Re: [pace] unire la sinistra? Cittadini non politici



Credo che questo testo possa emblematicamente, malgrado venga da lontano,
dare una risposta a quell "Unire la sinistra!", a cui io ho messo un
punto interrogativo, invece.
Doriana
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Cittadini, non politici
di Howard Zinn (The Progressive)
Noi non siamo politici, siamo cittadini. Abbiamo solo le nostre coscienze,
che ci spingono verso la verità. La storia insegna che non c'è niente di
più
realistico che un cittadino possa fare

Il Congresso sta decidendo quando ritirare i soldati dall'Iraq. In
risposta
all’improvvisa richiesta di nuove truppe da parte dell’amministrazione
Bush
e al rifiuto dei Repubblicani di limitare la nostra [degli americani, NdT]
occupazione, i Democratici, timorosi come al solito, propongono un ritiro
–
da effettuarsi, però, solo tra un anno o diciotto mesi. Sembra anche che
si
aspettino l’appoggio del movimento pacifista.

Ciò è risultato in un recente comunicato del movimento MoveOn, che
riguardo
la proposta democratica ha sondato l’opinione tra i propri affiliati: “I
progressisti del Congresso, come molti di noi, non pensano andrà in porto,
ma vedono questa proposta come il primo passo verso la fine della
guerra".

Paradossale è il fatto che questa proposta consente di stanziare
centoventiquattro miliardi di dollari in termini di ulteriori fondi
destinati alla guerra. È come se, prima della guerra civile, gli
abolizionisti si fossero accordati nel posporre l’emancipazione degli
schiavi di un anno, o due, o cinque, accompagnando questa decisione con lo
stanziamento di fondi per implementare l’Atto sugli Schiavi Fuggiaschi
(Fuggitive Slave Act).

Quando un movimento scende a patti col legislatore, fatalmente dimentica
il
proprio ruolo: sfidare la politica, non esserne subalterno

Noi che protestiamo contro la guerra non siamo politici. Siamo cittadini.
Qualsiasi cosa i politici facciano, facciamo loro sentire, per la prima
volta, la nostra grande forza, parlando a favore di ciò che è giusto e non
di ciò che si può ottenere in un Congresso oggi vittima della paura.

La tempistica del ritiro non è solo moralmente deplorabile (daresti
all’invasore che ha distrutto la tua casa e terrorizzato i tuoi figli una
tabella per il rientro?), è anche logicamente insensata. Se le nostre
[degli
americani, NdT] truppe impediscono lo scoppio di una guerra civile,
aiutano
la popolazione, controllano la violenza, perché ritirarle? Se stanno
facendo
l’opposto – com’è vero che stanno facendo – , e cioè alimentano la guerra
civile, attaccano la popolazione, perpetuano la violenza, dovrebbero
essere
riportate a casa ora.

Sono passati quattro anni da quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq
con
i bobmbardamenti “shock and awe” (dottrina militare fondata nel 2003,
fondata sull’uso spettacolare di una forza militare dominante in grado di
paralizzare il nemico e minarne gli istinti bellicosi). Quattro anni sono
abbastanza per decidere se la presenza delle nostre truppe sta
migliorando o
peggiorando la qualità della vita della popolazione irachena. Le prove
sono
inconfutabili. A partire dall’invasione, centinaia di migliaia di iracheni
sono morti. Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite
per
i Rifugiati, circa due milioni di iracheni sono fuggiti dal paese, mentre
altrettanti, cacciati dalle loro case, continuano a vivere in Iraq come
fuggiaschi.

È indiscutibile, Saddam Hussein è stato un crudele tiranno. La sua
cattura e
la sua morte, però, non hanno migliorato la vita degli iracheni.
L’occupazione americana ha portato solo caos: niente acqua potabile, tasso
crescente di malnutrizione, disoccupazione al 50%, scarsità di alimenti,
elettricità, petrolio, aumento di morti infantili. La presenza americana
ha
diminuito la violenza? Al contrario, dal gennaio 2007 il numero degli
attacchi sovversivi è cresciuto drammaticamente – fino alla cifra di 180
al
giorno.

La risposta dell’amministrazione Bush, dopo quattro anni di fallimenti, è
stata quella di mandare nuove truppe. Come a dire: se capisci che stai
andando nella direzione sbagliata, raddoppia la velocità. Tutto ciò mi
ricorda quel medico europeo che, all’inizio dell'Ottocento, decise che il
salasso avrebbe curato la polmonite. Di fronte al manifesto insuccesso, si
difendeva dicendo che non era stato perso abbastanza sangue.

La proposta dei democratici al Congresso Usa è quella di finanziare
ulteriormente la guerra e, allo stesso tempo, stabilire una tabella di
marcia relativa al ritiro – che farà proseguire l’agonia per un anno o
più.
Dicono sia necessario il compromesso – e qualcuno, nel movimento
pacifista,
sta cooperando. Comunque, scendere a un compromesso in questi casi ha
senso
solo se si ha la certezza di poter ottenere di più in futuro. Una
situazione
analoga è descritta nell’ultimo film di Ken Loach, “Il vento che accarezza
l’erba” (The wind that shakes the barley): ai ribelli irlandesi che
insorgono contro le forze inglesi, l’Inghilterra propone un compromesso –
avere una parte dell’Irlanda libera, lo Stato Libero d’Irlanda. Nel film,
gli irlandesi combattono tra loro sull’accettazione o meno di questo
compromesso. Per lo meno, questo compromesso, seppur ingiusto, creò lo
Stato
Libero d'Irlanda. Al contrario, la data del ritiro proposta dai
Democratici
non prevede nessun cambiamento tangibile, lasciando tutto nelle mani
dell’amministrazione Bush.

Il movimento operaio deve aver vissuto simili dubbi. Infatti, è
circostanza
comune che i sindacati, battendosi per un nuovo contratto, debbano
decidere
se accettare l’offerta di turno che dà loro solo la metà di quanto
richiesto. Si tratta sempre di una decisione difficile ma, in quasi tutti
i
casi, sia che il compromesso venga considerato una vittoria o una
sconfitta,
i lavoratori ottengono sempre qualcosa di concreto, suscettibile di
migliorarne le condizioni. Se si trovassero di fronte alla promessa di un
miglioramento futuro, nel contesto di una condizione attuale inaccettabile
immutata, l’offerta non verrebbe considerata un compromesso, bensì un
tradimento. Un sindacalista che dicesse “Accettatelo, meglio di così non
possiamo ottenere" (che è ciò che i membri di MoveOn dicono riguardo alla
delibera dei Democratici), verrebbe deriso e disprezzato.

Tutto ciò mi ricorda il Convegno Nazionale Democratico del 1964, tenutosi
ad
Atlantic City (New Jersey), quando la delegazione nera del Mississippi
chiese di ottenere i seggi per poter rappresentare la popolazione di
colore
(40%) dello stato. Venne proposto un “compromesso” – due seggi senza
diritto
di voto. “Meglio di così non possiamo ottenere”, disse qualche leader
nero.
La popolazione del Mississippi, guidata da Fannie Lou Hamer e Bob Moses,
declinò l’offerta e continuò a lottare ottenendo, più tardi, quello che
aveva originariamente chiesto. Quel mantra – “meglio di così non possiamo
ottenere" – è la strada maestra verso la corruzione.

Non è scontato, nella corruzione che ancora imperversa a Washington,
appellarsi alla verità e resistere alla capitolazione travestita da
compromesso. Alcuni ci riescono. Penso a Barbara Lee, l’unico membro della
Camera dei Rappresentanti che, nell’isterismo generale dei mesi successivi
all’11 settembre, ha votato contro la risoluzione che autorizzava Bush a
invadere l’Afghanistan; oggi, rimane una dei pochi nel Congresso a
rifiutarsi di finanziare l’avventura irachena e a spingere per una sua
fine
immediata, rifiutando la disonestà di un falso compromesso.

Eccezion fatta per rarità che portano il nome di Barbara Lee, Maxine
Waters,
Lynn Woolsey e John Lewis, i nostri rappresentanti sono politici tout
court
– gente che svenderà la propria integrità nel nome del “realismo”.

Noi non siamo politici, siamo cittadini. Non abbiamo nessuna carica da
preservare, nessuna poltrona da riscaldare. Abbiamo solo le nostre
coscienze, che ci spingono verso la verità. La storia insegna che non c’è
niente di più realistico che un cittadino possa fare.

Howard Zinn prestò servizio come bombardiere nell’Air Force durante la
Seconda Guerra Mondiale; è autore di 'Storia del popolo americano. Dal
1942
ad oggi'. È co-autore, con Anthony Arnove, di 'Voices of a People's
History
of the United States' (Seven Stories Press, 2004). Il suo ultimo libro è
'A
Power Governments Cannot Suppress'.
Di Howard Zinn Nuovi Mondi Media ha pubblicato Dissento – Storie di
artisti
in tempo di guerra.

Fonte: The Progressive
Traduzione a cura di Margherita Ferrari per Nuovi Mondi Media

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