Mondocane fuorilinea - 23/02/07
di Fulvio Grimaldi
A che genere di uomo appartengo? A quello che prova piacere
nell’essere confutato, se dice cosa non vera, e nel confutare se
qualcuno non dice il vero, e che, senza dubbio, accetta di essere
confutato con un piacere non minore di quello che prova confutando…
Niente, difatti, è per l’uomo un male tanto grande quanto una falsa
opinione sulle questioni di cui ora stiamo discutendo. Se, dunque,
anche tu sostieni di essere un uomo di questo genere, discutiamo pure;
altrimenti, se credi sia meglio smettere, lasciamo perdere e chiudiamo
il discorso.
(Platone, Gorgia,458)
Dalla fine dell’eurocolonialismo alla controffensiva del
colonialismo euro-israelo-statunitense
Furono i governi del compromesso storico e poi di Craxi che riaprirono
la vicenda del feroce colonialismo d’accatto italiano, sconfitto
insieme a quello europeo, dalle rivoluzioni nazionali, perlopiù laiche
e progressiste, in Asia, Africa, Medioriente. Cacciati da Etiopia,
Somalia, Eritrea, Libia, dove avevano compiuto efferatezze senza
uguali, prima occultate dalla cronaca e poi dalla storia sotto la
maschera degli “italiani brava gente”, col maresciallo Graziani che si
vantava con Mussolini delle esecuzioni sommarie di decine di migliaia
di abissini, gli interessi di rapina del nostro paese si ripresentarono
nel dopoguerra con appetiti insoddisfatti e con la nuova metodologia
del necolonialismo. Qui, anziché massacrare le popolazioni, al fine di
predarne le risorse, si usavano gli strumenti della corruzione delle
classi dirigenti, degli scambi ineguali, dei ricatti del debito, della
truffa degli “aiuti”. Truffa che raggiunse il culmine della sua
sfrontatezza con il famigerato FAI, Fondo Aiuti Italiani, nell’Italia
di Craxi, Margherita Boniver e del grande apostolo del FAI, Marco
Pannella.
Altri, più dotati e possenti lupi mannari si presentarono sulla
scena del Terzo Mondo, ex-colonizzato, con il procedere del Grande
Secolo delle rivoluzioni proletarie e nazionali. E l’Italia fu ben
presto ridotta al ruolo di comprimaria, se non di comparsa, o
addirittura, nella successiva fase militare, di portatore d’acqua in
forma di mercenariato. Quando l’accentuarsi della crisi ormai
strutturale del modo di produzione capitalistico, irrisolto dal
processo neocoloniale planetario detto globalizzazione, fece nuovamente
ricorrere le oligarchie occidentali allo strumento dell’aggressione
bellica, fatta passare come difesa da un terrorismo a questo scopo
autoprodotto, l’Italia, perfettamente bipartisan tra governi di
centrodestra e centrosinistra, si allineò con slancio, slancio
temperato da fanfaluche umanitarie, alla nuova fase della “guerra
preventiva, globale e permanente”. Dando così il suo non irrilevante
contributo, non solo ai genocidi di popoli e alla devastazione di paesi
e ecosistemi, ma alla corsa della specie umana verso l’apocalisse.
Naturalmente, ammantava il suo bellicismo da subalterno strutturale
delle candide vesti dei diritti umani e della pacificazione o
interposizione, con il paradossale alibi dell’attuazione dell’articolo
11 della Costituzione, comune all’intero arco parlamentare,
dall’ossimorico Bossi all’acrobatico giocoliere Bertinotti. Uno Stato
infanticida che esalta la Carta dell’Onu in difesa dei bambini.
Inviato di guerra di Paese Sera, prima, e di Lotta
Continua
poi, avevo frequentato e raccontato la vicenda mediorientale,
geostrategicamente da sempre una vicenda di espansionismo israeliano
finalizzato alla riconquista occidentale del mondo arabo, sostenuto
dagli USA e, con maggiore o minore entusiasmo, dall’Europa. Avevo
battuto le strade del Levante dalla Guerra dei Sei Giorni (1967)
all’epopea dei fedayin palestinesi, combattenti del popolo più
intensamente e più a lungo seviziato dei nostri tempi, prima
dell’olocausto iracheno, dal grande impeto della rinascita araba tra
Algeria e Iraq, alla cosiddetta guerra civile libanese (1975-1992),
alle guerre di liquidazione dell’Iraq, alle intifade palestinesi, fino
all’ennesima invasione israeliana del Libano e alla stupefacente
vittoria di Hezbollah.
Le sinistre: ascari e crocerossine tricolori
dell’imperialismo
In tutte queste imprese della rivincita colonialista, l’Italia non ha
mai rinunciato a fare la sua parte, una parte cogestita allegramente da
esponenti di ideologie solo apparentemente contrapposte e in ogni caso
mai rappresentative dei bisogni e dei diritti della maggioranza
subalterna (la famosa teoria dei “due fantini per lo stesso cavallo” di
Gore Vidal, i fantini intercambiabili essendo il Partito Democratico e
quello Repubblicano che gestiscono un identico sistema), a volte
affiancandosi a sterminatori dal cielo e a invasori e occupanti da
terra (Jugoslavia, Somalia, prima e seconda Guerra del Golfo), a volte
partecipando a embarghi genocidi (Cuba, Iraq e ancora Jugoslavia), a
volte occultando i suoi interventi predatori sotto le insegne dell’Onu.
Onu che non ha mai cessato di confermarsi, dalla Guerra di Corea ad
oggi, strumento collaborazionista delle avventure belliche
imperialiste, o autorizzandole, o conducendole, o legittimandole ex
ante o ex post. Così abbiamo potuto assistere all’indecoroso passaggio
delle sedicenti sinistre dall’opposizione alla guerra contro l’Iraq,
alla riluttanza, rassegnata se non benevolente, sulla guerra
all’Afghanistan, all’ardente complicità con l’intervento in Libano.
“Progressivi spostamenti del piacere”, fino alla totale identificazione
con le Ong, fatte passare per “società civile” o “movimento”, in un
coro di salmodianti umanitarismi, nel ricorrente assalto al banchetto
dei popoli devastati e affamati, vuoi apripista della colonizzazione
alla maniera dei missionari d’antan (e anche di oggi, vedi i frati
comboniani e i loro tentativi di riconquistare le posizioni di
controllo e reddito – istruzione, sanità, convivenza sociale – perdute
in Sudan con la sconfitta del colonialista britannico, suscitando e
strumentalizzando questioni etniche, confessionali e sociali), vuoi
vivandiere e furieri delle armate occupanti. In ogni caso portatrici di
corruzione, traffici immondi (vedi i commerci criminali in Kosovo),
alienazione, dipendenza.
Cosa rimarrebbe delle Ong e del loro ben retribuito “volontariato”
se non ci fossero le guerre? E’ come la celebrata e opportunamente
sepolta Tobin tax, con cui Attac, generosamente finanziata dalle
fondazioni neocon Usa, intendeva tassare con qualcosa come uno 0,1% le
transazioni finanziarie, per poi convogliare i ricavi ai “poveri del
Terzo Mondo”. Alibi ai vampiri della speculazione, incentivo al loro
parassitismo.
I media: occultare il progetto strategico frantumandolo in
episodi
L’essere stato molte volte sul posto facilita la percezione del disegno
strategico che colloca in un unico, ininterrotto progetto di guerra di
classe gli apparentemente sconnessi episodi bellici degli ultimi
cinquant’anni. Guerra di classe che gli aggrediti subiscono, i loro
rappresentanti istituzionali negano e le elite conducono, travestendola
via via da guerra al terrorismo, alle dittature, per i diritti umani, o
da scontri etnico-confessionali. Quando mi trovavo a riferire dal
Libano sul conflitto interno scoppiato nel 1975 e poi risolto
dall’invasione israeliana del 1982, prima che il neonato movimento
Hezbollah cacciasse occupanti e loro fantocci dal Sudlibano, non c’era
voce mediatica che non parlasse di “guerra civile”: stronzi gli uni e
stronzi, magari un po’ meno, gli altri. E tale quello scontro,
replicato con gli stessi soggetti a partire dal 2006 (la storia non si
ripete?), viene universalmente definito ancora oggi. Ciò cui ho
assistito, per mesi e anni, tra sparatorie tra milizie cristiane dei
detentori del potere (i clan Gemayel e Chamoun) e sterminatrici
incursioni israeliane contro la popolazione contadina del Sud, era con
ogni evidenza il più classico conflitto di classe. Conflitto tra
un’oligarchia proconsolare cristiano-maronita, installata al potere dai
colonialisti francesi in ritirata e poi alleata dell’aggressore
israeliano, e una massa di diseredati storici, musulmani, a cui
l’afflusso dei politicizzati e militanti profughi palestinesi, cacciati
dalla Giordania nel Settembre Nero, aveva portato un messaggio di
diritti, lotta e liberazione.
Conflitto di classe che, allora come oggi, sarebbe stato perso dai
ceti dominanti se in loro soccorso – anche allora sotto la foglia di
fico Onu – non fosse accorsa prima Israele, poi la “comunità
internazionale” (marines, francesi e bersaglieri) e infine di nuovo
Israele. E’ significativa, per scoprire gli intenti occultati dal
solito “intervento umanitario e di separazione dei contendenti”, la
conclusione di quell’intervento. I contingenti “di pacificazione”
impongono ai militanti palestinesi guidati da Arafat, di abbandonare il
paese e trasferirsi in esilio in Tunisia e Yemen. Come dettato da Usa e
Israele. Pretendendo di fidarsi delle assicurazioni israeliane e delle
destre fasciste, secondo cui neanche un capello sarebbe stato torto ai
palestinesi nei campi profughi, ormai solo donne, anziani e bambini
privati di ogni difesa, i governi della “comunità internazionale”
ritirano i propri contingenti, solo per assistere da lontano alla
terrificante strage di inermi a Sabra e Shatila, perpetrata dai
falangisti dell’ora redivivo Geagea, sotto la supervisione e con
l’appoggio logistico di Ariel Sharon. Non è forse la procedura che si
pratica quando si tratta delle guerre coloniali e capitaliste con le
quali, oltre alla conquista di posizioni geostrategiche e di risorse,
si tratta di eliminare modelli sociali più equi, divergenti dal
pensiero unico di un protocapitalismo di ritorno, detto liberista ma
più feroce che mai? Vietnam, Jugoslavia, Iraq, Cuba, i governi
progressisti post-coloniali in Asia, America Latina e Africa, paesi dai
diritti sociali posti in cima alle priorità e tutti decapitati da golpe
e eversioni pianificate al Pentagono e al Dipartimento di Stato nel
nome del pensiero unico.
Nel nome della croce
Il non esserci stati non giustifica il trattamento dissociato con il
quale la stragrande maggioranza dei giornalisti italiani presenta
questi episodi alla pubblica opinione. Raramente si tratta di
ignoranza, o pigrizia. Un
trattamento che, in coloro che invece c’erano e hanno potuto seguire lo
snocciolarsi del rosario della riconquista coloniale e dell’assedio
Usa-occidentale ai potenziali rivali cinese e russo, è
inequivocabilmente segnato da conformismo e malafede, dalla
narcotizzazione della propria conoscenza e dalla vendita della propria
coscienza. Sono mille anni che l’Occidente cristiano si avventa sulle
ricchezze altrui e sulle vie di comunicazione e di scambio che
consentono il controllo economico, politico e militare su segmenti
determinanti del pianeta. Sono mille anni che nei territori oggi al
centro degli interessi occidentali, dove al valore delle rotte e delle
posizioni strategiche si è aggiunto quello ancora più vitale del
petrolio, gli europei, oggi non più protagonisti, ma forze di rincalzo
al seguito di statunitensi e israeliani, compiono stragi orrende e
praticano la rapina con scasso e la distruzione. Prima all’insegna
della croce, quindi della civiltà e del progresso, finalmente della
democrazia, dei diritti umani e, di nuovo, della croce. Chiunque non
evidenzi, nella sua comunicazione, l’intreccio in un unico progetto
delle conquiste del Santo Sepolcro con lo sterminio dei nativi
d’America e con la spedizione dell’Unifil in Libano nel 2006, ciurla
nel manico, o obbedisce alle veline del Pentagono e del Mossad, in
rappresentanza di oligarchie che, salvo gli scossoni del 1789 in
Francia e del 1917 in Russia, non ha mai deflettuto dalla facile
costruzione delle proprie ricchezze e del proprio sviluppo sulla pelle
di classi lavoratrici domestiche da sfruttare e di popoli da
espropriare e, come nel caso di Iraq e Palestina, da sfoltire
drasticamente. Dove c’è petrolio, non c’è bisogno di gente. E allora
vai con l’uranio.. Il non connettere le tessere del mosaico, ma
l’esibirle isolate e distanti l’una dall’altra, non ci fa capire nulla
e ci costringe a reazioni imprecise, limitate, contingenti, inefficaci.
Così, un pur vasto e motivato movimento pacifista, con la sua parte più
dinamica che preferisce definirsi antiguerra, ed è quindi
necessariamente antimperialista, si muove contro le spedizioni
mercenarie in Iraq e Afghanistan, ma attenua l’opposizione a
quest’ultima, pure omologa a quella irachena, con la necessità
dell’aiuto umanitario e dell’evoluzione culturale e sociale. Tocca
liberare le donne dal burka (dimenticando che le donne il burka se
l’erano già tolto quando, negli anni ’80, lì c’era un governo
comunista, poi buttato giù da pretoni fanatici ammaestrati e armati
dagli Usa). E addirittura, nella sua stragrande maggioranza, esclusa
qualche nicchia antagonista e qualche sindacato di base con in testa i
sempre più pronti e lucidi Cobas, sostiene, in coro con le Sinistre di
governo, la partecipazione alla normalizzazione coloniale del Libano,
dipinta di blu Onu, e si dichiara disposta a sostenere anche la
frantumazione e ricolonizzazione del neo-petrolifero Sudan. Sudan
regolarmente satanizzato con l’ennesima truffa umanitaria del Darfur,
ovviamente innescata dal Nord del mondo, con metodologia solo
meccanicamente diversa dagli attentati dell’11settembre, da Pearl
Harbour, Golfo del Tonchino, “strage di Racak” in Kosovo, “massacri del
mercato” di Sarajevo, “armi di distruzione di massa” di Saddam.
Una politica estera “nuova”?
Mentre il governo Prodi-D’Alema-Rutelli-Bertinotti, assegnandosi un
ritiro dall’Iraq già deciso dal suo predecessore, proclama una “nuova
politica estera” inghirlandata di conferenze di pace e di
multilateralismo, in realtà pratica, insieme all’opposizione di destra
e dei padrini Usa e Israeliano, il più fervido unilateralismo.
Unilateralismo bipartisan all’italiana, pronube un capo dello Stato
inciucista e patriottardo, e che va dall’intesa per quella nuova legge
elettorale che annulli la democrazia sostanziale con il sistema
maggioritario e le liste blindate dai gerarchi, al comune trasporto
colonialista ovunque l’impero ordini che si vada a guerreggiare e
occupare. Il sostegno mediatico a questa politica è formidabile e
nuovamente unipolare. Alle cannoniere delle lobby sioniste-atlantiche
dei Lerner, Ferrara, Deaglio, Paolo Mieli, Mimun, Riotta, Feltri,
Repubblica, La Stampa e supplenti vari annidati a sinistra, del
sion-miracolato ex-lottacontinuista Adriano Sofri, si aggregano,
issando vessilli arcobaleno (si ricordi il sublime Bertinotti che,
schierato alla parata militare recuperata dal governo Prodi, pensa di
nascondersi dietro una spilletta della pace!), i corifei
dell’umanitario. Ed è tutto un fiorire di mille cavolate, dalla
“riduzione del danno”, a forza di battaglioni frammezzati a
cooperanti”, fino ai disinvolti collateralisti, ma pacifisti al
tungsteno, tipo Lidia Menapace (ribattezzata acutamente “Menaguerra”),
Acli, Arci, Flavio Lotti della Tavola della Pace e rifondaroli vari,
dissidenti compresi.
Mi pare che in tutto questo si manifesti soprattutto un degrado,
oltrechè politico, morale e culturale, la cui massima espressione
rischia di diventare un carattere nazionale: l’impudicizia. Che, come
tante virtù e tanti difetti, per sua natura discende per li rami
dell’albero comportamentale e cala dall’euforico mescolarsi dei
politici da “torta in faccia”, alla vipperia televisiva di seconda e
terza fila, all’esibizione a sconosciuti dei propri affari privati con
il cellulare (“Amici” insegna), all’orrendo abuso di bambini, istigati
da irresponsabili genitori e da pubblicitari tanto beoti quanto cinici
alla menzogna e alla frode, in spot pubblicitari per merendine e
spazzatura varia.
A ogni Vicenza un covo terrorista
Il 17 febbraio 2007 un popolo escluso e vilipeso, classico “volgo
disperso che nome non ha”, si è ripreso nome e spazi marciando contro
la trasformazione della città palladiana di Vicenza, con il Dal Molin
d’assalto, in base-lupanare Usa per un Settimo Cavalleggeri da
ripetizione perenne e globale del genocidio indiano. La risposta del
capo del governo è stata, con tono farfugliante ma tocco mussoliniano,
“La base si fa e basta”. Mancava che irrigidisse la mascella e
proclamasse “noi tireremo dritto”. E se non ha ripetuto “Roma ha da
oggi il suo impero”, è forse solo perché il rapporto di subordinazione
agli Usa e Israele sta all’asse Roma-Berlino come quello tra Napoleone
e un suo qualsivoglia ussaro sta alla coppia Bertinotti-Giordano.
Essendo poi oggi politica estera e politica interna inscindibilmente
intrecciate nella mondializzazione economico-diplomatico-militare, ecco
che dai centocinquantamila manifestanti rimossi di Vicenza, avanguardia
di una popolazione, considerata scema ma che per oltre il 60% respinge
anche l’intervento “di pace” in Libano, si estrae lo spunto per l’ormai
stancamente reiterato rito dell’accostamento tra contestatori della
guerra e del potere e una rete di nuovi micidiali brigatisti rossi (10
pagine sul Corriere della Sera), tempestivamente scoperta alla vigilia
della manifestazione. Così lo Stato, in rapido scivolamento
autoritario, riafferma la contiguità tra conflitto sociale o pacifista
e terrorismo, tra sindacati (che prontamente si ritraggono come
spaventate tartarughe nel guscio) e bombaroli, tra protesta e violenza.
Mentre gli equilibristi della “sinistra radicale” oscillano, sgraziati
e affannati, nello sforzo, come scrivono i Cobas, di tenere i piedi
nelle due staffe di cavalli che corrono in direzione opposta. Tutto
questo è, con chiara evidenza, l’applicazione interna dell’uso che i
mandanti delle guerre proprie e altrui fanno a livello internazionale
quando collocano ordigni stragisti a giustificazione di aggressioni e
repressioni, o quando, con penosa ripetitività, fanno emergere un Bin
Laden (defunto nel 2001), un Al Zawahiri, un Al Zarkawi (ucciso dalle
bombe in Kurdistan nel 2003), o un altro prodigio Al Qaida quando
fallimenti, sconfitte, scandali, proteste di massa, infilano qualche
bastone nella ruota del loro planeticidio. La tragedia è che, a
dispetto di quarant’anni di stragi di Stato, della progressiva
disintegrazione del teorema del “terrorismo islamico”, dell’infinita
storia delle provocazioni e infiltrazioni di regime, specie nei momenti
più acuti dell’antagonismo sociale e antiguerra, tantissima brava gente
continua ad abboccare come pesci alla scintillante esca assassina. E
qui grande è la responsabilità di coloro ai quali i non decerebrati
dall’intossicazione di massa vorrebbero ricorrere per almeno squarci di
informazione seria e onesta. Non ha mandato “il manifesto” Giuliana
Sgrena a pompare il ruolo della nostra cooperazione all’ombra dei
lagunari S.Marco, senza un accenno al drammatico conflitto politico e
sociale in corso in Libano e al ruolo effettivo dell’Italia nel
sostegno alla parte sbagliata? Non è stata capace la giornalista rapita
in Iraq – e dalla quale tuttora ci attendiamo qualche verità sul famoso
“quarto uomo” che tutti davano per presente nella macchina con Calipari
al momento dell’imboscata Usa – di scrivere ben due articoli
dall’Afghanistan citando, dei suoi intervistati, esclusivamente coloro,
tra gli afgani, che auspicavano la permanenza delle truppe occupanti,
seppure addolcite da una panoplia cooperante, a fini “della nostra
sicurezza”? Non convalida “il manifesto” perennemente il paradigma
israelo-atlantico di Al Qaida, dando al mostro virtuale creato nei
laboratori Cia di Langley la patente di un’autentica, seppure
criminale, espressione della collera araba e musulmana? Non oppone “il
manifesto” alla dilagante presa di coscienza sulla sbrindellata
versione ufficiale dell’11 settembre, portata avanti da un esercito di
scienziati, tecnici, testimoni, sopravvissuti, congiunti, bordate di
accuse di “complottiamo” e “paranoica dietrologia”?
Da Gladio all’Unifil
E’ l’Italia di Gladio, della P2, delle BR infiltrate dai servizi
occidentali, della strategia della tensione ricavata dai manuali di
controinsurrezione Usa degli anni ’50, di Ustica, del fucilatore di
Calipari, Lozano, della Moby Prince incenerita mentre copriva trasbordi
di armamenti Usa, del Cermis impunito e sbeffeggiato, dei voli pirata
della Cia, di Abu Omar sequestrato e torturato, delle basi Usa e Nato
che sfregiano tutto il paese, delle 90 e passa bombe nucleari
statunitensi (ognuna 12 volte quella di Hiroshima), dei 45 militari
italiani uccisi dall’uranio dei nostri alleati e dei quasi 600 che
rischiano di seguirli, senza contare le decine di migliaia di civili e
generazioni successive nei paesi dai noi “liberati”, è questa l’Italia
che si è imbarcata per il Libano. E l’Italia che, con la “nuova
politica estera” del premiato bombardiere jugoslavo, D’Alema, aumenta
del 13% le spese militari, acquista i più funesti cacciabombardieri
Usa, F-35, e taglia scuole, sanità, pensioni, ricerca, ambiente: 22
miliardi di euro (da raddoppiare in corso d’opera) per lo squarcio
della TAV da viaggi manageriali, mentre l’Alitalia di un presidente
bancarottiere viene fatta annegare in un miliardo di debiti per poterla
vendere sottocosto agli amici. Un’Italia benedetta da Bush e Olmert,
nonché dal loro famiglio, Fuad Siniora, premier del Libano, imbarcata a
esecuzione di una risoluzione Onu 1701 che, oltre ad attribuire
l’inizio di una guerra, discussa e preparata tra Washington e Tel Aviv
da almeno due anni, al falso della cattura di soldati di Tsahal in
territorio israeliano, ordina il disarmo di Hezbollah e dei militanti
palestinesi. E questo nel momento in cui gli Usa mettono in piedi una
superarmata guardia pretoriana per Siniora e israeliani neo-Nato e
tedeschi pattugliano congiunti le acque territoriali “sovrane” del
Libano. Il quadro mediorientale è da mezzo secolo segnato dalla
strategia di Israele e Usa (tra i quali non è facile indicare chi tenga
in mano il joy-stick) finalizzata a impedire la rinascita della nazione
araba e, anzi, a frantumare gli Stati esistenti in irrilevanti e
impotenti particolarità etnico-confessionali. Ne parleremo più
diffusamente esaminando, nel capitolo Iraq, i dossier dei vertici
israeliani che illustrano tale strategia fin dagli anni ’80. In questo
scenario, che già vede Usa e Israele saldamente installati, gli uni in
tutto Iraq e negli Stati-clienti tra Marocco e emirati del Golfo, e gli
altri soprattutto in quel Kurdistan iracheno, gestito da Jalal Talabani
(ora incredibilmente presidente iracheno) e Massud Barzani, due signori
della guerra narcotrafficanti, donde, con la riattivazione
dell’oleodotto Kirkuk-Haifa, a suo tempo negata da Saddam Hussein a
Rumsfeld (1982), Israele conta di risolvere la sua pesantissima carenza
di combustibile. E’ chiaramente alla luce di questo piano per il
cosiddetto “Nuovo Medio Oriente” che ai due lati del blocco
continentale tra Mediterraneo e Oceano Indiano si è andata ammassando,
a partire dal pretesto libanese, la più grande armata aeronavale
costituitasi dalla Seconda Guerra Mondiale. Per disarmare Hezbollah e
difendere il quisling libanese? Sarebbe come lanciare un Tomahawk sul
baracchino di datteri della Corniche beirutina. In previsione dello
scontro decisivo con l’Iran, con il quale attualmente prevale il
coordinamento per lo squartamento dell’Iraq e la liquidazione della
Resistenza, la tenaglia è pronta a chiudersi da un lato sulla Siria,
dall’altro sulla Somalia, se ascari etiopici e governanti fantocci non
ce la facessero a domare il paese. Senza contare che dall’Oceano
Indiano, straripante di portaerei e di mezzi da sbarco, è cosa da poco
arrivare sia in Afghanistan, sia in Sudan.
Ricordare Stefano Chiarini, ascoltare Gianni Vattimo
Nel “manifesto”, all’insostituibile rivelatore delle verità
mediorientali, Stefano Chiarini, si è andata sostituendo Giuliana
Sgrena. Sarà difficile sapere dall’unico organo d’informazione cartaceo
che salvaguarda spazi di critica, come vanno le cose in Medio Oriente.
Verremo bersagliati da “terrorismi”, “integralismi”, vittimismi,
pietismi e tutti i cliché dell’armamentario propagandistico
dell’eurocentrismo. Spunteranno coloro che, come l’ex-direttore,
Barenghi, poi conseguentemente reclutato da La Stampa, sentenzieranno
che “sono meglio i marines dei tagliatori di testa” (trascurando che
entrambi escono dalla stessa covata). Sarà una gran nebbia. Dovremo
affannarci a trovare fonti alternative come, del resto, Internet ce ne
offre in valida quantità. Dopo la grande dimostrazione di forza di
Vicenza, che in qualche modo riunisce in un tessuto di resistenza le
ormai derappresentate e autonome sofferenze e lotte di cittadinanze
aggredite da uno “sviluppo” tanto autoritario quanto necrogeno, è
risultato evidente che, a esclusione di un ceto politico e
imprenditoriale autoperpetuantesi in forme apparentemente diverse,
bicefale, la maggioranza degli italiani, consapevoli o rincitrulliti, è
stata privata della parola. Si sono chiusi i canali attraverso i quali
le varie espressioni della volontà popolare, nella tanto celebrata ma
ormai accantonata democrazia rappresentativa, prendevano corpo nella
dialettica e nel processo decisionale politico e parlamentare. Visto
che, come insiste Gianni Vattimo (vedi il suo libro “Ecce Comu”), il
nostro “continente è troppo stanco…il vero proletariato mondiale che
potrà cambiare il mondo è quello del Terzo Mondo…”, l’impegno dei
volenterosi dovrebbe essere sostenere quel proletariato d’oltremare. La
globalizzazione imperialista ha unito in misura indissolubile il suo
destino al nostro. E quell’impegno è inevitabilmente la lotta di massa
contro la guerra e, in primis, la lotta per una vera informazione.
Soprattutto su quello che vogliono farci passare per nostro nemico.
La settimana dei miracoli
I miracoli di una settimana epocale li ha sintetizzati il solito, acuto
e vetriolico vignettista Vauro con una vignetta che, all’indomani della
caduta del governo sulla politica estera atlantico-israelo-continuista
di Massimo D’Alema, a un Prodi tutto ammaccato metteva in bocca il
fumetto veni, vidi…Vicenza! Il messaggio era chiaro: se il governo
della guerra all’Afghanistan, della spedizione coloniale in Libano,
delle basi Usa e italiane (Nato) moltiplicate da Vicenza a Sigonella,
da Aviano a Taranto, da Camp Darby a Quirra e alla Maddalena (dove il
governatore Soru, cacciati gli Usa, s’è visto installare la marina
italiana), dell’acquisto di bombardieri nucleari, dell’aumento
esponenziale delle spese militari, al Senato è andato sotto, nonostante
i voltagabbana girellisti della “dissidenza” bertinottiana, se almeno
due senatori (PRC e Comunisti-Verdi) non se la sono sentita di avallare
ulteriori carneficine mascherate da pacificazione, il massimo merito va
a quel movimento che a Vicenza, il 17 febbraio, appena quattro giorni
prima, aveva lanciato al mondo il NO della stragrande maggioranza degli
italiani. Coloro che non si sono fatti blandire dalla “nuova politica
estera” di uno sprezzante ometto con i baffi e la barca, che aveva
disinvoltamente bombardato e frantumato la Jugoslavia, intessuto
rapporti amorosi con la peggiore feccia guerrafondaia spuntata in
America dai tempi di Cortez e Pizarro - prima l’Albright, poi
Condoleezza, pensate che gusti! - sostenuto l’espansione della Nato a
detrimento della sovranità e incolumità dei popoli di mezzo mondo, da
Vicenza avevano ricavato quel di più di spina dorsale che gli ha
permesso di resistere all’eterno ricatto del “peggio a venire”, nel
nome del quale storicamente si fa passare il peggio del peggio. E’ vero
che alla caduta di Prodi hanno contribuito astenendosi, con intenti
opposti agli antiguerra, tre senatori a vita, immarcescibili arnesi
della Prima Repubblica democristiana, scampati a Manipulite e a quelli
che sarebbero stati, in altri tempi, i tribunali del popolo. Tre
reperti da sempre impegnati (ora con Rutelli e Casini) a ricostituire
l’assetto parrocchial-atlantico della celebrata greppia dei
forchettoni, magari passando sui cadaveri di Moro, Giorgiana Masi,
Francesco Lo Russo e dello stesso Berlinguer morto di crepacuore, pur
sotto “l’ombrello Nato” da lui preferito. Andreotti per il Vaticano (e
per la mafia?), Cossiga per massoneria, Gladio, P2, per i servizi
israelo-atlantici, conclamati amici suoi, e per chi più ne trova negli
istituti di criminologia, più ne metta, Pininfarina per la
Confindustria e il suo ricupero del padronato delle ferriere. Tutti e
tre con la benevola istigazione dell’alto sacerdote dell’inciucio
perpetuo, il già paradossalmente battezzato “migliorista” che conciona
dal Quirinale. Nel breve periodo, l’avranno vinta. Però la nebbia si è
diradata e il confronto – padroni-tutti gli altri – è meno ambiguo di
quando si erano messi di mezzo i cerchiobiottisti di una sinistra
rinnegata e opportunista, in ansia bulimica di potere costi quel che
costi. Pure qualche centinaio di migliaia di ammazzati in giro per il
mondo.
I prodromi alla Al Qaida
Ce l’aveva messa tutta, berlusconianamente e bushianamente, il governo
di centrosinistra per neutralizzare il primo miracolo, l’esplosione di
popolo a Vicenza, ben conscio che ne sarebbe seguito il secondo, quando
almeno due parlamentari di questa repubblica dell’inciucio ontologico e
del servilismo cronico e coatto si sarebbero rifiutati di assumere
sulla propria coscienza altre decine di migliaia di corpi sminuzzati
dai bombardieri e dai torturatori del nuovo colonialismo. La manovra
partiva da lontano, dagli stadi, l’ambiente più facile da provocare e
criminalizzare. I fatti di Catania, con la morte di un ispettore di
Polizia, secondo i più attenti causati, non dall’invisibile sprangata
di un tifoso, ma da un candelotto lacrimogeno generatore esattamente
delle misure e degli effetti riscontrati nell’autopsia, avevano dato il
via alla demonizzazione delle folle arrabbiate in generale e dei
giovani in particolare. Soprattutto avevano agevolato il passaggio
delle solite misure d’emergenza, destinate alla repressione sociale
della prevedibile insubordinazione degli sfruttati, che dal Reale degli
anni ’70 al Pisanu del G8 di Genova e all’Amato degli allarmi
terroristici, aveva visto ministri degli interni soddisfare la
richiesta delle classi dirigenti di predisporre gogne e ceppi per chi
si azzardava addirittura soltanto a praticare un “linguaggio violento”.
La trionfante Austerlitz dei marescialli Prodi-Amato, che avrebbe
dovuto condurre alla Waterloo del movimento, venne poi con la vicenda,
puntuale come le balsamiche emersioni di Al Qaida nei frangenti delle
tempeste su Bush, con la menzionata scoperta della rete di nuovi
brigatisti rossi, con l’ampiamente sospetto cretino proclamatosi
“prigioniero politico”, con la criminalizzazione di pezzi di sindacato
non addomesticati, con l’arresto di quattro pacifici militanti perché,
usando appunto “linguaggio violento” (terrorista è chi bombarda),
affiggevano manifesti contro quell’operazione tipo Valpreda. Una storia
italiana, con la ripetitività e l’ottusità delle commedie all’italiana
edizione Banfi o Boldi.
Quanto misurasse la distanza tra governanti e governati, dopo appena
nove mesi di delusioni sparse ininterrottamente da un regime
antipopolare, prono a Confindustria, alla più reazionaria delle
gerarchie cattoliche e alla più sanguinaria alleanza militare di ogni
tempo, lo si deduce dall’inanità di questi tentativi eversivi e
dall’incontaminata forza del popolo manifestatosi a Vicenza. Una
distanza siderale resa ancora più evidente dall’illusione di quel
ministro della spocchia che, mai negata la promessa dell’omologo della
Difesa che si sarebbe rimasti in Afghanistan fino al 2011 (fino alla
riduzione a metà degli afgani?), esponendo in parlamento la sua
politica estera di guerra e di servizio, ancora contava di
addomesticare quel popolo di Vicenza e del mondo, nonché i suoi sparuti
rappresentanti nel Palazzo, con i pasticcini della “maggiore
cooperazione “ (“Non uccideteci, non aiutateci!” si leggeva a Beirut) e
con il tè di una “conferenza internazionale di pace”. Conferenza che i
padroni d’oltreatlantico, a onore della Nuova Politica Estera Italiana,
avevano accolto a pernacchie. C’era da ricordare la mistificante
“conferenza di pace” che lo stesso baffetto allestì a Roma nel luglio
2006, nell’indulgente indifferenza degli altri vampiri impegnati a
permettere a Israele di sbranare il Libano, con l’unico risultato di
ritardare un ordine di tregua dell’Onu. Ritardo voluto perché
l’aggressore completasse l’opera, tregua poi arrivata per salvare la
sesta potenza militare del mondo dalla disfatta totale.
Pacifinti fuorigioco
I nove mesi di travaglio del governo Prodi avevano partorito a
Vicenza un’idra a tante teste, due delle quali, appunto, spuntarono al
Senato. Altre teste del movimento, però, erano appassite, anche per
merito dell’ostinato e tracotante solipsismo del capo del governo.
Erano le teste floreali di un settore del movimento che, avendo tentato
da anni di iniettare nel corpo della protesta antiguerra il narcotico
delle compatibilità, del “realismo”, della “riduzione del danno”, di
una nonviolenza quasi metafisica e, comunque, limitata a coloro che,
stando sotto, subiscono, si era appeso all’Onu (che intanto massacrava
contadini e oppositori a Haiti), a un fantasioso “monitoraggio”
parlamentare sull’Afghanistan con spruzzi di prezzemolo “civile”, alla
“svolta” Onu in Libano. Va a merito dei Cobas, piccolo, combattivo
sindacato, certamente il più rappresentativo fuori dalla Triplice, aver
tenuto botta nel corso di questa vera e propria manovra di
accerchiamento, con i bombardieri in alto e le crocerossine in basso.
Altri gruppi del cosiddetto antagonismo si apprestavano a fare giri di
valzer elettoral-amministrativi con addirittura i massimi e più
pervicaci protagonisti dell’atlantosionismo e di una politica sociale
di fuffa, fuori, e nerbo di bue dentro, oppure appendevano la propria
sterilità all’auspicio di immaginarie contrapposizioni
interimperialiste (conventicole romane al traino del sindaco Veltroni,
poi premiate dal prefisso telefonico cittadino alle elezioni), e tavole
della pace, boss sindacali e associativi, pacifisti dalla capsula di
tritolo nel sorriso. I Cobas e pochi altri, invece, non defletterono da
quella coerenza che in Italia va di moda come le buone maniere a
Guantanamo. C’erano, in quattro gatti, ma c’erano. Alla
contromanifestazione del 2 giugno rimilitarizzato da Prodi, al primo
voto sull’Afghanistan da ridurre all’ordine e al silenzio dei cimiteri,
all’altro voto sulla truffa libanese. E a chi li avvertiva che mettersi
contro il “governo amico” avrebbe portato danno e isolamento, Vicenza
ha dato la risposta più adeguata.
La sera dopo la debacle di un governo che in arroganza ha perfino
superato i cialtroneschi parvenue del berlusconismo, era divertente
seguire gli spettacolini televisivi. Con quel Franco Giordano,
segretario del PRC che “comanda” dal sottoscala di Villa Bertinotti,
che trasudava bile verde contro un compassato senatore Fernando Rossi
il quale, non avendo votato, si era attenuto alla sua coscienza, al suo
impegno pubblico, ma anche al manuale elettorale dell’Unione. Quel
Giordano che poi dovette ammutolire quando, euforici e beffardi, i
corvi della Casa delle Libertà gli chiedevano ragione della surreale
aporia di un segretario che manifesta a Vicenza contro la base voluta
dal suo governo e, al governo, spara a palle incatenate contro chi in
parlamento da corpo alla volontà espressa a Vicenza. Analoga figura, se
si può ancora più imbarazzante per schiamazzi e scioccherie, la faceva
una scarmigliata Manuela Palermi, PdCI, lanciando invettive che
richiamavano lo storico e scicchissimo “Rossi stronzo!” urlato nelle
elette stanze del Senato. Comunisti?
Nei giorni dopo l’ultrameritato tonfo della maggioranza di guerra,
la canea, i vituperi, gli anatemi contro la punta d’iceberg dell’onestà
e del valore della migliore Italia, spuntata al Senato, si sarebbero
intensificati e moltiplicati, quasi fosse lo sterminio bombarolo di
Falluja. Mentre scrivo, non so chi tra i macigni che piovono e fili di
yerba buena che crescono, avrà la meglio. Alla lunga sicuramente
l’erba, come vuole natura. Intanto, dal 17 febbraio 2007, non solo il
monarchico governo di Prodi, ma tutta una classe politica che, per
starsene in poltrona e alla buvette, s’è venduta a chierici, mafia,
massoni, tagliateste, i nostri diritti, perfino la nostra sovranità,
sono nudi. E se in Libano dovessero osare di fare quello per cui,
mimetizzati in blù, ci sono andati, le strapperanno anche la pelle.
Dite che tornerà Berlusconi? Vicenza liberata e antiguerra raddoppierà.
E non ce ne sarà per nessuno.
Dedica ai “nostri ragazzi”
Ai professionisti della guerra che scelgono, sia per ottemperare alla
consegna che oggi più si è belluini e più si è bravi, sia per estrarsi
da una condizione di irrisolvibile precariato ed emarginazione senza
futuro, di arruolarsi sotto le insegne di un articolo 11 della
Costituzione pervertito nel suo contrario, cito quanto ho letto sotto
un monumento ai caduti nel mio paese: “Nel bronzo dei cannoni tolti al
nemico, Roma consacra eterna la gloria dei suoi figli morti per la
patria. Seguono 60 nomi, età media 20 anni. In mille paesi e città del
nostro paese sono passato sotto monumenti e scritte analoghe. Qualcuno
celebra lì sotto con un sindaco, un parroco, un ministro e una corona
di fiori, ogni 4 novembre. Quanti percepiscono l’orrore di quelle
parole tronfie e truffaldine, scaricate sulle ossa di una generazione
sacrificata ai crimini ontologici delle oligarchie dominanti? Quanti
sanno che l’Italia fu mandata in guerra, nascondendole la già ottenuta
cessione di Trento e Trieste, pur di lanciare il capitalismo avanzante
famelico sui cingoli dei mezzi di distruzione e morte? Quanti ricordano
che, nella ripetizione delle carneficine successive, la nostra unica
lucidità di massa, il nostro unico riscatto in millenni, fu la lotta
per la liberazione, per la pace e per una rivoluzione poi tradita?
Quanti capiscono che oggi, come allora, giovani vanno a morire e ad
ammazzare perché la stessa classe possa continuare ad arricchirsi,
accecandoci al tempo stesso di ignoranza e di paura?
Fulvio Grimaldi