Fw: Bombe in 5 chiese a Baghdad: rapporto di Luigia Storti per Riconciliazione.it



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Saint George Church, nel quartiere di Dora a Baghdad, appartenente alla
Chiesa dell’Est di Mar Dinkha IV.
Saint Thomas Church, siro ortodossa, nell’elegante e centrale quartiere di
Mansour
Rum Catholic Church, a Karrada, a poche centinaia di metri dalla chiesa
cattolica romana di Saint Yousef. Chiesa latina affidata ai Padri
Redentoristi
Saint Joseph Church, chiesa caldea, nella zona di Nafaq al-Shurta
Saint Jacob Church, altra chiesa caldea, a Dora.


Ecco i nomi delle cinque chiese che ieri, 16 ottobre 2004, tra le 4.00 e le
6.00 del mattino sono state colpite a Baghdad.
E’ difficile, esaminando questa lista, trarre un qualche indizio sulla
logica che le ha accomunate nelle esplosioni, e forse una logica non c’è.
Forse, nel caos in cui l’Iraq è precipitato, e che pare invisibile solo agli
occhi dell’amministrazione americana che continua a sfoderare un discreto
ottimismo parlando della sua imminente pacificazione legata alle elezioni,
neanche gli attentati ne seguono più una che non sia quella della loro
ideazione. Di sicuro c’è che qualcuno ha deciso che era ora di dare un’altra
“spinta” ai cristiani iracheni, una spinta che li convinca a suon di
esplosioni di quanto l’Iraq sia diventato terreno minato per loro. C’era già
stata la domenica di sangue del primo di agosto, con 11 morti e centinaia di
feriti, ed ad essa erano seguiti crescenti atti di violenza ed intimidazione
che però, isolati com’erano, non avevano trovato spazio sui media, annegati
tra quelli di ordinaria violenza irachena. La fuga dei cristiani dall’Iraq
conseguente a quegli episodi era già iniziata, ma forse serviva essere più
chiari. Ecco quindi gli attacchi in ore in cui le chiese erano sicuramente
vuote. Non che chi li ha compiuti non avrebbe potuto scegliere un’ora
diversa, e gli attacchi diurni quasi quotidiani persino alla “zona verde,”
quella che in teoria dovrebbe essere inviolabile, lo dimostrano. Piuttosto
un’altra strage avrebbe potuto avere una risonanza maggiore, e le parole di
chi ha condannato quella di agosto avrebbero dovuto levarsi più alte,
sciogliendosi dai legami di generica condanna e morale riprovazione. Senza
morti, invece, la notizia sparirà presto dai media, la dimenticheremo, e
prova ne è che già stamani, domenica 17 ottobre, i telegiornali la riportano
solo marginalmente, dopo quella della vittoria del campionato del mondo di
motociclismo da parte del nostro eroe nazionale Valentino Rossi, ma così non
sarà per gli iracheni. Non i cristiani, che accelereranno le richieste dei
certificati di battesimo ai loro sacerdoti: il primo passo della fuga; e
neanche i musulmani moderati che riconoscono in essi una componente
minoritaria ma autoctona del paese, e che considerandoli prima di tutto
iracheni, e solo in seconda battuta iracheni di fede diversa, non dubitano
della possibilità di coesistenza con loro.
Il messaggio del terrore sta passando senza difficoltà: non c’è bisogno di
uccidere per diffonderlo tra chi si sente già vittima e potenzialmente
morto.
Non sembra esserci nessuna logica, nessun collegamento quindi, tra le chiese
attaccate oggi. A volte però anche l’apparente sconnessione può nascondere
un legame.
Quartieri diversi, ma con una spiccata predilizione per il quartiere di
Dora, nel sud della città, dove si trova la chiesa di San Pietro e Paolo,
nel cui parcheggio si contarono le 11 vittime degli attacchi del primo
agosto, il Seminario Maggiore ed anche il Babel College, l’unica università
teologica non islamica del paese che prepara la futura gerarchia
ecclesiastica e che impiega, nel nome della cultura e della tolleranza,
sette docenti di fede islamica incaricati dell’insegnamento della filosofia.
Chiese diverse: latina e caldee, ma anche, a differenza del primo di agosto,
assira dell’Est e siro-ortodossa. Non più solo chiese legate a Roma, quindi,
a marcare l’inclusione dei cristiani, di tutti i cristiani, nella categoria
dei bersagli da colpire. A questo proposito c’è da notare anche il colpo di
mortaio indirizzato in piena zona verde e caduto, senza far danni, nel
parcheggio dell’Hotel Melia Mansour. Forse il colpo era indirizzato all’
albergo che ospita occidentali ma chi conosce Baghdad non può fare a meno di
ricordare che al di la del parcheggio, c’è Haifa Street, e che al di la di
essa, stretta tra il palazzo che ospitava il Ministero dell’Informazione, e
quello che ospitava la televisione di stato, c’è una piccola e graziosa
chiesa anglicana.
Chiese antiche, intendendo con questa qualifica, le chiese appartenenti alle
confessioni religiose presenti nel paese da millenni o anche solo risalenti
alla dominazione britannica del secolo scorso. Sinora, infatti, nessuna
delle 26 chiese di Baghdad create ex-novo dagli evangelici stranieri
arrivati al seguito dei marines e che certo, con le loro croci luminose sui
tetti, non hanno cercato di rendersi invisibili, seppur minacciata, è stata
colpita.
Nella situazione che l’Iraq sta vivendo non ci sono certezze ma solo
ipotesi. Non si conosce il responsabile degli attacchi ai cristiani
iracheni, ad esempio, ed a cercare un nome ci si può solo riferire a ciò che
il governo ad interim supportato e guidato dagli Stati Uniti ha affermato:
gli attacchi sono opera di Al Zarqawi, il terrorista che ha ormai sostituito
l’introvabile Bin Laden nell’immaginario collettivo che ha bisogno di avere
un nemico fisicamente riconoscibile, il “cattivo” di turno, per quanto
introvabile, per giustificare l’operato dei propri governi. La sola certezza
è che indipendentemente dal mandante e dall’esecutore i cristiani iracheni
sono a rischio di estinzione.
A prescindere dalle notizie comunque, ed alla ricerca di rassicurazioni su
quanto era successo, una serie di telefonate con l’Iraq e con Roma svoltesi
ieri sera mi ha dato il polso della situazione dal punto di vista umano.
Le persone con le quali ho parlato hanno espresso, infatti, senza giri di
parole ciò che sentono.
“Il prossimo obiettivo saremo noi: uccideranno i preti” mi ha detto uno di
essi. Le minacce si moltiplicano di giorno in giorno, ed ormai raggiungono
anche i vescovi accusati di avere avuto vita fin troppo facile sotto il
regime di Saddam.
Certo gli attacchi erano attesi dato che già due giorni fa il Consigliere
per la Sicurezza Nazionale del Governo ad interim iracheno, Muwafaq Al
Rubaie, aveva avvertito del pericolo sulla base di informazioni di
intelligence.
Che la tensione stia salendo è anche dimostrato dai crescenti attacchi,
rapimenti e violenze che ormai colpiscono quotidianamente anche Mosul, città
fino a poco tempo fa considerata più sicura di Baghdad per i cristiani, e
che ha visto alcuni rappresentanti di movimenti islamici entrare nelle
scuole minacciando direttamente le docenti e le studentesse cristiane di
morte nel caso non si adeguino ad indossare l’hijab, il velo che copre i
capelli indossato dalle donne musulmane. Minacce forse ispirate dalle
prediche di alcuni imam che nelle moschee della città affermano che uccidere
un cristiano non è né un reato né una colpa davanti a Dio, come ha
dichiarato all’agenzia Fides una suora protetta dall’anonimato, che ha anche
riportato la fuga coatta di un sacerdote caldeo minacciato di morte per aver
celebrato il funerale di un ragazzo cristiano ucciso.
“La nostra vita è come una video casetta di un film, puoi andare avanti col
nastro e sapere in anticipo la fine.”
“Direte Messa domani?”
“Certo”
“Ci saranno i fedeli?”
“Non penso. I vescovi ci hanno raccomandato prudenza, e di mettere delle
guardie armate davanti alle chiese, dato che sono stati minacciati altri
attacchi. Ma chi, e per chi? Nessuno viene più nella mia chiesa, meno che
mai a fare la guardia, e poi non ci sarà nessuno da proteggere.
Probabilmente domani dirò la Messa per me solo.”
“Quante famiglie sono rimaste nella tua parrocchia?” chiedo ad un altro
sacerdote
“Non lo so. Non posso contarle, loro non vengono più in chiesa ed io, come
tutti, sono limitato nei movimenti. Uscire è pericoloso, lo facciamo solo
quando strettamente necessario”
“Stanno andando via?”
“Stanno scappando a gambe levate. Vanno in Siria o in Giordania. Per nessuno
dei due paesi c’è bisogno del visto per noi iracheni, ma di solito si
preferisce la Siria perché è più economica e dove io so si sono rifugiate
già 600 famiglie”
Parole queste confermate anche da Yonadam Kanna, Segretario Generale del
Movimento Democratico Assiro e membro del primo para-governo iracheno
sciolto da Paul Bremer il 28 giugno scorso, e riportate dall’Assyrian
International News Agency. “Invece di pagare 50.000 $ per un riscatto
preferiscono spenderne 5000 a Damasco o a Latakia” Parole che confermano l’
ondata di rapimenti cui la comunità cristiana è soggetta e che acuiscono il
terrore non meno delle bombe. 50.000 $ sono una grossa cifra per noi
italiani, per gli iracheni sono una cifra impossibile, a cui neanche
vendendo tutto e chiedendo prestiti si può infatti arrivare vicino.
Terrore quindi. Terrore che le parole dei media non sanno rappresentare, i
media che parlano di “soli danni materiali.” In qualche caso è così, in
qualche caso le bombe definite “rudimentali,” quasi a sminuirne la
potenzialità omicida, hanno solo colpito le chiese dall’esterno. In qualche
caso invece, ed internet ci aiuta a vederlo, le chiese sono andate
completamente distrutte anche all’interno. Nessun morto, ma ai danni
materiali mi sentirei di aggiungere quelli morali di fedeli che non hanno
più un luogo in cui pregare perché per tutti, musulmani e cristiani, non c’è
delitto maggiore della distruzione dei propri luoghi di culto che dovrebbero
essere “sempre” rispettati in nome di Dio.
“La pace tornerà in questa terra martoriata” ha dichiarato il Patriarca
Cattolico Caldeo, Sua Beatitudine Mar Emmanuel III Delly all’agenzia di
stampa Asia News ieri. “Il mio appello è per la preghiera, perché essa sola
potrà fermare questi atti di violenza.” La preghiera, certo, ma meglio se
accompagnata da una buona dose di prudenza, la stessa prudenza che ha spinto
il Patriarca a cancellare il previsto sinodo dei vescovi che si sarebbe
dovuto tenere a Baghdad dal 19 al 21 di questo mese, una data molto, troppo,
vicina, alle esplosioni di ieri. Le rassicurazioni di George W. Bush su un
“mondo più sicuro” e gli appelli alla preghiera non sembrano tranquillizzare
i cristiani iracheni. Né i fedeli che fuggono, né i sacerdoti che celebrano
per se stessi, né i vescovi, il cui mancato sinodo, ben rappresenta quanto l
’Iraq sia lontano dal vagheggiato stato democratico, pluralistico e
rispettoso delle minoranze in cui qualcuno ha anche creduto prima guerra
dello scorso anno.

Luigia Storti 17 ottobre 2004
riconciliazione.it




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Posted by riconciliazione to News! at 10/17/2004 05:02:52 PM