenze su scala globale negli ultimi
anni. Secondo la ricerca, intitolata Guerra e pace nel XXI secolo, a partire
dal 1992 si registra in tutto il mondo una drastica riduzione dei conflitti,
dei genocidi e delle violazioni dei diritti umani. Già all’inizio del 2005,
uno studio dell’Università del Maryland aveva segnalato il recente declino
del numero delle guerre, al contrario della percezione diffusa. Ma i
risultati dell’ Human Security Report, la prima e più
completa ricognizione sulle guerre combattute dal 1946 a oggi, vanno oltre e
ci svelano un gigantesco crollo del numero di guerre internazionali e delle
guerre civili e, di conseguenza, anche dei genocidi e delle vittime in
generale.
Tra
il 1981 e il 2001, le crisi internazionali sono crollate di oltre il 70%. Il
numero delle vittime di genocidio e di pulizie etniche è crollato dell’80%,
malgrado i massacri che hanno insanguinato Bosnia e Ruanda verso la metà
degli anni Novanta. La media dei caduti in un singolo conflitto bellico è
diminuita enormemente, dai 37.000 del 1950 ai 600 morti del 2002. Il
traffico internazionale di armi, tra il 1990 e il 2003, è sceso del 33%.
(Questo non significa, purtroppo, che sia diminuita in parallelo anche la
spesa mondiale per gli armamenti, che è anzi aumentata: dagli 800 miliardi
di dollari del 1998 ai 1200 di oggi.)
Inoltre, a partire dagli anni
Novanta è emersa, grazie alla spinta delle opinioni pubbliche occidentali,
l’idea da parte di molti Stati membri dell’ONU di un ‘diritto di ingerenza’
umanitario nei conflitti locali per evitare le violenze contro i civili.
Questo ha portato a un allargamento del fronte di impegno dell’ONU, cui ha
corrisposto una diminuzione del 40% delle guerre civili nel mondo a partire
dalla metà degli anni Novanta ad oggi. E, negli ultimi quindici anni, sono
stati risolti mediante negoziato più conflitti interni che nei due secoli
passati” (da Italia-ONU: 50 anni, dossier a cura del Servizio
Stampa e Informazione del Ministero degli Affari Esteri, Ed. Voices, Milano, febbraio
2006).
Si estende la
cultura della pace - Ma la cosa più
importante, a mio avviso, è che negli ultimi tempi si è fatta strada, non
senza difficoltà e inciampi, una cultura di pace che va imponendo, anche per
quanto riguarda la guerra, un tabù così come è già avvenuto, nel corso dei
secoli, per la schiavitù, per la pedofilia, per l’incesto, per il delitto
d’onore. Se analizziamo il lessico della guerra ci rendiamo facilmente conto
di come si sia passati dalle guerre “sante”, quindi benedette da Dio e in
quanto tali indiscutibili, a quelle “giuste”, pur sempre legittimate ma in
questo caso solo dal valore terreno della giustizia, fino a quelle
“umanitarie”, che non sono più nemmeno fondate sulla giustizia ma soltanto
sulla pietà umana, con una progressiva inesorabile diminuzione nella
legittimazione dell’uso della forza; oggi non solo è scomparso qualunque
aggettivo, ma la parola “guerra” stessa è divenuta imbarazzante da
pronunciare per i politici di ogni parte, che preferiscono infatti usare
altre espressioni, e parlare – talvolta contro ogni evidenza – di “missioni
di pace”. Quello che è cambiato e che sta cambiando molto rapidamente è
l’immaginario collettivo, che ormai, in larga parte, rifiuta la guerra come
strumento di risoluzione dei conflitti e ha capito che non porta al bene di
nessuno se non dei commercianti di armi.
Si estendono
i diritti umani - Sempre secondo i
risultati dello Human Security Report, lo studio effettuato
dall’Università di Vancouver già citato nel paragrafo sulla diminuzione
delle guerre, fra il 1994 e il 2003, nella maggior parte dei paesi in via di
sviluppo c’è stata una diminuzione generale degli abusi dei diritti umani.
Si tratta di un processo che si rinforza vicendevolmente con il progredire
dello sviluppo umano – che, come abbiamo già visto, ha compiuto grandi passi
avanti negli ultimi cinquant’anni – e con l’estendersi della democrazia, che
ancora trent’anni fa esisteva solo in una ventina di paesi al mondo, mentre
ora è applicata, pur con mille limiti e contraddizioni evidenti, nella
maggioranza dei paesi. Infatti, secondo l’ultimo rapporto della Freedom House (gennaio 2008), per la prima volta nella
storia dell’ONU una maggioranza di governi di stati membri viene eletta
attraverso procedure democratiche: nel mondo oggi ci sono 121 democrazie
elettorali (dove ci sono libere elezioni) di cui 90 sono democrazie
liberali.
Si è
molto discusso in questi anni sull’universalità dei diritti umani,
sostenendo che essa sarebbe solo presunta poiché essi sarebbero viziati alla
nascita e non esprimerebbero che la visione di una sola cultura, quella
“occidentale”. Io non condivido questo dubbio perché ritengo che i diritti
umani vengano ancora prima del livello culturale; essi rappresentano molto
semplicemente i più elementari “bisogni” dell’uomo, e sono dunque validi a
qualunque latitudine egli si trovi e in qualunque epoca egli viva. Ma anche
facendo un’analisi antropologico-culturale, che
vada al di là dei più banali stereotipi sulle diverse culture, scopriamo che
i loro valori di fondo sono sempre gli stessi. L’etica alla base dei diritti
umani è patrimonio comune di tutti i popoli (…) Questo tuttavia non significa
che dalle varie culture non possano venire contributi anche significativi,
complementari alla Dichiarazione dei Diritti dell’Onu. Un esempio molto
interessante è rappresentato dalla Carta Africana dei Diritti dei Popoli,
che porta l’attenzione anche sui diritti collettivi, oltre che su quelli
dell’individuo; è stata adottata dall’Organizzazione per l’Unità Africana
(OUA) nel 1981 ed è entrata in vigore nel 1986, quando 35 su 50 stati membri
dell’OUA l’hanno ratificata. Al gennaio 2004 ne fanno parte 53 nazioni, cioè
tutti gli stati membri dell’Unione Africana. La Carta, che tutela i diritti
umani a livello regionale africano, presenta delle caratteristiche originali
rispetto ai trattati della stessa natura.
La Carta riconosce sia diritti
civili e politici che economici sociali e culturali, inoltre è la prima
convenzione internazionale sui diritti umani a contemplare molti diritti dei
popoli e non solo dell’individuo in quanto tale; riconosce infatti il
diritto all’uguaglianza, il diritto all’autodeterminazione, il diritto di
proprietà delle proprie risorse naturali, il diritto allo sviluppo e a un
ambiente sano. La Carta prevede, poi, diversi doveri a cui gli stessi
soggetti devono attenersi. Riconosce quindi i doveri dell’individuo verso la
famiglia, la società e la Comunità Internazionale, il dovere di non
discriminare, il dovere di mantenere i genitori in caso di bisogno, di
lavorare al meglio delle proprie capacità e competenze, il dovere di
preservare e rafforzare i valori positivi della cultura
africana.
La Carta Africana
ha istituito la Commissione Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, con
specifici compiti di tutela giurisdizionale, anche se molto limitati.
Infine, nel 1998 è stato approvato dall’OUA un Protocollo Opzionale alla
Carta che istituiva la Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli.
Tale Protocollo Opzionale ha appena raggiunto il numero di 15 ratifiche
necessarie. La Corte Africana dei Diritti è dunque entrata in vigore il 25
gennaio 2004, con la ratifica dell’Unione delle Comore.
Estratto dal
libro (e non per farci la pubblicita'):
Non è Vero che Tutto va Peggio L'impegno di tanti per un domani migliore
sta già cambiando il mondo di Jacopo Fo e Michele Dotti
[Emi Editore]
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