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editoriale G&P n.98
- Subject: editoriale G&P n.98
- From: guerrepace at mclink.it
- Date: Thu, 3 Apr 2003 18:23:43 +0200
GUERRE&PACE via Pichi 1, Milano tel 0289422081; gurrepace at mclink.it vi inviamo l'editoriale del numero 98/aprile 2003 di Guerre&Pace, che uscirà tra qualche giorno. saluti, la redazione "Liberazione" dell'Iraq Il grande movimento per la pace - il più grande, plurale e globale mai visto - ha già ottenuto risultati importanti, fino a pochi mesi fa inimmaginabili. È cresciuto impetuosamente e ha esteso i consensi senza perdere, anzi aumentando, in radicalità. In Italia è riuscito ad unire la litigiosa opposizione portandola in piazza di peso e ha costretto il governo a sgattaiolare all'italiana ("solidali" ma "non belligeranti") nel tentativo di evitare l'ira di Bush e quella degli elettori. Nel mondo ha contribuito a isolare gli aggressori, costringendoli a rinviare per mesi la guerra, a intraprenderla senza e contro la comunità internazionale, perfino a cambiarne la "ragione sociale". Bandita pudicamente come "disarmo forzoso" di Saddam voluto dall'Onu e iniziata con il dichiarato proposito di rovesciare un regime e stabilire un protettorato militare (come l'Onu espressamente vieta), l'invasione è stata riclassificata in corso d'opera "guerra di liberazione" dell'Iraq e dei kurdi - o meglio di quanto ne resterà dopo aver raso al suolo un intero paese. Guardati a vista da un'opinione pubblica ostile, gli strateghi Usa hanno dovuto fare inoltre (o fingere) bombardamenti "mirati" con missili zigzanti attraverso Baghdad in modo da colpire solo il dittatore e schivare i civili. "LIBERATORI" E MERCENARI Bollettini, veline e mercenari dell'informazione hanno cercato naturalmente di accreditare la favoletta dei "liberatori" accolti da folle festanti e da iracheni con la bandiera bianca. Salvo poi lamentare che almeno in alcuni casi si trattasse di un "trucco" per mascherare un agguato. Dal 20 al 23 marzo ci hanno dato e smentito a ripetizione la notizia di città irachene "liberate" mentre soldati iracheni (sempre gli stessi) continuavano a sfilare arrendendosi davanti alle telecamere. Salvo gridare alla ferocia di Saddam quando ha mandato in Tv i prigionieri Usa e invocare per loro quelle Convenzioni di Ginevra che Bush ha negato ai 3.000 prigioneri afghani assassinati a freddo a Dasht Leili o a quelli mostrati (e torturati) nelle gabbie di Guantanamo. Incredibili personaggi come Belpietro e Guzzanti, Ferrara e Feltri per non dir di Schifani ci hanno "venduto" l'aggressione all'Iraq come una riedizione dello sbarco in Sicilia del 1943 e, dopo aver tuonato fino a ieri perché la sinistra italiana aveva ospitato il "terrorista" Ocalan, si sono scoperti fans della causa kurda. Altri si sono levati a condannare la "sfacciata indipendenza" della Francia, dimentica che solo gli Usa ci difendono "da Stati folli e criminali" (Sofri) e allargano con le bombe "il perimetro delle nostre libertà" (Berlusconi). Tutti ci hanno avvertito, come Biancheri su "La Stampa", che se poteva essere lecito dissentire dalla guerra "prima", a guerra ormai cominciata è doveroso marciare uniti dietro il democratico (anche se criminale) Bush contro il sanguinario, anche se "tecnicamentre aggredito", dittatore iracheno. IL RUOLO STRATEGICO DELLE BASI Ma il movimento non ha abboccato. Ha continuato e continua a scendere testardamente in piazza. Negli Usa sfida gli arresti di massa praticati dalla "più grande democrazia del mondo". In Italia chiede a governo e capo dello stato di rispettare non in modo tartufesco ma reale l'art. 11 della Costituzione, condannando la guerra di Bush e negandogli le basi. Questa richiesta è fondamentale perché può contribuire non solo a "fermare" il conflitto in corso ma a rimettere in discussione la presenza sul nostro territorio di uno strumento cruciale per la politica di guerra e di dominio globale degli Stati uniti. Le basi, come ha scritto Zoltan Grossman (v. "G&P", n. 92), non sono soltanto il mezzo di cui gli Stati uniti si servono nelle loro guerre. Sono prima ancora lo scopo di esse. In altre parole gli obiettivi strategici delle guerre condotte dagli Usa nell'ultimo decennio e di quella attuale - cioè il controllo delle risorse energetiche, il riassetto di intere regioni in senso funzionale ai loro interessi e l'imposizione di una egemonia globale - non potrebbero essere perseguiti se, a conclusione di ogni conflitto, gli Usa non lasciassero sul terreno i soldati e le basi (la cosiddetta "presenza militare avanzata") necessari per controllare regioni "dove non hanno appoggi politici o in cui possono dover contrastare una concorrenza economica". Le basi, disseminate insieme ad accordi militari e a governi fantoccio dall'Europa occidentale ai Balcani, dal Golfo alle repubbliche asiatiche ex-sovietiche e all'Afghanistan, sono le "pistole fumanti" puntate contro i popoli e gli "stati canaglia" per governare la globalizzazione. Prodotto delle guerre passate, sono premessa-promessa di quelle future. LA ROTTURA DELL'ORDINE INTERNAZIONALE Semmai il dato rilevante, messo in evidenza dalla crisi e della guerra in atto, è che tali pistole sono puntate anche contro i tradizionali partner europei e gli altri alleati. Quel presidio dei territori che poteva essere o sembrare esercitato dagli Usa a "comune" vantaggio dei paesi capitalisti e imperialisti appare oggi sempre più esclusivamente funzionale al loro dominio e a quello delle loro multinazionali. È tale "svolta" - cui da anni lavorano gli attuali consiglieri della Casa bianca (come conferma un loro documento diffuso e ritirato nel 1992) e che oggi è stata esplicitata con la teoria e con la pratica della guerra unilaterale preventiva - ad aver prodotto la rottura dell'ordine mondiale, del diritto internazionale, dell'Onu e la stessa crisi dell'egemonia statunitense. Il "veto" della Francia ne è solo l'effetto, non la causa, contrariamente a quanto vorrebbe far credere il lustrascarpe di Arcore. Che Francia, Germania, Russia, Cina, gli altri paesi che Bush non è riuscito a comprare o la Chiesa abbiano "tenuto", negando alla guerra l'ombrello dell'Onu e trascinando con sé la stessa dirigenza moderata dell'Ulivo, è per un verso frutto delle pressioni del popolo della pace, per altro verso ne ha favorito l'allargamento. Mostra in ogni caso quanto sia profondo, in un momento di crisi economica e di contestazione sociale della globalizzazione, il conflitto di interessi fra i diversi agenti capitalisti e imperialisti, fra diversi stati e settori delle classi dominanti (v. "G&P", n. 97). IL PACIFISMO DEI POPOLI E QUELLO DEI GOVERNI Naturalmente i gruppi dirigenti e gli uomini politici europei contrari alla guerra (da Chirac a D'Alema o Andreotti) non si sono "convertiti" al pacifismo. Ma si trovano a dover convergere temporaneamente coi pacifisti nell'invocare il diritto internazionale e nel denunciare l'arrogante unilateralismo Usa se vogliono cercare di costruire l'Europa come soggetto capitalista autonomo contro il tentativo di ridurla a una insignificante congerie di stati-clienti. Al tempo stesso essi stanno già cercando di utilizzare le difficoltà degli Usa e la stessa spinta pacifista per ricontrattare da posizioni di forza nuovi spazi e per "ricucire" l'unità (della Nato e dell'Onu) nella gestione del dopoguerra e delle politiche neoliberiste. Indicativo, al riguardo, il comportamento della Germania, che dice "no" alla guerra e "si" all'uso delle basi. Ma la "ricucitura" non andrebbe certo a vantaggio dei popoli e non può essere quindi l'obiettivo del movimento, che dovrà invece intensificare la sua radicale opposizione alla guerra e la sua pressione per un'Europa sociale, contribuendo così non a ricomporre ma ad aggravare le divisioni in atto e con ciò a indebolire l'egemonia degli Stati uniti e il loro ordine mondiale. GETTIAMO LE BASI, GETTIAMO BERLUSCONI Elemento specificamente italiano dentro la battaglia per "fermare" la guerra è la richiesta che l'Italia condanni l'aggressione all'Iraq e revochi ad essa ogni appoggio, compreso l'uso "passivo" delle basi Usa-Nato. Questa richiesta non potrà non caratterizzare, come sta già avvenendo, tutte le manifestazioni per la pace, da cui Berlusconi ha giustamente detto di non attendersi "niente di buono" (per lui…), gli scioperi e le fermate sul lavoro, i boicottaggi, le occupazioni delle scuole, le più diverse forme di disobbedienza, ivi compreso il blocco dei luoghi della politica e delle istituzioni, fino a costringere il governo (e il "silente" capo dello stato) a mutare radicalmente politica o a pagare un prezzo molto alto, in termini di consenso popolare e di "governabilità" del paese. Fino a provocarne, se non cambia rotta, la crisi. Questo è il primo obiettivo. La mobilitazione contro l'uso delle basi offre però anche l'occasione, come si è già detto, di far comprendere la necessità della loro definitiva eliminazione dal nostro territorio. Questo obiettivo strategico, essenziale per costruire un'Europa "autonoma" dal predominio Usa, è stato lanciato già alcuni anni fa dalla campagna "gettiamo le basi" (v. "G&P", n. 50). Oggi va ripreso con forza perché può essere condiviso assai più largamente, sia per il contesto politico favorevole, sia per l'aumentata consapevolezza che basi come quelle di Aviano o della Sardegna sono una minaccia anche per l'ambiente, la sovranità e la salute dei cittadini. Walter Peruzzi
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