Intervista A. Spataro guerra in Iraq



EDITORIALE - Infomedi


      ( Intervista )


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      LA GUERRA IN IRAQ E' ANCHE CONTRO L'EUROPA*

      La guerra dell'Iraq propone il confronto tra la cultura islamica e
quella occidentale. Quali a suo modo di vedere i punti di convergenza
impossibili tra le due civiltà?.

      Io ritengo che, per fortuna nostra, non siamo ancora alla guerra di
civiltà. Ci sono, però, due potenti minoranze internazionali, una razzista
e guerrafondaia in Occidente e l'altra fondamentalista e terrorista in
Oriente, che lavorano per precipitare il mondo nella catastrofe. Dietro
agli appelli alle religioni, ai valori astratti di democrazia da esportare,
anche con le guerre preventive, ci sono obiettivi ben più concreti ed
inconfessabili che mirano alla conquista del potere politico e al controllo
delle risorse energetiche.

      Nonostante la guerra irachena e i conflitti ancora aperti in Medio
Oriente, è possibile rilanciare il dialogo e la cooperazione economica e
culturale fra i due mondi, che non sono incomunicabili, ma possono
collaborare per rafforzare la pace e la giustizia nel mondo.

      Quale incidenza ha avuto e ha sulla situazione irachena la dolorosa
conflittualità israelo-palestinese nei termini del cosiddetto
fondamentalismo islamico e del terrorismo internazionale?

      Sono avvenimenti distinti, tuttavia fra loro, in qualche misura,
collegati all'interno della strategia più globale che punta al controllo
politico e militare del Medio Oriente e delle sue imponenti risorse
petrolifere.

      Nello specifico, il conflitto israelo-palestinese vede il governo
israeliano, diretto dal falco Sharon, esercitare il massimo della pressione
per frustrare le legittime rivendicazioni nazionali del popolo martire di
Palestina e creare in quest'area strategica, tra il Mediterraneo e i
giacimenti di petrolio, uno stato ebraico forte, ben oltre i confini
sanciti dalla ripartizione decisa in sede ONU.

      E' noto che alcune influenti organizzazioni fondamentaliste
israeliane, talune facenti parti dell'attuale governo Sharon, puntano alla
creazione del "grande Israele", perciò considerano i palestinesi come un
ostacolo per la realizzazione del loro folle disegno espansionistico. Ma
non tutti gli israeliani condividono la politica aggressiva di Sharon e dei
partiti ultrareligiosi. Esistono forze importanti che si battono, perfino
all'interno dell'esercito israeliano, per una prospettiva di pacificazione,
sulla base dello schema "due popoli e due Stati", condiviso dagli organismi
internazionali.

      L'atteggiamento dell'Europa nei confronti del problema iracheno è
quanto mai differenziato e contrapposto. Quali le ragioni dei diversi
atteggiamenti?.

      La guerra irachena è anche contro l'Europa unita. E' contro lo sforzo
che si sta facendo per costituire una unità economica e politica. Com'è
noto, l'Europa, soprattutto alcuni paesi come l'Italia, la Spagna, la
Germania, la Francia, sono fortemente dipendenti dal petrolio arabo. Sul
territorio iracheno insistono le più grandi riserve petrolifere, dopo
l'Arabia Saudita, perciò chi controllerà l'Iraq condizionerà lo sviluppo
economico e politico europeo e di vaste regioni del mondo.

      Perciò l'interesse europeo non può coincidere con quello degli Usa,
anzi nel caso specifico sembra essere esattamente contrapposto. La pace e
la cooperazione reciprocamente vantaggiosa sono le uniche vie che l'Europa
dovrà praticare verso i popoli del mondo arabo e del Mediterraneo per
difendere i veri interessi degli europei.

      La recente conferenza dei capi spirituali delle religioni del mondo,
realizzatasi a Roma, può aprire nuove strade verso una pacificazione
complessiva?

      La questione religiosa è importante, ma viene strumentalizzata da
ambedue le parti. Soprattutto, le associazioni integraliste islamiche ne
hanno fatto una molla per la mobilitazione delle masse popolari arabe. Gli
appelli alla "guerra santa" nei paesi arabo-islamici o alle "nuove
crociate" nei paesi dell'Occidente cristiano rappresentano una colossale
mistificazione della realtà sociale e politica poiché usano la religione
come strumento di lotta politica per conseguire obiettivi di potere molto
terreni.

      L'Islam radicale sta commettendo gli stessi eccessi oscurantisti
compiuti, nei secoli scorsi, in Occidente dalle diverse fazioni cristiane.
Per evitare tali errori, penso che nel mondo arabo-islamico debba essere
incoraggiato un processo di maturazione politica e culturale e di sviluppo
economico diffuso che possa sfociare in una incruenta "Rivoluzione" alla
francese che permetta di separare la sfera religiosa dalla politica e dalla
gestione dello Stato che dovrà avere un carattere laico che oggi non ha.

      Il modello della civiltà occidentale , e in particolare quello
democratico anglo-americano, che possibilità hanno di innestarsi in un'area
geografica come l'Iraq, storicamente e culturalmente distante da questi
modelli?

      Il solo pensare di esportare, o peggio d'imporre con la guerra, il
proprio modello di democrazia ad altri popoli sovrani è una pretesa
inaccettabile e un fattore di pericolosa destabilizzazione mondiale. Ogni
popolo ha proprie peculiarità storiche e politiche e d'altra natura. Perciò
la democrazia dovrà scaturire dal seno di un processo di maturazione
autonoma nazionale, individuando le forme e le istituzioni più appropriate
alla sua specifica condizione.

      L'importante è il principio sancito nella Carta dei Diritti delle
Nazioni Unite: garantire a tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, i
diritti e le libertà fondamentali di voto, di stampa, di espressione, di
organizzazione politica e sindacale, di professione religiosa, ecc).

      Ogni Stato aderente all'Onu è impegnato ad attuare la Carta dei
Diritti. Chi non rispetta tali diritti e non attua la Carta può subire
delle sanzioni da parte della Comunità internazionale, fino all'espulsione
dalle Nazioni Unite. Lo Statuto dell'Onu prevede una serie di sanzioni a
questo riguardo. Pertanto si dovrà ricorrere all'intervento militare
umanitario nei casi estremi e solo sulla base di una decisione comune degli
organismi dell'Onu. Senza mai dimenticare che spesso i conflitti e le
dittature nel terzo mondo trovano motivazioni nella fame e nelle malattie
che mietono milioni di vittime. Se gli Usa e l'Occidente desiderano aiutare
l'affermarsi del processo democratico in queste regioni dovranno tagliare i
ponti con tutti i dittatori (non c'era solo Saddam!) e favorire loro
sviluppo economico e civile dei paesi poveri, trasferendo investimenti e
tecnologie appropriate. Anche per riequilibrare il dislivello dei consumi
che oggi si fonda sui seguenti numeri: all'85% della popolazione mondiale è
riservato il 20% delle risorse disponibili sul pianeta, mentre al rimanente
15% ( ossia la popolazione dei paesi industrializzati dell'Occidente) l'80%
di tali risorse. Fino a quando ci saranno tali, abissali disparità le
guerre e i terrorismi saranno all'ordine del giorno.

      * Pubblicata sul periodico "Porta di Ponte" giugno 2004


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