Chalmers Johnson: L’impero globale Usa, 700 basi militari e 2 milioni di soldati nel mondo



L'IMPERO GLOBALE USA
UNA VOLTA ERANO LE COLONIE, OGGI SONO LE 700 BASI MILITARI E 2 MILIONI DI SOLDATI NEL MONDO A MISURARE LA POTENZA DI WASHINGTON - IL PENTAGONO È UNO DEI PIÙ GRANDI PROPRIETARI TERRIERI DEL MONDO...

Chalmers Johnson da "Internazionale"

(Chalmers Johnson è uno storico statunitense. È il presidente del Japan policy research institute. Questo articolo è un estratto del suo ultimo libro "Nemesis: the last days of the american republic", Metropolitan Books)

Una volta si poteva seguire l'espansione dell'imperialismo contando le colonie. La versione statunitense delle vecchie colonie sono le basi militari. Seguendo su scala globale i cambiamenti che riguardano le basi possiamo conoscere molto dell'"impronta" imperiale americana e del militarismo che l'accompagna.
Non è facile tuttavia valutare le dimensioni o il valore esatto dell'impero di basi militari degli Stati Uniti. I dati ufficiali disponibili sull'argomento sono fuorvianti, anche se istruttivi. Secondo il Base structure report - gli inventari (dal 2002 al 2005) delle proprietà immobiliari possedute nel mondo dal dipartimento della difesa - ci sono stati molti cambiamenti nel numero delle installazioni. Nel 2005 le basi militari americane all'estero erano 737. E a causa della presenza militare in Iraq e della strategia della guerra preventiva del presidente George W. Bush, il numero continua ad aumentare.

Un particolare interessante: nel 2005 i 38 impianti americani all'estero di grandi e medie dimensioni, soprattutto basi navali e aeree, corrispondevano con una differenza minima alle 36 basi navali e guarnigioni militari degli inglesi all'apice della loro potenza coloniale nel 1898. All'epoca del suo massimo splendore, nel 117 dC, l'impero romano aveva predisposto 37 grandi basi per pattugliare il suo immenso territorio, dalla Britannia all'Egitto, dall'Hispania all'Armenia. Forse il numero ideale di roccaforti e capisaldi per il paese imperialista deciso a dominare il mondo si aggira tra 34 e 40. Partendo dai dati dell'anno fiscale 2005, i burocrati del Pentagono hanno calcolato che le basi militari all'estero valgono come minimo 127 miliardi di dollari (una cifra sicuramente troppo bassa, ma pur sempre superiore al pil di molti paesi). Prendendo in considerazione le basi sul territorio nazionale il valore sale a 658,1 miliardi di dollari. Il dipartimento della difesa giudica il "valore" di una base calcolando quanto costerebbe sostituirla.

Nel 2005 gli alti comandi militari hanno destinato alle basi all'estero 196.975 uomini in uniforme, accompagnati da altrettanti familiari e funzionari civili del dipartimento della difesa. Inoltre hanno assunto sul posto 81.425 persone. Nel 2005 il personale militare americano dislocato in tutto il mondo, compreso quello in patria, era di 1.840.062 unità, oltre a 473.306 funzionari del dipartimento della difesa e 203.328 dipendenti stranieri. Nelle basi oltreoceano, secondo il Pentagono, c'erano 32.327 baracche, hangar, ospedali e altri edifici di proprietà, mentre quelli in affitto erano più di 16.527.
Le dimensioni di questi impianti sono state registrate nell'inventario: 2.781 chilometri quadrati all'estero e 120.675 chilometri quadrati in tutto. È evidente che il Pentagono può considerarsi uno dei più grandi proprietari terrieri del mondo.

Questi numeri, benché impressionanti, non tengono conto di tutte le basi effettivamente occupate dagli Stati Uniti. Il Base structure report del 2005, per esempio, non fa parola delle guarnigioni nella provincia autonoma del Kosovo, anche se qui si trova l'immenso Camp bondsteel, costruito nel 1999 e gestito dalla Kbr corporation (già conosciuta come Kellogg Brown & Root), una filiale della Halliburton corporation di Houston. Il rapporto omette anche le basi in Afghanistan, in Iraq (106 guarnigioni nel maggio del 2005), in Israele, in Kirghizistan, in Qatar e in Uzbekistan, anche se dopo l'11 settembre gli Stati Uniti hanno impiantato basi colossali nel golfo Persico e nell'Asia centrale.

Come scusa, una nota nella prefazione specifica che dal rapporto sono stati esclusi "gli impianti forniti da altre nazioni all'estero", anche se non è esattamente così. Il rapporto non comprende le venti installazioni in Turchia, tutte di proprietà del governo turco e usate congiuntamente con gli americani. Il Pentagono omette inoltre dal suo resoconto gran parte delle strutture militari e di spionaggio situate in Gran Bretagna, del valore di 5 miliardi di dollari, che sono state camuffate da basi dell'aeronautica militare del Regno Unito. Se ci fosse una stima veritiera, l'impero militare statunitense supererebbe le mille basi all'estero. Ma nessuno, e forse nemmeno il Pentagono, ne conosce il numero esatto.

In alcuni casi sono stati i paesi stranieri a tenere segrete le loro basi Usa, temendo ripercussioni imbarazzanti se fosse venuta a galla la loro complicità con l'imperialismo americano. In altri casi il Pentagono ha sminuito l'importanza della costruzione di impianti destinati a gestire le fonti energetiche oppure, come in Iraq, ha conservato una rete di basi per mantenere l'egemonia sul paese, qualunque sia il futuro governo iracheno. Washington cerca di non divulgare nessuna informazione sulle basi che usa per intercettare le comunicazioni globali né sugli arsenali e sui depositi di armamenti nucleari. Come sostiene William Arkin, esperto di questioni militari, "gli Stati Uniti hanno mentito a molti dei loro più stretti alleati, perfino all'interno della Nato, sui loro progetti nucleari. Decine di migliaia di testate nucleari, centinaia di basi, decine di navi e sottomarini vivono in un mondo segreto, senza nessun ragionevole motivo tattico".

In Giordania, per limitarci a un solo esempio, Washington ha dislocato cinquemila soldati in varie basi lungo il confine con l'Iraq e la Siria. La Giordania ha anche collaborato agli "interrogatori" dei prigionieri catturati dalla Cia. E malgrado tutto continua a sostenere di non avere nessun accordo particolare con gli Stati Uniti, e che sul suo territorio non c'è nessuna base e nessun tipo di presenza militare americana. Il paese è formalmente sovrano ma in realtà è un satellite degli Stati Uniti, e lo è da almeno dieci anni. Allo stesso modo, prima di ritirarsi dall'Arabia Saudita nel 2003, Washington ha sempre negato che a Jeddah ci fossero i suoi enormi bombardieri B-52, perché così voleva il governo di Riyadh.

Fino a quando i burocrati militari continueranno a imporre la cultura del segreto per proteggersi, nessuno conoscerà le vere dimensioni delle basi militari statunitensi, e meno di tutti i politici democraticamente eletti.
Nel 2005 ci sono state molte variazioni nello spiegamento militare in patria e all'estero. La causa è stata una serie di cambiamenti strategici necessari per conservare il dominio globale e chiudere le basi in esubero in patria. In realtà molti di questi cambiamenti dipendono dall'intenzione dell'amministrazion

e Bush di punire i paesi - e gli stati all'interno della federazione americana - che non hanno appoggiato l'intervento in Iraq, e di premiare chi lo ha sostenuto. Così le basi negli Stati Uniti sono state spostate nel sud.

Negli stati meridionali, sostiene il quotidiano The Christian Science Monitor, "c'è più sintonia con le tradizioni marziali" rispetto al nordest, al midwest o alla costa del Pacifico. Secondo un imprenditore del North Carolina, soddisfatto dei suoi nuovi clienti, "i militari vanno dove hanno più sostegno".
In parte il trasferimento dipende dalla decisione del Pentagono di far rientrare entro il 2007 o il 2008 due divisioni - la prima corazzata e la prima di fanteria - dalla Germania e una brigata di 3.500 uomini della seconda divisione di fanteria dalla Corea del Sud.

Oggi per via della guerra in Iraq, gran parte delle forze militari è stanziata all'estero, gli impianti in patria non sono pronti per accoglierle e non sono stati destinati fondi sufficienti a questo scopo. Prima o poi, però, più di 70mila soldati e centomila loro familiari dovranno trovare alloggio negli Stati Uniti. Il programma di chiusura delle basi avviato nel 2005 era in realtà un programma di consolidamento e di allargamento, con un enorme afflusso di finanziamenti e di fornitori dirottati verso poche zone chiave.

Al tempo stesso l'apparente riduzione della presenza dell'impero all'estero è in realtà una crescita esponenziale di un nuovo tipo di basi - senza familiari e senza le strutture a loro destinate - situate nelle aree più remote, dove finora non c'è mai stata una presenza militare statunitense. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, nel 1991, era chiaro che l'alta concentrazione di forze militari americane in Germania, Italia, Giappone e Corea del Sud non era più essenziale per far fronte a eventuali minacce: non ci sarebbero più state guerre con l'Urss né con altri paesi di quell'area.

L'amministrazione di George Bush senior avrebbe dovuto cominciare a disarmare o a trasferire le forze militari in esubero. Più tardi Bill Clinton chiuse varie basi in Germania, nella zona di Fulda, che un tempo si pensava fosse la via più probabile per un'invasione sovietica dell'Europa. In quegli anni, però, il governo non ha fatto niente di concreto per pianificare il riposizionamento strategico dei militari statunitensi all'estero.

Alla fine degli anni novanta i neocon misero a punto teorie grandiose per promuovere apertamente l'imperialismo della "superpotenza unica": azioni militari preventive unilaterali, la diffusione della democrazia all'estero con le armi, l'eventualità di ostacolare l'emergere di qualsiasi paese o blocco di paesi "quasi alla pari" in grado di sfidare la supremazia militare americana e un Medio Oriente "democratico" che avrebbe rifornito gli Usa di tutto il petrolio di cui avevano bisogno.

Un elemento di questo immenso progetto era il riposizionamento e l'ottimizzazione delle forze armate. Era inoltre previsto un programma per trasformare l'esercito in una forza militare più leggera, agile e ad alta tecnologia: grazie a questa mossa, secondo le previsioni, si sarebbero liberati dei fondi consistenti da investire in operazioni di polizia globale.
Della cosiddetta "trasformazione della difesa" si era parlato all'inizio durante la campagna elettorale del 2000. Poi ci sono stati gli attentati dell'11 settembre e le guerre in Iraq e in Afghanistan. Nell'agosto del 2002, quando i disegni neocon sono stati messi in atto, si puntava a una guerra lampo per incorporare l'Iraq nell'impero.

In questo periodo i funzionari civili del Pentagono si mostravano pericolosamente sicuri di sé per gli eccellenti risultati dell'esercito americano nella campagna del 2001 contro i taliban e Al Qaeda: era una strategia finalizzata a riaccendere la guerra civile afgana finanziando i signori della guerra dell'Alleanza del nord e usando l'aviazione per appoggiare l'avanzata verso Kabul. Nell'agosto del 2002 l'allora ministro della difesa Donald Rumsfeld svelò la "strategia difensiva 1-4-2-1" che gli avrebbe consentito di combattere due guerre nello stesso tempo, in Medio Oriente e nel nordest asiatico.

Gli strateghi si preparavano a difendere gli Stati Uniti schierando forze in grado di scoraggiare le aggressioni e gli attacchi in quattro regioni critiche: l'Europa, il nordest asiatico (Corea del Sud e Giappone), l'Asia orientale (lo stretto di Taiwan) e il Medio Oriente. Queste forze dovevano essere in grado di resistere in due di queste regioni contemporaneamente e di riportare "una vittoria decisiva" (cioè un cambiamento di regime e l'occupazione) in uno dei conflitti. Come ha affermato William Arkin, "con le forze militari statunitensi già mobilitate al limite delle possibilità, la nuova strategia va al di là della semplice preparazione per reagire alle aggressioni. Sembra piuttosto un piano per andare a fare la guerra in altri paesi".

Nella primavera del 2003 la campagna militare, a prima vista facile e vittoriosa, contro le forze di Saddam Hussein ha confermato questi timori. L'esercito sembrava in grado di portare a termine qualunque compito gli fosse stato affidato. Inoltre il crollo del regime baathista a Baghdad ha incoraggiato il ministro della difesa Rumsfeld a penalizzare i paesi che si erano mostrati poco entusiasti dell'unilateralismo di Washington (Germania, Arabia Saudita, Corea del Sud e Turchia) e a premiare quelli che avevano sostenuto l'intervento in Iraq, tra cui alleati storici come il Giappone e l'Italia, ma anche paesi ex comunisti come la Polonia, la Romania e la Bulgaria.
È nato così il programma del ministero della difesa per la presenza globale integrata e la strategia delle basi, conosciuto ufficiosamente come Global posture review, revisione della posizione globale.

Bush ha accennato al programma per la prima volta il 21 novembre 2003, affermando che si impegnava a "riallineare la posizione globale" degli Stati Uniti. Ha ripetuto la frase, arricchendola di particolari, al convegno annuale dei veterani di guerra a Cincinnati il 16 agosto 2004. Poiché il discorso rientrava nell'ambito della campagna presidenziale del 2004, i suoi commenti non sono stati presi sul serio.

Mentre affermava di voler ridurre la presenza militare statunitense in Europa e in Asia di circa 70mila effettivi, il presidente sosteneva che per farlo ci sarebbero voluti dieci anni. Poi passava a una serie di promesse che suonavano più come un reclutamento che come una dichiarazione strategica: "Nel corso dei prossimi dieci anni metteremo in campo un esercito più agile e flessibile, in modo che una percentuale maggiore dei nostri soldati avrà la sua base in patria. Sposteremo parte delle truppe e degli impianti in nuove aree, in modo da poter reagire rapidamente per affrontare qualunque pericolo.
Questo contribuirà a ridurre lo stress dei nostri soldati e delle loro famiglie. Gli effettivi trascorreranno più tempo in patria e dovranno affrontare meno imprevisti e meno spostamenti nell'arco della loro carriera. Mogli e mariti dei nostri soldati non dovranno cambiare lavoro di continuo, avranno più stabilità e più tempo da dedicare ai figli e da passare a casa con la famiglia".

Il 23 settembre 2004 il ministro Rumsfeld rivelava i primi dettagli del progetto della commissione del senato per le forze armate. Con la sua solita enfasi esagerata, descriveva il piano come "la più grande ristrutturazione globale delle forze armate americane dal 1945". E citando l'allora sottosegretario Douglas Feith, aggiungeva: "Durante la guerra fredda sapevamo in partenza dove si annidavano i rischi e dove si sarebbero combattute le battaglie cruciali, e potevamo posizionare i nostri uomini in quelle aree. Oggi operiamo in modo completamente diverso. Dobbiamo essere in grado di svolgere qualunque tipo di operazione militare, dagli interventi armati a quelli per il mantenimento della pace, in ogni angolo del mondo e con estrema rapidità".

Sembra un ragionamento plausibile, ma si spalanca la porta a un immenso groviglio diplomatico e burocratico che gli strateghi di Rumsfeld avevano certamente sottovalutato. Per potersi espandere in nuove zone, i ministeri degli esteri e della difesa devono negoziare con i paesi stranieri un accordo specifico, il cosiddetto Status of forces agreement (Sofa).

Devono inoltre siglare molti protocolli d'intesa, come il diritto di accesso per i velivoli e le navi nelle acque territoriali e nei cieli stranieri. Inoltre devono ottenere la firma del cosiddetto Artide 98 agreement, basato sull'articolo 98 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. L'accordo consente di sottrarre i cittadini americani in territorio straniero dalla giurisdizione della Corte. Questi trattati di immunità sono stati creati con una legge statunitense del 2002 (l'American service members' protection act) per proteggere il personale militare all'estero. L'Unione europea, però, li considera illegali.

Gli altri accordi internazionali bilaterali indispensabili sono quelli di cooperazione nel settore militare tra Stati Uniti e forze della Nato, che riguardano il rifornimento e lo stoccaggio di carburante per gli aerei e le munizioni, i contratti di affitto per le proprietà immobiliari, gli accordi bilaterali di sostegno politico ed economico agli Stati Uniti (il cosiddetto sostegno della nazione-ospite), le disposizioni per le esercitazioni e l'addestramento (sono consentiti gli atterraggi notturni? E le esercitazioni di tiro con armi cariche?) e le responsabilità ambientali per l'inquinamento.

Quando gli Stati Uniti non sono presenti nei paesi stranieri come conquistatori o salvatori - come è accaduto in Germania, Giappone e Italia dopo la seconda guerra mondiale e in Corea del Sud dopo l'armistizio della guerra di Corea nel 1953 - è molto più difficile che riescano a ottenere quegli accordi che consentono al Pentagono di fare ciò che vuole, lasciando al paese ospite l'onere di pagare il conto. Quando non è basata sulla conquista, la struttura delle basi dell'impero americano finisce per apparire estremamente fragile.