Un Impero pieno di spine - Le conseguenze della guerra all'Iraq



Un Impero pieno di spine

Le conseguenze della guerra all'Iraq

di Michael Ignatieff (L'autore è professore alla Harvard University)

Copyright New York Times Magazine - Traduzione di Emilia Benghi

("la Repubblica, 12 febbraio 2003)

 

Rivolto ai cadetti di West Point nel giorno della cerimonia di fine corso a
giugno, il presidente Bush ha dichiarato: «L'America non ha imperi da
estendere o utopie da realizzare». Parlando a un'assemblea di veterani
riuniti a novembre alla Casa Bianca ha aggiunto: «L'America non ha
ambizioni territoriali. Non aspiriamo a un impero. La nostra nazione è
votata alla libertà, la nostra e quella degli altri».

Sin da quando George Washington mise in guardia i suoi connazionali
dall'immischiarsi in questioni extranazionali, è diffusa l'opinione che
costruire un impero all'estero sia la costante tentazione della repubblica
e la sua possibile nemesi. Ma quale termine esprime meglio di "impero" le
spaventose dimensioni che sta assumendo il potere americano? Non c'è altra
nazione che presidi il mondo tramite cinque comandi militari globali; che
mantenga più di un milione di uomini e donne in armi in quattro continenti,
che schieri portaerei in pattuglia su tutti gli oceani, che garantisca la
sopravvivenza di altri paesi, da Israele,alla Corea, che regga il timone
degli scambi e del commercio globali e riempia i cuori e le menti di un
intero pianeta dei propri sogni e desideri.

Uno storico ha affermato che la Gran Bretagna acquisì il suo impero in un
"momento di distrazione". L'impero americano, se esiste, è stato conseguito
in una condizione psicologica di profondo rifiuto. Ma l'l1 settembre ha
rappresentato un risveglio, ha costretto a fare i conti con la portata del
potere americano e con l'odio vendicatore che esso scatena. Gli americani
non hanno forse mai pensato al World Trade Center o al Pentagono come a
simboliche centrali di un impero mondiale, ma gli individui che impugnavano
i taglierini sicuramente sì, e lo stesso vale peri milioni e milioni di
persone che hanno inneggiato al loro terrificante esercizio propagandandolo
come atto eroico.

Essere una potenza imperiale tuttavia supera la dimensione di nazione più
potente o semplicemente più odiata del mondo. Significa imporre il rispetto
dell'ordine mondiale vigente e farlo nell'interesse americano. Significa
dettare condizioni gradite all'America (su tutto, dai mercati alle armi di
distruzione di massa) autoesentandosi contemporaneamente dal rispetto di
altre norme (il Protocollo di Kyoto sul clima e la Corte Penale
Internazionale) contrarie ai propri interessi. Significa inoltre esercitare
funzioni imperiali in luoghi lasciati in eredità all'America dal crollo
degli imperi del ventesimo secolo - ottomano, britannico e sovietico. Nel
ventunesimo secolo l'America è sola al comando (...).

L'impero americano non somiglia agli imperi del passato, fondati sulle
colonie, la conquista e la responsabilità dell'uomo bianco. Non siamo più
ai tempi della United Company, quando le imprese americane avevano bisogno
dei marines per garantire la sicurezza dei propri investimenti oltreoceano.
Il potere assoluto del ventunesimo secolo è invenzione recente negli annali
delle scienze politiche, un faro imperiale, un'egemonia globale che ha i
toni gentili del libero mercato, dei diritti umani, e della democrazia,
imposta dal potere militare più spaventoso che il mondo abbia mai
conosciuto. E' l'imperialismo di un popolo che ricorda come il suo paese si
è garantito l'indipendenza ribellandosi contro un impero e che ama pensarsi
amico della libertà in ogni parte del mondo. E' un impero inconsapevole di
essere tale, costantemente scandalizzato che le sue buone intenzioni
suscitino risentimento all'estero. Ma questo non lo rende meno impero,
convinto di essere il solo, per dirla con Herman Melville, a portare il
peso "dell'arca delle libertà del mondo".

Secondo questa falsariga la Strategia per la Sicurezza Nazionale, voluta
dal presidente e annunciata in settembre, impegna l'America a condurre le
altre nazioni verso «l'unico modello sostenibile per il successo
nazionale», intendendo con ciò il libero mercato e la democrazia liberale.
Strana retorica per un politico texano che ha fondato la sua campagna
elettorale sull'opposizione al nation building all'estero e sull'appello
per un'America più umile oltreoceano. Ma l' 11 settembre ha cambiato tutti,
incluso un presidente laconico e nemico della retorica. Il tono messianico
di oggi è forse nuovo per lui, ma non per l'incarico che ricopre. Esso è
presente nel vocabolario americano almeno da quando Woodrow Wilson andò a
Versailles nel 1919 e disse al mondo che voleva renderlo sicuro per la
democrazia.

Dai tempi di Wilson nelle parole di tutti i presidenti è risuonata la
stessa nota di redenzione, mentre nel contempo «si affannavano per non
ammettere quell'imperialismo che di fatto esercitiamo», come disse nel 1960
il teologo Reinhold Niebuhr. Persino oggi che il presidente Bush sembra
manovrare il paese verso la guerra con l'Iraq, l'implicazione più profonda
di ciò che sta accadendo non è stata ancora pienamente affrontata:
l'attacco all'Iraq è un'operazione di stampo imperiale che voterà una
repubblica riluttante al ruolo di garante della pace, della stabilità,
della democratizzazione e delle forniture di greggio in una regione ad alta
infiammabilità abitata da popoli arabi che va dall'Egitto all'Afghanistan.
II ruolo che fu un tempo dell'Impero Ottomano, poi dei francesi e dei
britannici verrà assunto oggi da una nazione che deve chiedersi se,
divenendo un impero, non rischi di perdere la sua anima repubblicana. (...)

Non è troppo tardi per chiedersi perché mai una repubblica dovrebbe
assumersi i rischi propri di un impero, incluso quello di mettere in
pericolo la sua identità di popolo libero. Il problema è che l'opzione di
rinunciare all'offensiva nel caso dell'Iraq potrebbe non sussistere più.
Non si tratta solo di mantenere o meno le virtù repubblicane americane in
un mondo malvagio. Il disimpegno virtuoso non è più possibile ormai. Dopo
l' 11 settembre il problema è se la repubblica può continuare a vivere sana
e salva a casa sua in assenza di una politica imperiale all'estero. Nel
faccia a faccia con gli «imperi del male» del passato la repubblica accettò
con riluttanza una divisione del mondo basata sulla garanzia di distruzione
reciproca. Oggi però si trova di fronte avversari molto meno stabili ed
affidabili - stati canaglia come l'Iraq e la Corea del Nord, potenzialmente
in grado di fornire armi di distruzione di massa ad un'internazionale
terroristica. L'Iraq rappresenta il primo di una serie di conflitti mirati
a contenere la proliferazione di armi di distruzione di massa, il primo
tentativo di chiudere il rubinetto del possibile approvvigionamento di
tecnologie letali ad una rete terroristica globale.

Una strategia di contenimento sarebbe preferibile alla guerra ma
l'amministrazione Bush sembra essere giunta alla conclusione che il
contenimento ha raggiunto il limite della sua efficacia, e non è un
ragionamento sbagliato. Quella del contenimento non è una strategia adatta
a fermare la produzione di sarin, di gas nervino VX, di antrace e di armi
nucleari. La minaccia di una rappresaglia potrebbe scoraggiare Saddam
dall'usare queste armi ma, continuando a svilupparle, egli aumenta il suo
potere intimidatorio e di deterrenza sugli altri paesi, Stati Uniti
compresi. Le sue armi hanno già fatto lievitare i costi di un'invasione e
col passare del tempo essi potrebbero diventare proibitivi. La possibilità
che la Corea del Nord possa sviluppare in breve armi di distruzione di
massa rende un cambio di regime nella penisola coreana quasi impensabile.
Le armi di distruzione di massa renderebbero Saddam padrone di una regione
che, grazie al possesso di tanta parte delle riserve mondiali conosciute di
greggio, rappresenta ciò che in termini di strategia militare si potrebbe
definire il centro di gravità dell'impero. (...)

Che fare allora? L'embargo e le sanzioni imposte sul regime sono andate a
scapito solo del popolo iracheno. Che alternativa si pone? Un programma di
ispezioni, anche permanente, potrebbe rallentare il piano di armamento del
dittatore ma è facile sottrarvisi. Non ci resta che un'unica carta, da
giocare con riluttanza, il cambio di regime. II cambio di regime è compito
imperiale per eccellenza, poiché si fonda sul presupposto che l'interesse
dell'impero abbia il diritto di trionfare sulla sovranità di uno stato.
Esso pone agli americani anche l'arduo interrogativo se la loro libertà
imponga il dovere di difendere la libertà di altri al di là dei confini
nazionali. I precedenti qui non sono d'aiuto. Il fatto che Wilson e
Roosevelt abbiano inviato degli americani a combattere e morire per la
libertà in Europa ed Asia non significa che i loro successori siano legati
a quest'obbligo ovunque e per sempre. La guerra in Vietnam venne spacciata
ad un'opinione pubblica scettica come l'ennesima battaglia per la libertà e
condusse la repubblica alla sconfitta e al disonore.

Resta però un dato di fatto: la realtà cioè che esistono molti popoli che
debbono la propria libertà all'esercizio del potere militare americano. Non
sono solo i giapponesi e i tedeschi a essere diventati democratici sotto lo
sguardo vigile dei generali MacArthur e Clay. Ci sono i bosniaci, che
devono la sopravvivenza della propria nazione alla forza aerea e alla
diplomazia degli Stati Uniti, il cui intervento ha posto fine ad una guerra
che gli europei non riuscivano a fermare. Ci sono i kosovari, che sarebbero
ancora prigionieri in Serbia se non fosse per il generale Clark e l'Air
Force (...). Se è vero che solo l'invasione, e non il contenimento, può
costruire la democrazia in Iraq, il problema diventa se l'amministrazione
Bush abbia realmente intenzione di procedervi. Gli iracheni in esilio
temono che un semplice cambio di regime, un colpo di mano per cui un
bandito baathista rimpiazzi l'altro, possa convenire altrettanto bene agli
interessi americani, sempre che il bandito assecondi gli interessi del
Pentagono e delle compagnie petrolifere americane. Ogni volta che ha
esercitato il suo potere oltreoceano l'America è sempre stata incerta se
attribuire maggior valore alla stabilità - intesa non solo come stabilità
politica ma anche come vantaggioso flusso di merci e materie prime - o alla
retorica nazionale sulla democrazia. Ove i due valori sono entrati in
conflitto il potere americano è pesantemente intervenuto a favore della
stabilità, ad esempio rovesciando leader democraticamente eletti, da
Mossadeq in Iran ad Allende in Cile. L'Iraq rappresenta oggi un altro banco
di prova per questo tipo di scelta. Poco distante, in Iran, dagli Anni '50
agli Anni '70,l'America ha sostenuto la stabilità a scapito della
democrazia. L'intervento americano in Iraq andrà incontro allo stesso
destino? (...)

Assumendosi l'onere di intervenire in Iraq, l'America si assume anche
quello di dare nuovo ordine all'intera regione. Il fardello che l'impero
comporta è di lunga durata, e le democrazie non tollerano a lungo i
fardelli - tanto meno l'America. Tra i fardelli rientra l'apertura di un
dialogo con gli iraniani, a quanto pare essi stessi in fermento politico,
in modo che non si sentano minacciati da una democrazia guidata dagli Stati
Uniti ai propri confini. Bisognerà rassicurare i turchi e spiegare ai curdi
che il vero scopo della politica Usa non è la creazione di uno stato curdo
che smembri la Turchia. Si dovranno persuadere i siriani a mettere da parte
le rivendicazioni nei confronti di Israele e a fare la pace. I sauditi, una
volta che la democrazia avrà messo radici in Iraq, dovranno essere persuasi
a scegliere a loro volta il cambiamento democratico.

Tutto ciò è possibile, ma esiste una sfida ancor più vasta. Deporre un
governo arabo in Iraq lasciando nel contempo i palestinesi ad affrontare i
carri armati e gli elicotteri israeliani è garanzia di infinita collera
islamica contro gli Usa. Il rischio principale della scommessa irachena è
tutto qui nel presumere che la vittoria su Saddam, in assenza di un accordo
tra palestinesi ed israeliani, ottenga agli Stati Uniti un'egemonia stabile
sul Medio Oriente. Senza una pace nella regione la vittoria in Iraq
lascerebbe i palestinesi faccia a faccia con gli israeliani in un conflitto
in cui non solo distruggerebbero gli uni gli altri, ma anche l'autorità
americana nel mondo islamico.

Gli americani hanno fatto da garante imperiale nella regione da quando
Roosevelt si incontrò con Ibn Saud nel '45 e Truman riconobbe l'Israele di
Ben Gurion nel '48, un primato che costò loro poco o nulla fino
all'insorgere della resistenza palestinese armata dopo l '87. Oggi con il
quotidiano delinearsi della complicità americana negli attacchi israeliani
causa di vittime civili in Cisgiordania e Gaza, e il tacito supporto
offerto dalle nazioni arabe agli attentatori suicidi palestinesi, il
garante imperiale si trova coinvolto in prima persona in un conflitto
regionale che rappresenta per la sua autorità diplomatica e militare una
lunga emorragia.

Visto nei giusti termini, l'intervento in Iraq comporta l'impegno, finora
mai dichiarato, ad imporre la pace a palestinesi e israeliani. Una pace che
come minimo garantisca ai palestinesi uno Stato contiguo in grado di
sopravvivere e di dare terra e lavoro a tre milioni di persone. Una pace
che impegni i palestinesi a ricostruire le infrastrutture governative
distrutte, forse attraverso un'amministrazione transitoria delle Nazioni
Unite, con una forza di pace che agisca su mandato Onu a garanzia della
sicurezza di israeliani e palestinesi. Significa chiedere davvero troppo,
ma se l'America non saprà trovare la volontà di imporre questo livello
minimo di giustizia, né essa né Israele potranno dirsi al sicuro dal
terrore. (...) La strategia politica americana contro il terrore avrà
successo solo se sarà in grado di dare a israeliani e palestinesi una pace
sufficiente a privare gli estremisti di entrambe le parti di quel sostegno
che mantiene viva la violenza. Paradossalmente ridurre le dimensioni
dell'impresa non ne riduce i rischi. Da una vittoriosa invasione dell'Iraq
sganciata dalla pace in Medio Oriente l'America guadagnerà solo il
proliferare delle cellule terroristiche nel mondo musulmano. Se l'America
continuerà ad aiutare i palestinesi a ottenere uno stato, non ne deriverà
la vittoria su chi, come Osama Bin Laden, la odia per ciò che è, ma almeno
contrasterà l'ira di chi la odia per ciò che fa.

Ecco ciò che in fin dei conti rende l'invasione dell'Iraq un atto
imperiale: affinché abbia successo, dovrà costruire libertà, non solo per
gli iracheni, ma anche per i palestinesi, e far sentire più al sicuro
Israele. Di nuovo, il paradosso dell'intervento in Iraq sta nel fatto che
le mezze misure fanno più danno di quelle intere. I poteri imperiali non
possono permettersi il lusso del timore, perché il timore non è prudenza: è
un'ammissione di debolezza.