editoriale G&P n.98



GUERRE&PACE
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vi inviamo l'editoriale del numero 98/aprile 2003 di Guerre&Pace, che
uscirà tra qualche giorno.

saluti, la redazione

"Liberazione" dell'Iraq

Il grande movimento per la pace - il più grande, plurale e globale mai visto -
 ha già ottenuto risultati importanti, fino a pochi mesi fa inimmaginabili. È
cresciuto impetuosamente e ha esteso i consensi senza perdere, anzi
aumentando, in radicalità. In Italia è riuscito ad unire la litigiosa
opposizione portandola in piazza di peso e ha costretto il governo a
sgattaiolare all'italiana ("solidali" ma "non belligeranti") nel tentativo di
evitare l'ira di Bush e quella degli elettori. Nel mondo ha contribuito a
isolare gli aggressori, costringendoli a rinviare per mesi la guerra, a
intraprenderla senza e contro la comunità internazionale, perfino a
cambiarne la "ragione sociale".
Bandita pudicamente come "disarmo forzoso" di Saddam voluto dall'Onu e
iniziata con il dichiarato proposito di rovesciare un regime e stabilire un
protettorato militare (come l'Onu espressamente vieta), l'invasione è stata
riclassificata in corso d'opera "guerra di liberazione" dell'Iraq e dei
kurdi - o
meglio di quanto ne resterà dopo aver raso al suolo un intero paese.
Guardati a vista da un'opinione pubblica ostile, gli strateghi Usa hanno
dovuto fare inoltre (o fingere) bombardamenti "mirati" con missili zigzanti
attraverso Baghdad in modo da colpire solo il dittatore e schivare i civili.

"LIBERATORI" E MERCENARI
Bollettini, veline e mercenari dell'informazione hanno cercato naturalmente
di accreditare la favoletta dei "liberatori" accolti da folle festanti e da
iracheni con la bandiera bianca. Salvo poi lamentare che almeno in alcuni
casi si trattasse di un "trucco" per mascherare un agguato. Dal 20 al 23
marzo ci hanno dato e smentito a ripetizione la notizia di città irachene
"liberate" mentre soldati iracheni (sempre gli stessi) continuavano a sfilare
arrendendosi davanti alle telecamere. Salvo gridare alla ferocia di Saddam
quando ha mandato in Tv i prigionieri Usa e invocare per loro quelle
Convenzioni di Ginevra che Bush ha negato ai 3.000 prigioneri afghani
assassinati a freddo a Dasht Leili o a quelli mostrati (e torturati) nelle
gabbie di Guantanamo.
Incredibili personaggi come Belpietro e Guzzanti, Ferrara e Feltri per non
dir di Schifani ci hanno "venduto" l'aggressione all'Iraq come una riedizione
dello sbarco in Sicilia del 1943 e, dopo aver tuonato fino a ieri perché la
sinistra italiana aveva ospitato il "terrorista" Ocalan, si sono scoperti fans
della causa kurda. Altri si sono levati a condannare la "sfacciata
indipendenza" della Francia, dimentica che solo gli Usa ci difendono "da
Stati folli e criminali" (Sofri) e allargano con le bombe "il perimetro delle
nostre libertà" (Berlusconi).
Tutti ci hanno avvertito, come Biancheri su "La Stampa", che se poteva
essere lecito dissentire dalla guerra "prima", a guerra ormai cominciata è
doveroso marciare uniti dietro il democratico (anche se criminale) Bush
contro il sanguinario, anche se "tecnicamentre aggredito", dittatore
iracheno.

IL RUOLO STRATEGICO DELLE BASI
Ma il movimento non ha abboccato. Ha continuato e continua a scendere
testardamente in piazza. Negli Usa sfida gli arresti di massa praticati dalla
"più grande democrazia del mondo". In Italia chiede a governo e capo dello
stato di rispettare non in modo tartufesco ma reale l'art. 11 della
Costituzione, condannando la guerra di Bush e negandogli le basi.
Questa richiesta è fondamentale perché può contribuire non solo a
"fermare" il conflitto in corso ma a rimettere in discussione la presenza sul
nostro territorio di uno strumento cruciale per la politica di guerra e di
dominio globale degli Stati uniti.
Le basi, come ha scritto Zoltan Grossman (v. "G&P", n. 92), non sono
soltanto il mezzo di cui gli Stati uniti si servono nelle loro guerre. Sono
prima ancora lo scopo di esse. In altre parole gli obiettivi strategici delle
guerre condotte dagli Usa nell'ultimo decennio e di quella attuale - cioè il
controllo delle risorse energetiche, il riassetto di intere regioni in senso
funzionale ai loro interessi e l'imposizione di una egemonia globale - non
potrebbero essere perseguiti se, a conclusione di ogni conflitto, gli Usa
non lasciassero sul terreno i soldati e le basi (la cosiddetta "presenza
militare avanzata") necessari per controllare regioni "dove non hanno
appoggi politici o in cui possono dover contrastare una concorrenza
economica". Le basi, disseminate insieme ad accordi militari e a governi
fantoccio dall'Europa occidentale ai Balcani, dal Golfo alle repubbliche
asiatiche ex-sovietiche e all'Afghanistan, sono le "pistole fumanti" puntate
contro i popoli e gli "stati canaglia" per governare la globalizzazione.
Prodotto delle guerre passate, sono premessa-promessa di quelle future.

LA ROTTURA DELL'ORDINE INTERNAZIONALE
Semmai il dato rilevante, messo in evidenza dalla crisi e della guerra in
atto, è che tali pistole sono puntate anche contro i tradizionali partner
europei e gli altri alleati. Quel presidio dei territori che poteva essere o
sembrare esercitato dagli Usa a "comune" vantaggio dei paesi capitalisti e
imperialisti appare oggi sempre più esclusivamente funzionale al loro
dominio e a quello delle loro multinazionali.
È tale "svolta" - cui da anni lavorano gli attuali consiglieri della Casa
bianca (come conferma un loro documento diffuso e ritirato nel 1992) e
che oggi è stata esplicitata con la teoria e con la pratica della guerra
unilaterale preventiva - ad aver prodotto la rottura dell'ordine mondiale, del
diritto internazionale, dell'Onu e la stessa crisi dell'egemonia statunitense.
Il "veto" della Francia ne è solo l'effetto, non la causa, contrariamente a
quanto vorrebbe far credere il lustrascarpe di Arcore.
Che Francia, Germania, Russia, Cina, gli altri paesi che Bush non è
riuscito a comprare o la Chiesa abbiano "tenuto", negando alla guerra
l'ombrello dell'Onu e trascinando con sé la stessa dirigenza moderata
dell'Ulivo, è per un verso frutto delle pressioni del popolo della pace, per
altro verso ne ha favorito l'allargamento. Mostra in ogni caso quanto sia
profondo, in un momento di crisi economica e di contestazione sociale
della globalizzazione, il conflitto di interessi fra i diversi agenti
capitalisti e
imperialisti, fra diversi stati e settori delle classi dominanti (v. "G&P", n.
97).

IL PACIFISMO DEI POPOLI E QUELLO DEI GOVERNI
Naturalmente i gruppi dirigenti e gli uomini politici europei contrari alla
guerra (da Chirac a D'Alema o Andreotti) non si sono "convertiti" al
pacifismo. Ma si trovano a dover convergere temporaneamente coi pacifisti
nell'invocare il diritto internazionale e nel denunciare l'arrogante
unilateralismo Usa se vogliono cercare di costruire l'Europa come
soggetto capitalista autonomo contro il tentativo di ridurla a una
insignificante congerie di stati-clienti. Al tempo stesso essi stanno già
cercando di utilizzare le difficoltà degli Usa e la stessa spinta pacifista per
ricontrattare da posizioni di forza nuovi spazi e per "ricucire" l'unità (della
Nato e dell'Onu) nella gestione del dopoguerra e delle politiche
neoliberiste. Indicativo, al riguardo, il comportamento della Germania, che
dice "no" alla guerra e "si" all'uso delle basi.
Ma la "ricucitura" non andrebbe certo a vantaggio dei popoli e non può
essere quindi l'obiettivo del movimento, che dovrà invece intensificare la
sua radicale opposizione alla guerra e la sua pressione per un'Europa
sociale, contribuendo così non a ricomporre ma ad aggravare le divisioni in
atto e con ciò a indebolire l'egemonia degli Stati uniti e il loro ordine
mondiale.

GETTIAMO LE BASI, GETTIAMO BERLUSCONI
Elemento specificamente italiano dentro la battaglia per "fermare" la
guerra è la richiesta che l'Italia condanni l'aggressione all'Iraq e revochi ad
essa ogni appoggio, compreso l'uso "passivo" delle basi Usa-Nato.
Questa richiesta non potrà non caratterizzare, come sta già
avvenendo, tutte le manifestazioni per la pace, da cui Berlusconi ha
giustamente detto di non attendersi "niente di buono" (per lui…), gli
scioperi e le fermate sul lavoro, i boicottaggi, le occupazioni delle
scuole, le più diverse forme di disobbedienza, ivi compreso il
blocco dei luoghi della politica e delle istituzioni, fino a costringere
il governo (e il "silente" capo dello stato) a mutare radicalmente
politica o a pagare un prezzo molto alto, in termini di consenso
popolare e di "governabilità" del paese. Fino a provocarne, se non
cambia rotta, la crisi. Questo è il primo obiettivo.
La mobilitazione contro l'uso delle basi offre però anche
l'occasione, come si è già detto, di far comprendere la necessità
della loro definitiva eliminazione dal nostro territorio. Questo
obiettivo strategico, essenziale per costruire un'Europa "autonoma"
dal predominio Usa, è stato lanciato già alcuni anni fa dalla
campagna "gettiamo le basi" (v. "G&P", n. 50). Oggi va ripreso con
forza perché può essere condiviso assai più largamente, sia per il
contesto politico favorevole, sia per l'aumentata consapevolezza
che basi come quelle di Aviano o della Sardegna sono una
minaccia anche per l'ambiente, la sovranità e la salute dei cittadini.

Walter Peruzzi