Bush sta perdendo la guerra? / 2



Da Il Manifesto del 19 Ottobre 2001 
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Come perdere una guerra
WALDEN BELLO (**)


Dopo dieci giorni di bombardamenti, sembra che nella guerra tra gli Stati uniti e Osama bin Laden il secondo sia in testa. Washington non ha raggiunto alcun risultato di valore tattico o strategico. In compenso i bombardamenti, che hanno ucciso molti civili, hanno peggiorato la posizione strategica Usa nel sud-ovest e nel sud dell'Asia erodendo la stabilità dei regimi pro-Usa nel mondo musulmano. Un regime fondamentalista radicale è ora una reale possibilità a Islamabad, mentre Washington affronta la spiacevole prospettiva di doversi ridurre a fare la forza di polizia tra un'élite saudita sempre più isolata e una popolazione di giovani recalcitranti che considera bin Laden un eroe.

Nel resto del mondo in via di sviluppo, intanto, lo shock per l'assalto dell'11 settembre sta lasciando il posto alla disapprovazione per i bombardamenti statunitensi e, cosa che preoccupa ancor più Washington, all'emergere di bin Laden nella coscienza pubblica come un irascibile botolo che corre abilmente intorno a un bullo capace di replicare in un unico modo: con tremenda vendetta.

Chiaramente Washington e Londra stano perdendo la guerra di propaganda. Il loro sforzo di dipingere la campagna militare come un conflitto tra la civiltà e i terroristi è invece diventato una crociata dei fratelli anglosassoni contro il mondo islamico. La campagna di pubbliche relazioni del primo ministro britannico Tony Blair affinché la Gran Bretagna fosse un partner alla pari nella guerra è stata così stridente che il ministro degli esteri del Belgio, che al momento ha la presidenza dell'Unione europea, si è sentito in obbligo di criticare Blair per aver compromesso gli interessi dell'Ue.

In molti hanno teorizzato che l'attacco dell'11 settembre avrebbe potuto avere lo scopo di indurre gli Usa in una guerra di intervento nel Medio Oriente che avrebbe infiammato il mondo musulmano. Che questo fosse vero o meno, i bombardamenti americani in Afghanistan hanno creato esattamente questa situazione. Leader moderati della comunità musulmana tailandese, normalmente posati, adesso esprimono apertamente il loro sostegno a bin Laden. In Indonesia, che una volta veniva considerata un modello di islamismo tollerante, un sondaggio recente ha rivelato che metà degli intervistati considerano bin Laden uno che lotta per la giustizia e meno del 35% lo considera un terrorista.

Il sostegno globale che il presidente americano George Bush ha sfoggiato è illusorio. Certo, molti governi esprimerebbero il loro sostegno a una chiamata del consiglio di sicurezza dell'Onu per una campagna globale contro il terrorismo, ma quando si arriva al criterio decisivo di offrire truppe e armi per combattere al fianco dei britannici e degli americani, si torna all'ostinata alleanza occidentale della guerra fredda.

Gli attacchi dell'11 settembre erano raccapriccianti e atroci ma, da un certo punto di vista, che dire se fossero stati una semplice variante della teoria del "foco" di Che Guevara? Per Guevara, lo scopo di una coraggiosa azione della guerriglia è duplice: demoralizzare il nemico e rinforzare la propria base popolare portandola a partecipare a un'azione in grado di dimostrare che il potente governo è davvero vulnerabile. Il nemico, a quel punto, viene provocato a una risposta militare che fiacca ulteriormente la sua credibilità in quella che è essenzialmente una battaglia politica e ideologica.

Per bin Laden, il terrorismo non è il fine, ma un mezzo verso un certo fine. E quel fine è qualcosa con cui nessuna retorica di Bush sulla difesa della civiltà attraverso bombardamenti di vendetta può competere: una visione dell'Asia musulmana senza economia americana, potere militare, élite di potere surrogate e restituita alla giustizia e alla santità islamica.

Ma Washington non era esattamente disarmata nella sua guerra ideologica. Avrebbe potuto rispondere agli attacchi dell'11 settembre in un modo che avrebbe attutito l'appeal politico e ideologico di bin Laden e aperto una nuova era nei rapporti tra gli Stati uniti e il mondo arabo.

Innanzitutto, avrebbe potuto promettere un'azione militare unilaterale e annunciare al mondo che avrebbe intrapreso la strada legale per fare giustizia, unendo pazienti indagini a livello multinazionale e diplomazia con l'impiego di meccanismi accettati internazionalmente come la Corte internazionale di giustizia. Questi metodi possono impiegare molto tempo ma funzionano.

Poi gli Usa avrebbero potuto annunciare un ampio cambiamento nelle politiche mediorientali: il ritiro delle truppe dall'Arabia saudita, la fine delle sanzioni e delle azioni militari in Iraq, sostegno decisivo per la creazione immediata di uno stato palestinese, e ordinare a Israele di terminare immediatamente attacchi alle comunità palestinesi.

Se gli Stati uniti avessero intrapreso questa strada, invece di impossessarsi della legge - come al solito - sarebbero emersi come un esempio di Grande Potenza che mostra moderazione, e avrebbero aperto la strada a una nuova era di rapporti tra popoli e nazioni.

L'istinto di un passato imperialista e unilaterale, invece, ha prevalso al punto che il diritto al dissenso e il diritto alla diversità democratica -che sono state potenti attrattive ideologiche della società americana - sono minacciate in maniera fondamentale da personaggi legge-e-ordine come il ministro della giustizia John Ashcroft, che stanno approfittando della crisi attuale per spingere avanti le proprie agende autoritarie precedenti all'11 settembre.

Washington si è messa in una situazione senza possibilità di vittoria. Se uccide bin Laden, ne fa un martire. Nel caso in cui lo catturi vivo, se lo libera ne fa il centro della resistenza musulmana, mentre la pena di morte sarebbe di fatto ostacolata dalla probabilità di massicce rivolte che si scatenerebbero in tutto il mondo musulmano. Se non riesce a catturarlo o ucciderlo, gli assicurerà un'aura di invincibilità, come qualcuno favorito da Dio e la cui causa è quindi giusta. Per quanto questo possa sembrare ironico e perverso, il conflitto Washington-bin Laden sta diventando una battaglia dello spirito contro la materia, la virtù e la forza.


** Walden Bello è professore di sociologia e amministrazione pubblica all'università delle Filippine e direttore esecutivo del Focus on the Global South, un programma dell'istituto di ricerca sociale dell'Università di Chulalongkorn a Bangkok.
(Copyright Ips/il manifesto. Traduzione di Camilla Lai)


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"Libertà duratura" perde sostenitori
Diminuiscono i paesi favorevoli alla guerra: 30 su 33 preferirebbero l'estradizione di bin Laden. Lo rivela un sondaggio Gallup 
CAMILLA LAI 


A quasi due settimane dall'inizio dei bombardamenti sull'Afghanistan è in calo nel mondo il sostegno - tanto sfoggiato dal presidente George W. Bush - per la crociata Usa al fine di stanare Osama bin Laden. Secondo l'ultimo sondaggio di Gallup International sul terrorismo, 30 paesi su 33 preferiscono all'attacco armato l'estradizione di bin Laden, a cui far seguire il dovuto processo per vie legali, quindi secondo il diritto internazionale. Solo gli americani, gli indiani e gli israeliani continuano a sostenere in maggioranza l'operazione militare in Afghanistan. Cosa che, quantomeno, solleva dubbi quanto alla possibilità che "libertà duratura" possa davvero andare avanti per due anni.

I dati emersi dall'inchiesta Gallup sono rilevanti, soprattutto visto che per settimane i circuiti mediatici - statunitensi ma non solo - hanno invece sostenuto il pieno appoggio di gran parte del mondo alla campagna globale (leggi Usa) contro il terrorismo. Inchieste della settimana scorsa del Times e del settimanale Newsweek rivelavano che l'80 per cento degli americani appoggiava a pieno la campagna militare Usa e l'81 % era addirittura favorevole a estendere l'attacco all'Iraq di Saddam Hussein. Forse sono stati i missili poco intelligenti che hanno colpito prima l'agenzia Onu per lo sminamento, poi il villaggio di Khorum, e infine la Croce rossa a far cambiare così rapidamente opinione alla gente. Fatto sta che l'ultimo sondaggio Gallup, condotto su un campione di 33 paesi - di cui 11 nell'Europa occidentale, 9 in quella orientale, 7 in America latina e anche in Israele, Sud Africa, Corea, Usa, India e Pakistan - rivela un brusco cambiamento di opinione. Non solo è infatti meglio l'estradizione, ma secondo tutti gli intervistati il governo americano dovrebbe colpire solo obiettivi militari, e non civili. E solo la Corea, Israele e la Repubblica Ceca - oltre ovviamente ai paesi Nato, ormai incastrati dall'articolo V dello statuto - si unirebbero all'operazione Usa. In testa la Danimarca, con l'80 per cento di sostegno a partecipare attivamente, il Lussemburgo (74%), la Francia (73%) e il Portogallo (70%). Contrari l'Austria (82%), la Finlandia (83%) e la Grecia (60%). L'Italia continua a voler essere chiamata in causa a tutti i costi: è a favore di un'attiva partecipazione alla campagna militare in Afghanistan il 66% degli italiani, contro solo il 26%. La poco interpellata America Latina, che finora era sembrata indifferente agli eventi che negli ultimi mesi hanno scosso il mondo, ha finalmente preso posizione: ad assoluta maggioranza contro gli Usa.

Il dato più interessante - e preoccupante - riguarda il Pakistan. Solo tre giorni fa Gallup sosteneva che il 51% dei pakistani era favorevole alla svolta filo-occidentale di Musharraf. Ma ora l'opinione pubblica pakistana rischia di rivoltarsi contro il suo stesso presidente: solo il 9% approva l'azione militare, solo il 2% ritiene che si possano colpire anche obiettivi civili e il 62% ritiene che il Pakistan non dovrebbe partecipare alla campagna militare, nemmeno fornendo basi logistiche agli Usa. 








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