di Giacomo Catrame
http://www.ecn.org/uenne/archivio/archivio2006/un35/art4451.html
La spedizione europea in Libano sotto il cappello ONU, il cui nerbo
è costituito da truppe francesi e italiane, e la cui
organizzazione ha visto un indubbio protagonismo diplomatico del nostro
paese e in particolare del Ministro degli Esteri Massimo D'Alema, ha
amplificato quel fenomeno di ritorno del nazionalismo in versione
democratica del quale l'ex Presidente Ciampi è stato il
più convinto sostenitore nel corso del suo settennato. La
copertura della sinistra e dell'estrema sinistra all'operazione messa
in piedi sulle ceneri del fallito blitzkrieg israeliano di
luglio-agosto e con l'avvallo delle cancellerie europee e americane ma
anche con l'assenso dei paesi arabi più interessati come la
Siria e dello stesso Hizbollah, è stata fondamentale per
ottenere il definitivo sdoganamento nel paese dell'idea di patria e del
corollario armato che questa comporta.
La spedizione in Libano è l'occasione che le cancellerie europee
hanno colto per giocare un ruolo sull'altra sponda del Mediterraneo non
immediatamente subordinato alla strategia americana ma non in conflitto
con gli interessi di Washington. Non a caso in testa troviamo la
Francia che cerca disperatamente di ritrovare un ruolo internazionale
all'altezza del suo passato di potenza mondiale e l'Italia dell'Unione
smaniosa di cancellare l'immagine di un'Italia servile verso gli USA e
incapace di perseguire i propri interessi nell'area mediorientale.
Un neo-colonialismo "garantista"
In altre parole gli stati europei che hanno promosso questa spedizione
puntano a rappresentare un modello di penetrazione occidentale nei
paesi arabi e in quelli islamici non fondata in modo esclusivo sulla
forza muscolare e sul supporto ad Israele, ma "garantista" nei
confronti delle élite dei paesi arabi e mediatorio verso i loro
interessi. Ovviamente tale operazione è resa possibile dal fatto
che i contendenti militari della guerra di questa Estate sono entrambi
occupati a leccarsi le ferite e non sono intenzionati a riprendere a
breve il conflitto. In secondo luogo quello che è il reale
protettore internazionale di Hizbollah, ossia l'Iran, ha un particolare
occhio di rispetto verso l'Italia della quale ha invocato anche la
mediazione nell'affaire nucleare che lo vede coinvolto in
contrapposizione a USA, Francia, Germania e Regno Unito. Tale occhio di
rispetto non viene dal nulla ma dalle solide relazioni commerciali tra
i due paesi che avevano già portato Prodi nella sua prima
esperienza governativa a svolgere un lungo viaggio d'affari nell'antica
Persia. In questo la politica dell'Unione non è una
novità ma è la riproposizione dell'antico modello
democristiano che vedeva il Bel paese alleato fedele degli USA ma
dotato di una certa libertà di movimento nell'area mediterranea
e in quella africana. Se all'epoca della Prima Repubblica la sponda per
questa politica veniva dall'esistenza di un nemico comune come l'URSS e
dalla necessità americana di non creare divergenze con gli
alleati europei, oggi lo spunto per una parziale autonomia viene da un
minimo di unità di intenti con gli altri paesi dell'Unione
Europea.
Le difficoltà USA in Iraq, il ruolo
dell'Europa tra presente e futuro
Lo sfondo sia per l'Italia che per gli altri europei sono le
difficoltà USA a piegare la resistenza irachena e, quindi,
l'insperato aprirsi di uno spazio di azione proprio in quei territori
dove l'iniziativa USA aveva cancellato la possibilità per i
paesi europei di giocare un proprio ruolo politico ed economico.
Su un punto bisogna essere chiari: il fatto che i paesi europei siano
riusciti a segnare un punto in medio Oriente non vuole assolutamente
dire che stiamo assistendo alla nascita di un polo imperialista europeo
concorrente ed antagonista a quello americano e ai suoi alleati
subordinati britannici e israeliani. La spedizione n Libano ha
l'assenso di Washington che non si può ancora permettere
l'apertura di un nuovo fronte; la mediazione italiana con l'Iran
è benedetta dalla Casa Bianca per gli stessi motivi; gli stessi
israeliani non vedevano l'ora di poter uscire dal pantano in cui si
erano cacciati. D'altra parte a dimostrazione di quanto siamo lontani
dallo scontro Europa-USA è sufficiente pensare alla nuova base
USA specificamente destinata a svolgere funzione di appoggio per le
offensive americane in Medio Oriente, oggi in costruzione a Vicenza.
Nonostante gli evidenti limiti del protagonismo europeo in Medio
Oriente il governo Prodi e in particolare la sua sinistra interna non
hanno perso occasione per sottolineare la rottura nella politica estera
italiana che, a loro dire, sarebbe rappresentata dalla spedizione
franco-italiana in Libano. Quello che viene sottolineato in modo
particolare è un supposto ruolo non imperialista ma
"equivicinante" dell'Europa nel mondo. In altre parole si auspica e si
sostiene la costruzione di un polo europeo capace di trattare da pari a
pari con gli USA e con le potenze emergenti nel mondo. Come abbiamo
visto tale ruolo almeno oggi (e a parere di chi scrive per alcuni
decenni) non può esserci vista la dipendenza politica ed
economica dell'Europa verso gli USA, ma occorrerebbe anche interrogarsi
sul ruolo concreto che un simile aggregato di potenza avrebbe nel globo.
Un ipotetico polo europeo, infatti, non potrebbe che essere un ruolo di
potenza intimamente imperialista. Gli interessi economici delle
élite capitalistiche europee non sono diversi da quelli che
spingono i loro corrispettivi americani a progettare un futuro di
guerra per assicurarsi la continuazione del dominio americano su flussi
finanziari mondiali. I dominanti europei oggi sono al seguito di quelli
americani e vivono in una situazione di totale dipendenza da questi
ultimi dai quali divergono per questioni inerenti al modo di svolgere
il ruolo di potenza dominante rispetto al Sud del mondo e all'Asia. Una
volta che agissero in piena autonomia nei confronti di Washington non
potrebbero che entrare in piena concorrenza per ottenere una parte
consistente delle risorse energetiche e del capitale mobile circolante
nel globo. Giocoforza qualsiasi polo europeo non potrebbe che essere un
polo imperialista, e il mondo multipolare che viene auspicato non
sarebbe altro che un mondo multiimperialista che presto o tardi sarebbe
destinato a configgere in modo disastroso con gli altri poli. In
pratica la riuscita di tale progetto comporterebbe l'applicazione a
scala planetaria della situazione europea tra il 1870 e il 1914 con le
conseguenze che tutti possono immaginare. Il lavoro politico della
sinistra governativa pretesamene pacifista finirebbe per produrre
l'assoluto contrario di quanto propagandato e servirebbe a porre le
basi per una guerra devastante quanto quella che ha squassato l'Europa
e l'Asia tra il 1914 e il 1945.
Il rilancio del mostro patriottico
A corollario di tale ipotesi viene rilanciato un patriottismo
costituzionale con radici nel passato risorgimentale che punta a
ricostruire una sorta di orgoglio dell'italianità. Dopo il
fascismo che ha reso impresentabile per molti decenni il concetto di
patria, dopo i decenni di scarso nazionalismo che il nostro paese ha
vissuto, ora una spedizione con caratteri di presunta mediazione e lo
sbandierato scostamento dalla guida USA servono non solo a lanciare
l'ipotesi di un polo autonomo europeo ma, all'interno del paese, viene
utilizzata per sdoganare da sinistra il patriottismo. Un patriottismo
come abbiamo visto differente da quello becero e aggressivo incarnato
dal fascismo ma pur sempre un patriottismo. Esaltare il destino
italiano di conquista o il ruolo pacificatorio e buonista del Belpaese
non è la stessa cosa ma comporta comunque l'esaltazione della
propria nazione della quale viene decantata una superiorità
verso gli altri stati. Così l'Italia diventa protagonista sulle
prime pagine di tutti i giornali dell'organizzazione della prima
spedizione "di pace" europea e il ministro degli Esteri D'Alema diventa
un protagonista del mantenimento della pace nel mondo. Peccato che il
ruolo delle forze militari italo-francesi rimanga ambiguo e il loro
coinvolgimento nella ripresa di scontri armati un'ipotesi tutt'altro
che remota, ma soprattutto peccato che il mostro patriottico una volta
scatenato abbia necessariamente un destino di sopraffazione e
competizione nei confronti egli altri stati del pianeta.
La costruzione di una dimensione insieme europeista e patriottica nelle
intenzioni della sinistra radicale di governo dovrebbe portare ad
ottenere quello spazio di potenza ritenuto necessario nella strategia
dei partiti che la compongono per avviare un nuova stagione di tipo
socialdemocratico basata sull'utilizzo della leva fiscale per
ridistribuire la ricchezza. Il fondo di Rossana Rossanda con il quale
la fondatrice del "Manifesto" appoggiava la spedizione in Libano
è esemplare da questo punto di vista. L'anziana signora ritiene
che lo spazio europeo possa e debba diventare quello in cui tale
politica può essere dispiegata, e che una politica di potenza
dell'Europa e dei paesi che la compongono sia la precondizione
perché ciò avvenga. Questo perché Rossanda
individua nella sudditanza alla potenza e al capitale americani il
limite che impedisce all'Europa di essere tale e di imboccare in modo
autonomo la strada di uno sviluppo capitalistico solidale e
redistributore. Per fare tale affermazione Rossanda cancella in modo
evidente il dato che vede il ceto politico europeo totalmente
invischiato nel rapporto con le proprie élite capitalistiche non
diversamente da quanto avviene per i propri corrispettivi di Oltre
atlantico. La stessa dipendenza dal centro mondiale americano non
dipende da una scelta politica autonoma dei nostri governanti ma dai
precisi interessi dell'oligarchia capitalistica europea. Pensare di
piegare quest'ultima alla propria strategia semplicemente prendendo la
guida della dimensione politica è quantomeno ingenuo o
ideologico. Inoltre così facendo si consegna proprio alle classi
capitalistiche la possibilità di ricorrere in caso di bisogno al
vecchio armamentario patriottico e all'aiuto di una "buona causa": lo
sviluppo di un'Europa forte ma non aggressiva o imperialista.
Terzomondismo cieco di certa sinistra
e la necessità dell'internazionalismo
Se questo è il quadro della sinistra radicale di governo, quello
della sinistra di classe non induce ad ottimismo sulla capacità
di costruzione di un autonomo movimento che punti a contrastar
l'imperialismo. La contrapposizione verso la spedizione in Libano viene
costruita attraverso la riproposizione del terzomondismo degli anni
Sessanta e Settanta. Le posizioni dei promotori della manifestazione
romana svoltasi il 30 settembre sono di appoggio al partito Hezbollah e
alle resistenze antioccidentali dei paesi mediorientali. L'appoggio e
la solidarietà vengono dati ai componenti nazionalisti o
islamici di queste sulla base di un paradigma antimperialista che vede
l'origine dello sfruttamento coloniale di queste terre unicamente negli
Stati Uniti e nelle loro politiche. Indugiando a volte ad una lettura
della situazione internazionale derivata dalla teoria del complotto
delle élite anglosassoni mondializzate, l'appello per il 30
settembre leggeva nei tentativi dei gruppi di potere esclusi dal
controllo del proprio territorio una valenza di liberazione dal dominio
di classe che queste non hanno. Il conflitto per l'indipendenza in
corso in Palestina, in Libano e in Iraq e il disperato tentativo delle
élite iraniane e siriane per non finire sotto il rullo
compressore della potenza americana non è un tentativo di
distruggere le basi dell'accumulazione capitalistica ma il piuttosto di
esservi associati a pieno titolo come detentori di una sovranità
che il meccanismo occidentale di estensione del controllo delle risorse
non riconosce. La loro vittoria non consisterebbe nella costruzione di
un ordine più giusto per la popolazione mondiale ma in un
allargamento della dimensione delle élite che governano la
produzione di ricchezza mondiale.
Dirsi contrari alla spedizione in Libano perché l'Italia non
starebbe facendo altro che mettersi al servizio di Stati Uniti e
Israele vuole dire abdicare ad ogni analisi della realtà di
classe del nostro paese e degli interessi che lo spingono a entrare
militarmente in Medio Oriente e a cercare di mediare con l'Iran
scongiurando un'azione di forza USA-Israele che sarebbe disastrosa per
la nostra bilancia commerciale. I questo modo la geopolitica diviene
l'unico paradigma di riferimento e la dimensione del conflitto
economico all'interno delle società occidentali un mero riflesso
degli accadimenti internazionali, pensando così la working class
come incapace di una qualsiasi possibilità di iniziativa
autonoma. Allo stesso modo cancellare la natura politica delle
resistenze mediorientali e degli stati come l'Iran e la Siria significa
credere in un meccanicismo sterile che considera positiva l'azione
nazionalista nei paesi non dominanti perché essa esprimerebbe
l'azione delle classi popolari di questa zona del mondo. In questo modo
si cancella completamente il fatto che la motivazione sia il primo
motore di ogni azione e che il nazionalismo sia religioso che laico
hanno sempre trovato nell'anomia sociale un potente alleato per
mobilitare a proprio favore le masse popolari. In fondo il tentativo
dei fascismi fu storicamente quello di mobilitare le risorse nazionali
per la costruzione di un capitalismo nazionale abbastanza forte da
contrastare il capitalismo anglosassone in via di rimondializzazione.
Oggi il nazionalismo laico e quello religioso messianico tipico della
variante sciita della religione islamica svolgono un compito simile
nell'area mediorientale. Sia ben chiaro, la sconfitta del progetto
imperiale USA non può che essere un elemento positivo
perché rimetterebbe in discussione una divisione internazionale
dell'accumulazione che porta necessariamente in alcuni decenni a un
confronto militare tra l'occidente e l'Asia, questo però non
può voler dire schierarsi dalla parte delle élite in via
di marginalizzazione del Medio Oriente. Èlite che, oltretutto,
non nascondono assolutamente di avere un ipotesi assolutamente
reazionaria del tipo di società che costruirebbero una volta che
vincessero. Basta d'altra parte guardare alla condizione della
popolazione iraniana o di quella siriana per farsene un'idea.
La necessità rimane adesso come nel corso del secolo scorso
quella di saper invece esprimere un'opposizione alle avventure
imperialiste del proprio paese sulla base di un discorso seriamente
internazionalista. Capace quindi di contrastare il proprio imperialismo
non appoggiando i nazionalismi altrui (sia pure di paesi dominati) ma
disgelando i fili che collegano oppressione degli altri paesi e
oppressione di classe all'interno dei confini. Una strada che sembra
sempre più in salita ma che dovrà essere percorsa con
decisione nei prossimi anni per evitare di trasformarsi nelle mosche
cocchiere di una nuova e terribile esplosione di nazionalismo.
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