Noi, nipoti di Eichmann



(Un modo per non subire passivamente gli eventi, a mio parere, è quello di divulgare il pensiero di altri e insieme – per quanto si riesce – di dire la propria)  
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Noi, nipoti di Eichmann

L’inizio secolo registra una guerra che perdura e si espande. Palestina – Afghanistan – Iraq – Libano. E’ da un po’ che la Resistenza tiene in stallo l’Impero.
Assumendo anche la guida di altri eserciti nazionali - a mio parere – l’Italia esporta meglio: armi, cultura, esperimenti all'occorrenza, moda, morte, stile di vita e successi sportivi. Nel contempo, intende sfruttare una quota aggiuntiva di potere economico e politico, mondiale. 
Leo

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da Umberto Galimberti in “La casa di psiche”, Feltrinelli, 2005

Nel 1937, Karl Jaspers – professore sposato con Gertrud Mayer – decise di non divorziare da sua moglie ebrea e di continuare negli insegnamenti, fu costretto così ad abbandonare l’università e la terra di Germania per riparare in Svizzera. 
Nel 1946, il filosofo tedesco tornò nel suo Paese e tenne una serie di lezioni che avevano come oggetto “La questione della colpa”. Il tema centrale di quel nuovo periodo d’insegnamento era in una sentenza che non concede margini d’innocenza: “Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa”.
Jaspers parla di quattro modi di concepire la colpa. 1) Colpa giuridica; riferita alle azioni che trasgrediscono la legge. Che possono essere provate giuridicamente, di competenza dei tribunali, con imputazioni rivolte ai singoli individui. 2) Colpa politica; riferita alle azioni degli uomini di Stato e coinvolge quanti appartengono a quello Stato, perché “ciascuno porta una parte di responsabilità riguardo al modo come viene governato”. La democrazia, infatti, ci rende responsabili e quindi, negli errori, colpevoli. 3) Colpa morale; riferita alla colpa individuale rilevabile al tribunale della propria coscienza “a cui non si può chiedere un trattamento amichevole”. La giustificazione secondo cui “gli ordini sono ordini” qui non trova accoglienza, perché non ha valore sul piano morale. Di fronte alla propria coscienza, “i delitti rimangono delitti anche se vengono ordinati”. 4) Colpa metafisica; riferita a quella colpa che investe qualsiasi uomo che tollera ingiustizie e malvagità che possono essere inflitte a un proprio simile e non fa nulla per impedirlo. Questa colpa ha per oggetto l’infrazione del Principio della solidarietà tra gli uomini. Con l’offesa della solidarietà, viene messa a rischio quella base di appartenenza al genere umano che poggia sul riconoscimento di se stessi nell’altro. A questo livello, scrive Jaspers: “Il modo di sentirsi colpevole non può essere compreso da un punto di vista giuridico, politico o morale, ma il fatto che uno sia ancora in vita, dopo che sono accadute cose sul genere delle atrocità naziste, costituisce per lui una colpa incancellabile, perché, pur di salvare la propria vita, ha rinunciato alla vita degna che, nel caso dell’uomo, vuole che si viva insieme o non si viva affatto”.

...Questa matrice sentimentale - a cui Jaspers fa riferimento - è la stessa matrice pre-giuridica e pre-politica che aveva fatto dire a Immanuel Kant: “L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. Il nazismo invece ha significato proprio: la riduzione dell’uomo a cosa. E’ possibile quindi dire che l’elemento tragico del nazismo non risiede tanto nella sua ferocia e nella sua crudeltà, che la storia su scale diverse ha sempre registrato, ma nell’oggettivazione dell’uomo, nella sua riduzione allo statuto della cosa. Questa è la colpa metafisica. Una colpa da cui non è possibile riscattarsi, perché ciò che il nazismo ha inaugurato, l’oggettivazione dell’uomo, è la forma che l’umanità va via via assumendo sotto il regime della tecnica, che proprio nell’organizzazione nazista ha trovato il suo primo abbozzo. 

In un’intervista che Gitta Sereny fece a Franz Stangl - direttore generale del campo di sterminio di Treblinka - c’è la domanda: “Ma lei non poteva cambiare tutto questo? Nella sua posizione, non poteva far cessare quelle nudità, quelle frustate, quegli orrori dei recinti da bestiame?”. Risponde Stangl: “No, no, no...Il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni campi fino a ventimila persone in ventiquattro ore esige il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. L’aveva escogitato Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile.”                         

E’ questo un esempio di “pensiero manageriale” dove Treblinka non è dissimile da un complesso industriale su vasta scala, e dove il personaggio chiamato Stangl non è dissimile da un qualsiasi direttore generale che opera in base a quel solo criterio: l’efficienza; che l’apparato tecnico assume come unico e assoluto valore, mettendo in ombra lo scopo delle azioni, la loro direzione, il loro senso, per attestarsi sul principio della pura funzionalità priva di riferimento. 
Celandosi dietro la maschera dell’efficienza, il potere ottiene l’ubbidienza dei subordinati inducendo in loro da un lato un pensiero a breve scadenza, per cui non si guarda più intorno e in avanti e a lungo termine sui valori di fondo della vita, con conseguente atrofizzazione dei sentimenti, dall’altro quella diffusa insensatezza per cui i “fini” raggiunti diventano “mezzi” per fini ulteriori, dove, come dice Jaspers: “ Il semplice ‘fare’ trova la sua giustificazione indipendentemente da ciò che si fa”.
Jaspers lascia intendere che lo schema inaugurato dal nazismo può ripresentarsi, e di fatto si ripresenta, ogni volta che la struttura di un apparato esige la riduzione dell’uomo allo statuto della “cosa”. E’ il caso, ad esempio, della sperimentazione nucleare, a cui Jaspers ha dedicato un libro importante: La bomba atomica e il destino dell’uomo, dove lo scenario del totalitarismo tecnico appare come il succedaneo del totalitarismo politico. 
Che senso ha, infatti, parlare di “sperimentazione” là dove il laboratorio è diventato coestensivo al mondo, coinvolgendo nella sperimentazione: aria, acqua, terra, flora, fauna e l’intera umanità, con conseguenze irreversibili sulla realtà geografica e quindi storica? E soprattutto che senso ha migliorare i dispositivi di distruzione quando quelli attuali sono già sufficienti per la distruzione totale? L’imperativo della tecnica, che chiede la maggiorazione e il miglioramento di ogni prodotto, ha ancora senso a proposito della bomba atomica, dove il minimo dei suoi effetti sarebbe più grande di qualsiasi scopo politico e militare? Quando l’effetto è la distruzione totale, esiste ancora la possibilità di un comparativo, di una maggiorazione, di un miglioramento? Si può essere “più morti” dei morti?         
Con la sperimentazione atomica, l’apparato tecnico ripropone il problema della colpa metafisica, perché anche le potenziali vittime, per quanto innocenti, diventano colpevoli se non aprono gli occhi a coloro che non vedono ancora. La colpa metafisica, infatti, non sta nel passato, ma nel presente e nel futuro, e se nella sua edizione politica – il totalitarismo – almeno in Europa, sembra abbia scarse possibilità di ripresentarsi, nella sua edizione tecnica si è già ripresentato in quella forma che consente a Gunther Anders di definire noi tutti – uomini d’oggi – “figli di Eichmann”, non di Hitler, simbolo dell’espressione politica del totalitarismo, ma proprio di Eichmann, il burocrate, che, come funzionario di un apparato – più o meno come oggi noi tutti siamo nel regime della tecnica – compiva, dal ridotto della sua scrivania, azioni dagli effetti che oltrepassano l’immaginazione di cui può essere capace un uomo.
Nel libro “Noi figli di Eichmann”, Anders coglie l’essenza del “mostruoso” nella discrepanza che - allora come ora - esiste fra l’azione che uno compie all’interno di un apparato e l’impossibilità per lui di percepire le conseguenze ultime delle sue azioni. Allora furono sterminati in modo industriale sei milioni di ebrei, zingari, omosessuali, da parte di persone che accettarono questo lavoro come qualsiasi altro lavoro, adducendo a giustificazione la pura e semplice ubbidienza agli ordini e la fedeltà all’organizzazione. 
Per questo nei processi contro “i crimini verso l’umanità” gli accusati si sentivano “offesi”, “sgomenti” e qualche volta, come Eichmann, “sdegnati”, non perché si trattava di esseri privi di coscienza morale, aberranti psicopatici, o persone ormai disumanizzate, come più volte si è sentito ripetere, ma perché applicavano il principio, da loro inaugurato e oggi diventato mentalità aziendale, secondo cui essi avevano soltanto collaborato.
Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa, riflettessimo sul fatto che gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro, senza i quali l’ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un apparato, allora comprendiamo perché siamo tutti “figli di Eichmann”.            
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Il fatto che la tecnica non sia ancora totalitaria, il fatto che quattro quinti dell’umanità viva di prodotti tecnici, ma non ancora di mentalità tecnica, non deve confortarci, perché il passo decisivo verso l’”assoluto tecnico”, verso la “macchina mondiale” l’abbiamo già fatto, anche se la nostra condizione psicologica non ha ancora interiorizzato questo fatto, quindi non ne è all’altezza.
Quel che è certo è che l’universo tecnico, cancellando ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo, non sta al gioco della stabilità e delle definitività, e perciò libera il mondo come assoluta e continua novità, perché non c’è evento già inscritto in una trama di sensatezza che ne pregiudichi l’immotivato accadere.
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Gli anni che stiamo vivendo hanno visto lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno accennato a quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se “etica” vuol dire “costume”, è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche, fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine, a favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come etica del viandante che non si appella al diritto, ma all’esperienza.
Infatti, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel “cielo stellato” e nella “legge morale”, che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione. Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante, con la sua etica, può essere il punto di riferimento dell’umanità a venire, se appena la storia accelera i processi di recente avviati, che sono nel segno della deterritorializzazione. 
Fine dell’uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e nascita dell’uomo sempre meno soggetto alle leggi del paese e sempre più costretto a fare appello ai valori che trascendono la garanzia del legalismo. Il prossimo, sempre meno specchio di me e sempre più “altro”, obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà. 
La diversità sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio si attorciglieranno come i rami secchi di un albero inaridito. Fine del legalismo e quindi dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e nascita dell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico “cielo delle stelle fisse”, perché anche questo cielo è tramontato per noi.
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Subordinato non più alla natura, ma al potere che ha conseguito per dominarla, oggi l’uomo non può pensare di contenere la tecnica con l’etica che la tradizione gli ha consegnato, perché questa etica, in tutte le forme in cui si è espressa, se è capace di regolare l’agire fra gli uomini, non è in grado, per questo suo limite antropocentrico, di esprimere le norme regolative di un sapere e di un potere che si estendono oltre lo spazio delimitato dalle dimensioni del globo, e oltre il tempo circoscrivibile dalla previsione umana.
Il futuro, infatti, che la tecnica dispiega, non solo rende inutile qualsiasi riferimento al passato per desumere qualche criterio di decifrazione, ma addirittura crea uno iato tra le possibilità che la tecnica ha reso disponibili e le capacità previsionali che, per essere all’altezza di quelle possibilità, dovrebbero oltrepassare di molto ciò che finora l’uomo ha conosciuto come limite della sua percezione e intuizione. Il fare ha di gran lunga sopravanzato l’agire, e questa è la ragione per cui l’etica, che presiede l’agire, non è in grado di regolare la tecnica da cui procede il fare.
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Diventa allora quanto mai indispensabile una ripresa della virtù antica che invitava l’uomo a non oltrepassare il limite. Certo, ai Greci non possiamo tornare, ma l’invito che essi rivolgevano all’uomo di dare una misura a se stesso oggi diventa non solo attuale, ma addirittura urgente. Si tratta di una misura che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quella indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità phronesis, che noi siamo soliti tradurre con “saggezza”, “prudenza”, e la eleva a principio regolativo della prassi dove: “Non si ha a che fare con ciò che accade sempre, come nella matematica o nella geometria, ma con ciò che accade per lo più, con ciò che fa la sua comparsa di volta in volta, in modo imprevisto e in tutti quei casi in cui non è chiaro come andranno a finire le cose, e quelli in cui la conclusione è del tutto indeterminata”.
Una sorta di “etica del viandante” che, non disponendo di mappe, affronta le difficoltà del percorso a seconda di come di volta in volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione. Questo è il nostro limite, e in questo limite dobbiamo decidere.
Per quanto drammatica possa sembrare la scelta, non dimentichiamo che la decisione etica è una decisione che fonda senza possedere altro fondamento al di fuori di sé. In questo senso è evento assoluto e quindi realtà tragica. Non è l’assoluto pacificato dell’idea, ma l’assoluto della scelta sugli eventi che si presentano. In caso diverso sarebbe inutile la discussione tra gli uomini, sarebbe sufficiente la deduzione dai principi. 
L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare. Ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e inconsaputa dimora.                  

dalle pagg. 414-419, 430, 433-434, 436, 438-439(fine).

Le citazioni sopra riportate (presenti ne: La casa di psiche di Umberto Galimberti) sono tratte da:
Jaspers Karl (1946), tr. it. La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina, 1996;
Kant Immanuel (1785), tr. it. Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, 1994 ;
Sereny Gitta (1983), tr. it. In quelle tenebre, Adelphi, 1994;
Jaspers Karl (1958), tr. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, 1960;
Anders Gunther (1964), tr. it. Noi figli di Eichmann, Giuntina, 1995;
Kant Immanuel (1788), tr. It. Critica della ragion pratica, Laterza, 1955.