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Un Impero pieno di spine - Le conseguenze della guerra all'Iraq
- Subject: Un Impero pieno di spine - Le conseguenze della guerra all'Iraq
- From: "José F. Padova" <jospadov at tin.it>
- Date: Tue, 8 Jul 2003 14:26:44 +0200
Un Impero pieno di spine Le conseguenze della guerra all'Iraq di Michael Ignatieff (L'autore è professore alla Harvard University) Copyright New York Times Magazine - Traduzione di Emilia Benghi ("la Repubblica, 12 febbraio 2003) Rivolto ai cadetti di West Point nel giorno della cerimonia di fine corso a giugno, il presidente Bush ha dichiarato: «L'America non ha imperi da estendere o utopie da realizzare». Parlando a un'assemblea di veterani riuniti a novembre alla Casa Bianca ha aggiunto: «L'America non ha ambizioni territoriali. Non aspiriamo a un impero. La nostra nazione è votata alla libertà, la nostra e quella degli altri». Sin da quando George Washington mise in guardia i suoi connazionali dall'immischiarsi in questioni extranazionali, è diffusa l'opinione che costruire un impero all'estero sia la costante tentazione della repubblica e la sua possibile nemesi. Ma quale termine esprime meglio di "impero" le spaventose dimensioni che sta assumendo il potere americano? Non c'è altra nazione che presidi il mondo tramite cinque comandi militari globali; che mantenga più di un milione di uomini e donne in armi in quattro continenti, che schieri portaerei in pattuglia su tutti gli oceani, che garantisca la sopravvivenza di altri paesi, da Israele,alla Corea, che regga il timone degli scambi e del commercio globali e riempia i cuori e le menti di un intero pianeta dei propri sogni e desideri. Uno storico ha affermato che la Gran Bretagna acquisì il suo impero in un "momento di distrazione". L'impero americano, se esiste, è stato conseguito in una condizione psicologica di profondo rifiuto. Ma l'l1 settembre ha rappresentato un risveglio, ha costretto a fare i conti con la portata del potere americano e con l'odio vendicatore che esso scatena. Gli americani non hanno forse mai pensato al World Trade Center o al Pentagono come a simboliche centrali di un impero mondiale, ma gli individui che impugnavano i taglierini sicuramente sì, e lo stesso vale peri milioni e milioni di persone che hanno inneggiato al loro terrificante esercizio propagandandolo come atto eroico. Essere una potenza imperiale tuttavia supera la dimensione di nazione più potente o semplicemente più odiata del mondo. Significa imporre il rispetto dell'ordine mondiale vigente e farlo nell'interesse americano. Significa dettare condizioni gradite all'America (su tutto, dai mercati alle armi di distruzione di massa) autoesentandosi contemporaneamente dal rispetto di altre norme (il Protocollo di Kyoto sul clima e la Corte Penale Internazionale) contrarie ai propri interessi. Significa inoltre esercitare funzioni imperiali in luoghi lasciati in eredità all'America dal crollo degli imperi del ventesimo secolo - ottomano, britannico e sovietico. Nel ventunesimo secolo l'America è sola al comando (...). L'impero americano non somiglia agli imperi del passato, fondati sulle colonie, la conquista e la responsabilità dell'uomo bianco. Non siamo più ai tempi della United Company, quando le imprese americane avevano bisogno dei marines per garantire la sicurezza dei propri investimenti oltreoceano. Il potere assoluto del ventunesimo secolo è invenzione recente negli annali delle scienze politiche, un faro imperiale, un'egemonia globale che ha i toni gentili del libero mercato, dei diritti umani, e della democrazia, imposta dal potere militare più spaventoso che il mondo abbia mai conosciuto. E' l'imperialismo di un popolo che ricorda come il suo paese si è garantito l'indipendenza ribellandosi contro un impero e che ama pensarsi amico della libertà in ogni parte del mondo. E' un impero inconsapevole di essere tale, costantemente scandalizzato che le sue buone intenzioni suscitino risentimento all'estero. Ma questo non lo rende meno impero, convinto di essere il solo, per dirla con Herman Melville, a portare il peso "dell'arca delle libertà del mondo". Secondo questa falsariga la Strategia per la Sicurezza Nazionale, voluta dal presidente e annunciata in settembre, impegna l'America a condurre le altre nazioni verso «l'unico modello sostenibile per il successo nazionale», intendendo con ciò il libero mercato e la democrazia liberale. Strana retorica per un politico texano che ha fondato la sua campagna elettorale sull'opposizione al nation building all'estero e sull'appello per un'America più umile oltreoceano. Ma l' 11 settembre ha cambiato tutti, incluso un presidente laconico e nemico della retorica. Il tono messianico di oggi è forse nuovo per lui, ma non per l'incarico che ricopre. Esso è presente nel vocabolario americano almeno da quando Woodrow Wilson andò a Versailles nel 1919 e disse al mondo che voleva renderlo sicuro per la democrazia. Dai tempi di Wilson nelle parole di tutti i presidenti è risuonata la stessa nota di redenzione, mentre nel contempo «si affannavano per non ammettere quell'imperialismo che di fatto esercitiamo», come disse nel 1960 il teologo Reinhold Niebuhr. Persino oggi che il presidente Bush sembra manovrare il paese verso la guerra con l'Iraq, l'implicazione più profonda di ciò che sta accadendo non è stata ancora pienamente affrontata: l'attacco all'Iraq è un'operazione di stampo imperiale che voterà una repubblica riluttante al ruolo di garante della pace, della stabilità, della democratizzazione e delle forniture di greggio in una regione ad alta infiammabilità abitata da popoli arabi che va dall'Egitto all'Afghanistan. II ruolo che fu un tempo dell'Impero Ottomano, poi dei francesi e dei britannici verrà assunto oggi da una nazione che deve chiedersi se, divenendo un impero, non rischi di perdere la sua anima repubblicana. (...) Non è troppo tardi per chiedersi perché mai una repubblica dovrebbe assumersi i rischi propri di un impero, incluso quello di mettere in pericolo la sua identità di popolo libero. Il problema è che l'opzione di rinunciare all'offensiva nel caso dell'Iraq potrebbe non sussistere più. Non si tratta solo di mantenere o meno le virtù repubblicane americane in un mondo malvagio. Il disimpegno virtuoso non è più possibile ormai. Dopo l' 11 settembre il problema è se la repubblica può continuare a vivere sana e salva a casa sua in assenza di una politica imperiale all'estero. Nel faccia a faccia con gli «imperi del male» del passato la repubblica accettò con riluttanza una divisione del mondo basata sulla garanzia di distruzione reciproca. Oggi però si trova di fronte avversari molto meno stabili ed affidabili - stati canaglia come l'Iraq e la Corea del Nord, potenzialmente in grado di fornire armi di distruzione di massa ad un'internazionale terroristica. L'Iraq rappresenta il primo di una serie di conflitti mirati a contenere la proliferazione di armi di distruzione di massa, il primo tentativo di chiudere il rubinetto del possibile approvvigionamento di tecnologie letali ad una rete terroristica globale. Una strategia di contenimento sarebbe preferibile alla guerra ma l'amministrazione Bush sembra essere giunta alla conclusione che il contenimento ha raggiunto il limite della sua efficacia, e non è un ragionamento sbagliato. Quella del contenimento non è una strategia adatta a fermare la produzione di sarin, di gas nervino VX, di antrace e di armi nucleari. La minaccia di una rappresaglia potrebbe scoraggiare Saddam dall'usare queste armi ma, continuando a svilupparle, egli aumenta il suo potere intimidatorio e di deterrenza sugli altri paesi, Stati Uniti compresi. Le sue armi hanno già fatto lievitare i costi di un'invasione e col passare del tempo essi potrebbero diventare proibitivi. La possibilità che la Corea del Nord possa sviluppare in breve armi di distruzione di massa rende un cambio di regime nella penisola coreana quasi impensabile. Le armi di distruzione di massa renderebbero Saddam padrone di una regione che, grazie al possesso di tanta parte delle riserve mondiali conosciute di greggio, rappresenta ciò che in termini di strategia militare si potrebbe definire il centro di gravità dell'impero. (...) Che fare allora? L'embargo e le sanzioni imposte sul regime sono andate a scapito solo del popolo iracheno. Che alternativa si pone? Un programma di ispezioni, anche permanente, potrebbe rallentare il piano di armamento del dittatore ma è facile sottrarvisi. Non ci resta che un'unica carta, da giocare con riluttanza, il cambio di regime. II cambio di regime è compito imperiale per eccellenza, poiché si fonda sul presupposto che l'interesse dell'impero abbia il diritto di trionfare sulla sovranità di uno stato. Esso pone agli americani anche l'arduo interrogativo se la loro libertà imponga il dovere di difendere la libertà di altri al di là dei confini nazionali. I precedenti qui non sono d'aiuto. Il fatto che Wilson e Roosevelt abbiano inviato degli americani a combattere e morire per la libertà in Europa ed Asia non significa che i loro successori siano legati a quest'obbligo ovunque e per sempre. La guerra in Vietnam venne spacciata ad un'opinione pubblica scettica come l'ennesima battaglia per la libertà e condusse la repubblica alla sconfitta e al disonore. Resta però un dato di fatto: la realtà cioè che esistono molti popoli che debbono la propria libertà all'esercizio del potere militare americano. Non sono solo i giapponesi e i tedeschi a essere diventati democratici sotto lo sguardo vigile dei generali MacArthur e Clay. Ci sono i bosniaci, che devono la sopravvivenza della propria nazione alla forza aerea e alla diplomazia degli Stati Uniti, il cui intervento ha posto fine ad una guerra che gli europei non riuscivano a fermare. Ci sono i kosovari, che sarebbero ancora prigionieri in Serbia se non fosse per il generale Clark e l'Air Force (...). Se è vero che solo l'invasione, e non il contenimento, può costruire la democrazia in Iraq, il problema diventa se l'amministrazione Bush abbia realmente intenzione di procedervi. Gli iracheni in esilio temono che un semplice cambio di regime, un colpo di mano per cui un bandito baathista rimpiazzi l'altro, possa convenire altrettanto bene agli interessi americani, sempre che il bandito assecondi gli interessi del Pentagono e delle compagnie petrolifere americane. Ogni volta che ha esercitato il suo potere oltreoceano l'America è sempre stata incerta se attribuire maggior valore alla stabilità - intesa non solo come stabilità politica ma anche come vantaggioso flusso di merci e materie prime - o alla retorica nazionale sulla democrazia. Ove i due valori sono entrati in conflitto il potere americano è pesantemente intervenuto a favore della stabilità, ad esempio rovesciando leader democraticamente eletti, da Mossadeq in Iran ad Allende in Cile. L'Iraq rappresenta oggi un altro banco di prova per questo tipo di scelta. Poco distante, in Iran, dagli Anni '50 agli Anni '70,l'America ha sostenuto la stabilità a scapito della democrazia. L'intervento americano in Iraq andrà incontro allo stesso destino? (...) Assumendosi l'onere di intervenire in Iraq, l'America si assume anche quello di dare nuovo ordine all'intera regione. Il fardello che l'impero comporta è di lunga durata, e le democrazie non tollerano a lungo i fardelli - tanto meno l'America. Tra i fardelli rientra l'apertura di un dialogo con gli iraniani, a quanto pare essi stessi in fermento politico, in modo che non si sentano minacciati da una democrazia guidata dagli Stati Uniti ai propri confini. Bisognerà rassicurare i turchi e spiegare ai curdi che il vero scopo della politica Usa non è la creazione di uno stato curdo che smembri la Turchia. Si dovranno persuadere i siriani a mettere da parte le rivendicazioni nei confronti di Israele e a fare la pace. I sauditi, una volta che la democrazia avrà messo radici in Iraq, dovranno essere persuasi a scegliere a loro volta il cambiamento democratico. Tutto ciò è possibile, ma esiste una sfida ancor più vasta. Deporre un governo arabo in Iraq lasciando nel contempo i palestinesi ad affrontare i carri armati e gli elicotteri israeliani è garanzia di infinita collera islamica contro gli Usa. Il rischio principale della scommessa irachena è tutto qui nel presumere che la vittoria su Saddam, in assenza di un accordo tra palestinesi ed israeliani, ottenga agli Stati Uniti un'egemonia stabile sul Medio Oriente. Senza una pace nella regione la vittoria in Iraq lascerebbe i palestinesi faccia a faccia con gli israeliani in un conflitto in cui non solo distruggerebbero gli uni gli altri, ma anche l'autorità americana nel mondo islamico. Gli americani hanno fatto da garante imperiale nella regione da quando Roosevelt si incontrò con Ibn Saud nel '45 e Truman riconobbe l'Israele di Ben Gurion nel '48, un primato che costò loro poco o nulla fino all'insorgere della resistenza palestinese armata dopo l '87. Oggi con il quotidiano delinearsi della complicità americana negli attacchi israeliani causa di vittime civili in Cisgiordania e Gaza, e il tacito supporto offerto dalle nazioni arabe agli attentatori suicidi palestinesi, il garante imperiale si trova coinvolto in prima persona in un conflitto regionale che rappresenta per la sua autorità diplomatica e militare una lunga emorragia. Visto nei giusti termini, l'intervento in Iraq comporta l'impegno, finora mai dichiarato, ad imporre la pace a palestinesi e israeliani. Una pace che come minimo garantisca ai palestinesi uno Stato contiguo in grado di sopravvivere e di dare terra e lavoro a tre milioni di persone. Una pace che impegni i palestinesi a ricostruire le infrastrutture governative distrutte, forse attraverso un'amministrazione transitoria delle Nazioni Unite, con una forza di pace che agisca su mandato Onu a garanzia della sicurezza di israeliani e palestinesi. Significa chiedere davvero troppo, ma se l'America non saprà trovare la volontà di imporre questo livello minimo di giustizia, né essa né Israele potranno dirsi al sicuro dal terrore. (...) La strategia politica americana contro il terrore avrà successo solo se sarà in grado di dare a israeliani e palestinesi una pace sufficiente a privare gli estremisti di entrambe le parti di quel sostegno che mantiene viva la violenza. Paradossalmente ridurre le dimensioni dell'impresa non ne riduce i rischi. Da una vittoriosa invasione dell'Iraq sganciata dalla pace in Medio Oriente l'America guadagnerà solo il proliferare delle cellule terroristiche nel mondo musulmano. Se l'America continuerà ad aiutare i palestinesi a ottenere uno stato, non ne deriverà la vittoria su chi, come Osama Bin Laden, la odia per ciò che è, ma almeno contrasterà l'ira di chi la odia per ciò che fa. Ecco ciò che in fin dei conti rende l'invasione dell'Iraq un atto imperiale: affinché abbia successo, dovrà costruire libertà, non solo per gli iracheni, ma anche per i palestinesi, e far sentire più al sicuro Israele. Di nuovo, il paradosso dell'intervento in Iraq sta nel fatto che le mezze misure fanno più danno di quelle intere. I poteri imperiali non possono permettersi il lusso del timore, perché il timore non è prudenza: è un'ammissione di debolezza.
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