[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 102



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 102 del 4 giugno 2021

In questo numero:
1. Elena Buccoliero: Women Wage Peace. Le donne fanno la pace in Israele e Palestina
2. Vera Pegna: Uno Stato, due popoli
3. Severino Vardacampi: Il primo indispensabile passo: due popoli, due stati (indipendenti, democratici, antirazzisti, antifascisti)
4. Edoardo Castagna intervista Donatella Di Cesare sul suo libro "Israele. Terra, ritorno, anarchia"
5. Tommaso Portaluri intervista Donatella Di Cesare sul suo libro "Israele. Terra, ritorno, anarchia"
6. Federico Battistutta presenta "Israele. Terra, ritorno, anarchia" di Donatella Di Cesare
7. Roberto Esposito presenta "Israele. Terra, ritorno, anarchia" di Donatella Di Cesare

1. ESPERIENZE. ELENA BUCCOLIERO: WOMEN WAGE PEACE. LE DONNE FANNO LA PACE In ISRAELE E PALESTINA
[Dal sito di "Azione nonviolenta" (www.azionenonviolenta.it).
Di se' l'autrice ha scritto: "Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista "Azione nonviolenta". La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi sono occupata per molti anni di bullismo scolastico, ora un po' di piu' di violenza intrafamiliare, e su entrambi i temi ho scritto parecchio. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019, lavoro per il Comune di Ferrara nell'ufficio Diritti dei minori e sono la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati"]

La convocazione e' stata pubblicata online il 15 maggio scorso: "Le donne fanno la pace. Uniamoci in una catena umana silenziosa.
Insieme chiediamo la fine della violenza e della lotta. Basta odio, basta paura, basta perdite di vite umane. Questo momento e' per noi! Donne arabe ed ebree, religiose e laiche; donne e uomini, giovani e anziani – da tutto lo spettro politico – ci daremo la mano per creare una catena umana di speranza". Seguono le indicazioni per il parcheggio, l'elenco delle adesioni e qualche indirizzo social per tenersi aggiornati.
Alla manifestazione indetta per il 19 maggio scorso alla porta di Jaffa, a Gerusalemme, migliaia di persone vestite di bianco venute da tutto il paese si sono prese per mano formando una catena umana per chiedere la pace in Israele e Palestina. In Italia e' passata quasi inosservata, solo il quotidiano "Avvenire" ne ha dato notizia insieme a qualche testata o agenzia di stampa online. Eppure gli attivisti per la pace in quei territori sono una presenza organizzata da molti, molti anni, e forse l'indifferenza della comunita' internazionale ha un ruolo nel mantenimento delle ostilita'.
La catena umana del 19 maggio era organizzata dall'associazione Women Wage Peace, Le donne fanno la pace. Come si legge sul sito, "e' un vasto movimento dal basso fondato nell'estate 2014 a seguito dell'Operazione Margine di Protezione. Vi aderiscono decine di migliaia di membri appartenenti alle frange politiche di destra, centro e sinistra, ebrei e arabi, religiosi e laici, dal centro del paese alle periferie, donne dai kibbutz e dagli insediamenti, e tutti quelli che si riconoscono nella richiesta di un mutuo accordo nonviolento condiviso da entrambe le parti".
Nei primi anni, tra il 2014 e il 2017, sono state molte le prese di posizione di Women Wage Peace (WWP). Nel 2015 tremila donne hanno circondato il parlamento israeliano (la Knesset). In una tenda fuori dalla residenza del primo ministro, poi, per 50 giorni centinaia di donne hanno digiunato e migliaia hanno presenziato per dimostrare il loro sostegno. Con la Marcia della Speranza del 2016 trentamila donne e uomini, israeliani e palestinesi, ebrei e arabi hanno marciato per un periodo di due settimane dal nord fino a Gerusalemme, sostenuti da contemporanei eventi di solidarieta' in tutto il mondo. Dopodiche' di fronte alla Knesset per due mesi hanno chiesto l'adozione di un accordo politico. E nel 2017 si sono susseguiti il Comitato elettorale delle donne per la pace e la sicurezza presso la Knesset, il treno della pace con mille donne in viaggio verso Beit Shean, la scritta umana "Ready for Peace" (pronti per la pace) in occasione della visita di Trump in Israele e un nuovo "Viaggio per la pace" di due settimane, dai quattro angoli del paese, con decine di migliaia di partecipanti.
Negli ultimi anni WWP ha svolto un lavoro soprattutto culturale – mostre, proiezioni cinematografiche, tavole rotonde, convegni – per far crescere la consapevolezza dell'opinione pubblica, avviare una discussione ampia sulla possibilita' di una soluzione politica, creare opportunita' di dialogo tra individui e gruppi in contesti formali e informali.
Il 15 maggio 2021 l'associazione ha pubblicato una dichiarazione contro l'assurdita' della violenza e della guerra, che in un passaggio recita: "Come molti di voi, anche noi siamo vicine alla disperazione. Ma come donne determinate a costruire la pace, rifiutiamo di rinunciare alla speranza, o ai nostri obiettivi, o all'alleanza con tutti i segmenti della popolazione israeliana. Oggi, piu' che mai, scegliamo di agire per porre fine alla violenza, agli spargimenti di sangue, alla distruzione e alla devastazione. Stiamo continuando a lavorare per una coesistenza pacifica, e per l'avvio di negoziazioni che conducano a un accordo politico, alla pace e alla prosperita'. Saremo in diversi luoghi chiave del paese con i nostri cartelli per ricordare le recenti operazioni militari che non hanno portato assolutamente a niente, e dimostrare l'assurdita' di attendere soluzioni dall'intervento militare per risolvere problemi sociali e politici".
Le donne di WWP credono davvero che una pace duratura sia possibile. Anche di fronte alle violenze che si sono verificate nelle citta' miste, la co-direttrice Braudo intervistata da insideover.com ha evidenziato trattarsi dell'intervento di frange estremiste enfatizzate dai media, a fronte di una reazione equilibrata dalla maggioranza della popolazione.
Con il pensiero alla nostra campagna "Un'altra difesa e' possibile" mi e' piaciuto scoprire che WWP nel 2018 ha proposto al Parlamento israeliano l'adozione di una legge che preveda una sorta di Gabinetto per la pace, in grado di elaborare alternative politiche all'intervento militare nelle situazioni di crisi e svolgere un lavoro di ricerca costante (in inglese sul "Jerusalem Post" del 12 agosto 2020).
Le donne di WWP si sono interrogate intorno al modo in cui si assumono decisioni in situazioni di crisi, soprattutto dopo aver letto un report pubblicato nel 2017 da Israele sull'operazione militare del 2014 da cui l'associazione e' nata, una delle campagne militari piu' sanguinose degli ultimi decenni in quelle terre. Il report arriva a conclusioni schiaccianti; non c'era stata alcuna discussione prima dei combattimenti per determinare gli obiettivi e la politica di Israele nei confronti di Gaza, ne' erano state prese in considerazione alternative non militari.
Tami Yakira e Yael Admi, attiviste di WWP, ne hanno scritto in una pubblicazione gratuita. "Non possiamo piu' continuare cosi'. Non pensiamo che i decisori siano dei demoni o abbiano cattive intenzioni, ma il destino dei nostri bambini e' nelle loro mani. Se non c'e' un meccanismo ordinato per decidere, questo e' semplicemente irresponsabile".
Admi e' un ingegnere informatico con un dottorato in filosofia, Yakira un'avvocata per i diritti dei lavoratori. Insieme hanno fatto ricerca per quasi due anni coinvolgendo qualcosa come 50 esperti di politica, sicurezza, diplomazia, diritto, economia e psicologia, incluse persone che sono state coinvolte nei processi decisionali con Yitzhak Rabin e poi con il primo ministro Ehud Barak, e hanno organizzato due conferenze. Quindi hanno steso una lista di proposte diplomatiche serie che non erano mai state discusse prima. Il risultato di questa ricerca e' in una pubblicazione riassuntiva di quasi 400 pagine che getta le basi per la proposta di una Political Alternatives First Legislation. La proposta di legge richiede che in Parlamento sia previsto un tempo per la discussione di alternative politiche all'intervento militare e siano allocate risorse per esaminare e sviluppare quelle opzioni. La proposta di legge prevede un maggior coinvolgimento delle donne nei processi decisionali, in applicazione della risoluzione 1325 del Consiglio delle Nazioni Unite assunta nel 2000, ratificata da Israele nel 2005 ma non ancora applicata. Specifica inoltre che ci sara' un monitoraggio e una reportistica sul lavoro del Comitato per gli Affari Esteri e per la Difesa del Parlamento israeliano.
I paralleli con il pacifismo italiano non finiscono qui. Alla prima Marcia Perugia-Assisi associamo la canzone "Dove vola l'avvoltoio". Anche la Marcia della Speranza indetta da WWP e' legata a una canzone. E' stata scritta da Yael Deckelbaum, cantautrice israeliana pluripremiata e attivista per la pace, e si intitola "Prayer of the Mothers", preghiera delle madri. L'hanno cantata insieme migliaia di donne israeliane e palestinesi camminando unite per un futuro di pace, e ancora risuona per milioni di persone in tutto il mondo.

2. RIFLESSIONE. VERA PEGNA: UNO STATO, DUE POPOLI
[Dal sito www.assopacepalestina.org riprendiamo questo intervento originariamente apparso su "Adista" (www.adista.it)]

Mentre scrivo, i Palestinesi uccisi durante gli 11 giorni di bombardamenti israeliani su Gaza hanno raggiunto finora la cifra di 248 e 1.948 sono i feriti; dalle macerie continuano a essere estratti corpi di persone disperse e il bilancio totale delle vittime continua a salire; 800mila persone non hanno accesso all'acqua pulita poiche' quasi il 50% della rete idrica e' stata danneggiata nei recenti combattimenti.
Questo e' il bilancio provvisorio dell'ennesima immane tragedia inflitta ai Palestinesi dal governo israeliano. Indignarsi, denunciare, condannare non serve se non a confermare la propria impotenza o a giustificare il proprio disimpegno.
L'unica cosa che serve, anzi che urge, e' cercare di configurare un futuro politico stabile che metta fine alla colonizzazione israeliana... dia al popolo palestinese un obiettivo di vita per cui lottare. Per fare cio' e' necessario partire dalla realta' sul terreno, questa.
L'intero territorio della Palestina storica, cioe' Israele e la Cisgiordania cui si aggiunge Gaza, e' governato dal punto di vista politico, militare e amministrativo da un'unica autorita', quella dello Stato di Israele, essendo limitata e di tipo amministrativo l'autonomia di cui godono i Palestinesi. Ne discende che l'intera Palestina e' oggi de facto un unico Stato in cui i due gruppi maggiori, quello palestinese e quello israeliano, vivono sotto regimi politici diversi mentre un terzo gruppo, i Palestinesi d'Israele (chiamati arabi israeliani, cristiani, drusi, si' da confondere la loro comune identita' nazionale) vengono legalmente discriminati dalla legge dello Stato-Nazione che esclude i Palestinesi israeliani dalla piena cittadinanza, riservata solo agli Ebrei.
Su questa realta' e sul futuro politico delle popolazioni presenti, da parte israeliana e occidentale il silenzio e' totale mentre Israele continua, passo dopo passo, ad annettere quel che resta della Cisgiordania per portare a compimento il progetto sionista di uno Stato ebraico sull'intera Palestina storica, espellendone quanti piu' abitanti possibile. Da parte palestinese, la cui dirigenza e' uscita piu' delegittimata che mai dall'ultima aggressione israeliana a Gaza, si continua a sostenere la tesi "due popoli due Stati", pur sapendo che non ci sono i presupposti minimi per costituire uno Stato sovrano; chi sostiene questa proposta lo fa o perche' e' privo di un'alternativa o perche' ritiene che i Palestinesi devono accontentarsi di vivere su un territorio di ben meno del 20% della Palestina, frammentato dagli insediamenti di 700.000 coloni israeliani e sotto la totale dipendenza di Israele per l'energia elettrica, la telefonia mobile, l'accesso alle falde acquifere e ad altre risorse essenziali. Lo sa perfettamente l'Autorita' Nazionale Palestinese e lo sanno i Paesi europei, l'UE e gli Stati Uniti il cui presidente Biden ieri, 21 maggio, ha dichiarato che "la soluzione 'due popoli due Stati' e' l'unica risposta possibile alla situazione attuale": una risposta che sa di turlupinatura sia del popolo palestinese, sia dell'opinione pubblica informata e che serve a dare ad Israele il tempo di appropriarsi impunemente dell'intero territorio palestinese. La nostra classe politica annuisce ed esprime la propria solidarieta' allo Stato ebraico recandosi non, si badi bene, all'ambasciata israeliana, bensi' alla sinagoga, avallando quindi l'aggressione israeliana in atto e sostenendo l'amalgama fra ebreo e israeliano, caro ai sionisti poiche' permette loro di parlare a nome di tutti gli ebrei del mondo.
Insomma lo Stato del mondo che piu' ha violato il diritto internazionale e il diritto umanitario, che ha commesso e continua a commettere crimini gravissimi a danno di un popolo che opprime da 70 anni, trova il sostegno – e quindi la garanzia della propria impunita' – da parte di Paesi fin qui riconosciuti come i campioni del diritto internazionale e di quella democrazia che, per giunta, vogliono esportare. Come mai si e' arrivati a tanto? All'inizio del secolo scorso, i governi europei diedero il loro appoggio al progetto di uno Stato ebraico in Palestina, presentato loro come un "baluardo di civilta' contro la barbarie", poiche' comportava due vantaggi: avere in Medio Oriente un cuneo europeo utile a dividere i Paesi arabi si' da assicurare la difesa degli interessi europei e, favorendo l'emigrazione dei loro Ebrei, risolvere finalmente la sempre presente questione ebraica. Per i sionisti, invece, l'adesione al loro progetto da parte dei governi europei significava avere sia mano libera nella loro impresa coloniale, sia l'appoggio necessario sul piano militare, diplomatico e della propaganda. Seguirono gli eventi che conosciamo; la colonizzazione d'insediamento, la spartizione della Palestina, la proclamazione unilaterale dello Stato d'Israele, le conquiste territoriali, gli insediamenti, le annessioni; ogni tappa raggiunta con efferatezza per cacciare quanti piu' Palestinesi possibile, con la violenza della menzogna, del sopruso, delle armi piu' sofisticate della cui efficacia Israele e' garante, avendole ormai sperimentate su Gaza. Grazie a un formidabile apparato di propaganda, finanziato con prodigalita' e incaricato di curare l'immagine di Israele e del suo "esercito piu' umano del mondo", e grazie alla cassa di risonanza dei nostri media, ci viene spiegato che i colpevoli sono sempre gli altri, che Israele e' sempre la vittima e che l'antisionismo e' una forma di antisemitismo. E con cio' l'impunita' di Israele e' assicurata.
La pubblicistica sulle fabbriche del falso ha chiarito i meccanismi di una guerra continua e sistematica contro la verita'. La Palestina e' avvolta, dilaniata, sconvolta dalle nebbie oscure della strategia della menzogna della politica contemporanea, sempre piu' raffinate e scientifiche.
Tuttavia, mentre sul terreno la colonizzazione va avanti e su Gaza piovono le bombe, i Palestinesi di Israele e quelli della Cisgiordania scendono per le strade e Hamas, con la sua azione militare, esce vincitore dall'ultimo attacco israeliano e si presenta come l'unico difensore dell'intero popolo palestinese.
Con quale futuro?
Preso atto che lo Stato unico esiste nei fatti poiche' Palestinesi e Israeliani vivono su un unico territorio (Israele non ha mai fissato le sue frontiere) e sono governati da un unico governo, piaccia o no ai difensori dello "Stato ebraico" e della sua "sicurezza", e' la composizione delle due popolazioni e il loro andamento demografico che sta delineando il futuro, indipendentemente dalle turlupinature dei potenti e dai tatticismi delle organizzazioni palestinesi.
Succede perche' attualmente il popolo israeliano e' costituito da un 20% di Ebrei di varie origini europee e americane (l'establishment), da un 50% di Ebrei di origine mediorientale, cioe' arabi e sefarditi fuggiti dalla Spagna durante l'Inquisizione (fra questi i miei avi) e da un 20% di Palestinesi con cittadinanza israeliana. Se a costoro aggiungiamo i 5 milioni di Palestinesi della Cisgiordania e di Gaza – il cui incremento demografico attuale e' del 3,04% contro quello dell'1,06% degli Israeliani – constatiamo che la popolazione attuale dell'intero territorio e' araba all'80%.
Qui sta il vero problema la cui soluzione inaggirabile, cioe' un unico Stato per i due popoli, quello israeliano e quello palestinese, scardinerebbe i malefici equilibri geopolitici mettendo a repentaglio gli interessi occidentali e segnerebbe la fine dello Stato ebraico, ovvero del cuneo europeo nel Medio Oriente arabo. Cio' spiega il silenzio dei potenti. Un'utopia? Diversamente dalla storia dell'Europa, quella del Levante ci racconta della convivenza pacifica fra popoli e fedeli di varie provenienze: un messaggio di umanita' e di speranza per i popoli in marcia per la loro liberazione.

3. RIFLESSIONE. SEVERINO VARDACAMPI: IL PRIMO INDISPENSABILE PASSO: DUE POPOLI, DUE STATI (INDIPENDENTI, DEMOCRATICI, ANTIRAZZISTI, ANTIFASCISTI)

Per molte ragioni ci sembra che il primo indispensabile passo per una risoluzione ragionevole del conflitto israelo-palestinese consista in tre elementi:
a) il pieno riconoscimento internazionale dello stato di Palestina nei confini del 1967, uno stato realmente pienamente indipendente, democratico, antirazzista ed antifascista;
b) la piena garanzia internazionale della sicurezza dello stato di Israele e dell'intera sua popolazione dalla minaccia tuttora incombente di distruzione da parte di alcune potenze regionali (ed organizzazioni transnazionali) che non fanno mistero nella loro propaganda e dimostrano con le loro azioni di puntare a questo obiettivo;
c) la revoca da parte della Knesset della sciagurata decisione del 2018 di istituzionalizzare Israele come stato etnico (l'etnicizzazione dell'ordinamento giuridico implica de jure oltre de facto un regime di apartheid incompatibile con la democrazia e lo stato di diritto); e quindi il varo di tutti i provvedimenti necessari per fare di Israele uno stato pienamente democratico, antirazzista ed antifascista, come era nella volonta' di grandi figure come Martin Buber;
Ergo: il primo indispensabile passo e' nella costruzione di un assetto basato sul principio "due popoli, quindi due stati: indipendenti, democratici, antirazzisti, antifascisti".
Con questo avvio tutti gli altri problemi potranno essere affrontati e - nei limiti del ragionevolmente possibile - risolti con adeguati negoziati.
Disarmato il conflitto, riconosciute e garantite e consolidate la dignita' e la liberta' e la sicurezza di tutti, si potra' poi valutare quale ulteriore cammino compiere insieme.
Pace, disarmo, smilitarizzazione: salvare le vite e' il primo dovere.
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Tutti i popoli e tutte le persone hanno diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Siamo una sola umanita' in un unico mondo vivente.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Non uccidere.
Salvare le vite.

4. LIBRI. EDOARDO CASTAGNA INTERVISTA DONATELLA DI CESARE SUL SUO LIBRO "ISRAELE. TERRA RITORNO, ANARCHIA"
[Dal sito www.avvenire.it riprendiamo questa intervista dell'8 gennaio 2014 dal titolo "Israele, dove tutti sono stranieri"]

E' uno Stato, un popolo, una storia, una religione. Israele e' al tempo stesso immerso nel mondo e al di sopra di esso, categoria del pensiero dalle infinite sfaccettature – e ognuna di queste, a sua volta, carica di infinite implicazioni. A cavallo tra geopolitica, storia e filosofia: e proprio filosofico e' l'approccio che Donatella Di Cesare – docente di Filosofia teoretica alla Sapienza e vicepresidente dalla Societa' heideggeriana – da' al suo Israele. Terra, ritorno, anarchia, in uscita domani per Bollati Boringhieri (pagine 110, euro 12,50). Anzi: "Il mio – dichiara – e' il primo libro filosofico su questo tema: la questione di Israele e' inserita nel contesto della globalizzazione e del tramonto degli Stati-nazione. Israele e' diventato il surrogato dell'ebreo nella retorica antisemita. Si parla dello Stato di Israele? Oppure del nome con cui viene chiamato tutto il popolo ebraico? Io ho cercato di aggirare l'alternativa riflettendo sul futuro dell'Israele attuale alla luce dell'antico Israele e dunque della Torah. Spero di contribuire a rivedere vecchi stereotipi, a superare recinti e steccati, per uscire da quella logica della belligeranza di cui risente anche l'informazione sul conflitto".
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- Edoardo Castagna: Israele storico, sionismo, Stato-nazione... Come s'intersecano e come si sovrappongono queste categorie?
- Donatella Di Cesare: Sono convinta che il sionismo politico, quello di Herzl, abbia avuto il merito di ottenere una cittadinanza ebraica e uno "Stato degli ebrei" mentre la modernita' volgeva al termine. Il prezzo e' stato, pero', il rifiuto dell'estraneita', cioe' della vocazione di Israele. Una volta fondato lo Stato-nazione, emerge infatti la tragicita' del sionismo: se prima era il singolo ebreo, ammesso come cittadino, a restare un paria, dopo il 1948 e' lo Stato di Israele il paria fra gli Stati-nazione. Ecco perche' ho ripreso e sviluppato quella corrente del sionismo culturale o filosofico che, da Buber a Levinas, guardando oltre lo Stato ha affidato a Israele un compito ben piu' ampio. Ha visto nel ritorno a Sion non l'instaurazione di una patria nazionale, ma l'apertura di un nuovo ordine del mondo.
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- Edoardo Castagna: Eccezionalita' di Israele e voglia di normalita' degli israeliani: come si puo' sciogliere – se si puo' sciogliere – questa tensione?
- Donatella Di Cesare: Al desiderio piccolo-borghese di normalizzazione deve essere opposta la vocazione all'estraneita' che ha guidato nei secoli il popolo ebraico. Che il compito di Israele non sia quello di sovvertire l'ordine statocentrico del mondo? L'aveva gia' intuito Hannah Arendt. Ecco perche' l'emergere di Israele e' per me l'emergere di tempi nuovi. E' come se, nella storia dei popoli che lungo i secoli sono andati spartendosi il pianeta, Israele abbia fatto ritorno per disturbare questa spartizione, per contestarla nel mezzo delle frontiere, proprio su quella terra.
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- Edoardo Castagna: Quanto la peculiarita' dell'area geografica – per i cristiani, la Terra Santa – incide sulla percezione ideale di Israele e sul destino dello Stato storico? Una delle accuse piu' frequenti mosse a Israele e' aver occupato le terre altrui, quelle dei palestinesi...
- Donatella Di Cesare: Si', molti vorrebbero vedere qui l'illegittimita' di Israele, il suo peccato originale. Il mio intento e' di rovesciare l'accusa. E' un tema toccato di recente da intellettuali su posizioni opposte, da Shmuel Trigano a Judith Butler. Ma che cosa vuol dire "terra promessa"? Nell'ebraismo vuol dire che la terra-madre e' soppiantata da una terra-sposa, che non puo' essere rivendicata per un diritto acquisito. Sulla terra promessa Israele e' chiamato dunque a testimoniare la possibilita' di un nuovo abitare ricordando a se' e agli altri che nessuno e' autoctono, nessuno cioe' e' indigeno. Non lo sono pero' neppure i palestinesi, che fanno a loro volta l'errore di richiamarsi a un'autoctonia. La terra promessa e' concessa a chi viene da fuori, a chi ne e' gia' separato, a chi vi giunge da straniero. E' per far si' che i popoli che la abitano diventino stranieri e che gli stranieri vi trovino la loro residenza. Cosi', per entrambi, potra' essere terra d'asilo. Perche' ogni popolo e' invasore di una terra che non gli appartiene e che puo' abitare solo se serba il ricordo della sua estraneita'. Sulla Terra nessuno e' autoctono: va rilanciato lo statuto di "stranieri residenti" per delineare una nuova politica. Per questo cito all'inizio del libro un versetto di Levitico che mi sembra particolarmente attuale: "Mia e' la terra, perche' voi siete stranieri e residenti provvisori presso di Me". Siamo tutti ospiti e affittuari. Lo dovremmo ricordare bene anche in Italia. La condizione di "stranieri residenti" e' la sola in cui per la Torah e' consentito abitare la terra. La riprendo sia per far valere i diritti di una cittadinanza aperta, sganciata dallo Stato, sia per guardare il conflitto mediorientale sotto una prospettiva inedita.
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- Edoardo Castagna: Nell'epoca della globalizzazione, dei confini sempre piu' labili rispetto all'eta' degli Stati-nazione, ha ancora senso parlare di "due popoli e due Stati"?
- Donatella Di Cesare: A mio avviso, no. E sono in molti ormai a dubitare che sia questa la road map per la pace. Sotto la spinta della globalizzazione i confini dei singoli Stati sembrano implodere. Il conflitto tra Israele e Palestina va letto come il conflitto fra una societa' post-nazionale e una societa' proto-nazionale. Sta qui in gran parte la difficolta': le due parti non s'incontrano, anche perche' si trovano in fasi diverse della loro storia. Ma ha senso moltiplicare confini e limiti e ipotizzare dunque due Stati? Non rientra questa soluzione nel paesaggio di una tarda modernita'? Occorrerebbe invece pensare a forme nuove di sovranita' e soprattutto di cittadinanza per una terra che e' refrattaria ai confini perche' e' in se' una frontiera, e' anzi la soglia della Trascendenza.
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- Edoardo Castagna: E allora quale puo' essere la strada verso la pace nella regione?
- Donatella Di Cesare: Siamo abituati a intendere la pace solo negativamente, come il superamento mai definitivo delle ostilita'. Percio' la guerra ci sembra un rimedio inevitabile, mentre non riusciamo neppure a immaginare la pace. C'e' un modo per uscire da questo circolo che va dalla guerra alla guerra? Per intravedere un al di la'? Ebbene, e' proprio la preoccupazione quotidiana per l'altro cio' che porta oltre la guerra. Il che vuol dire che la pace non va rinviata a una fine di la' da venire. Il circolo si spezza e la guerra e' interrotta da una pace anarchica che contesta la priorita' della guerra, che ne rovescia l'ordine. Shalom e' in ebraico un nome di Dio e vuol dire la pace che, non imposta, irrompe con la giustizia.

5. LIBRI. TOMMASO PORTALURI INTERVISTA DONATELLA DI CESARE SUL SUO LIBRO "ISRAELE. TERRA RITORNO, ANARCHIA"
[Dal sito www.digi.to.it (magazine online del Servizio Politiche Giovanili della Citta' di Torino) riprendiamo questa intervista del 17 febbraio 2014 dal titolo "La filosofa Donatella Di Cesare: Israele richiama il declino dell’idea di stato-nazione" e il sommario "Intervista all'autrice di "Israele. Terra, ritorno, anarchia", che nel pomeriggio dialoghera' sul tema con l'eurodeputato e filosofo torinese Gianni Vattimo"]

Donatella Di Cesare e' professore ordinario di Filosofia teoretica all'Universita' La Sapienza di Roma. Oggi pomeriggio alle 17.30 – a Palazzo Nuovo, ex-Sala lauree di Giurisprudenza, piano atrio – con Gianni Vattimo, filosofo ed europarlamentare, presentera' il suo ultimo libro, "Israele. Terra, ritorno, anarchia", edito da Bollati Boringhieri.
Il saggio rappresenta una sfida filosofica e politica assieme. Una delle tesi di fondo ' che l'attualita' del "caso Israele" oggi non e' legata soltanto al guerreggiare delle armi e delle bombe, di cui purtroppo i giornali ci testimoniano la presenza ma che, sul piano geopolitico, la vera posta in gioco e' rappresentata dal fatto che il "caso Israele" richiami il declino intero dell'idea di stato-nazione e dei nazionalismi connessi. Le ricadute sul piano politico, come si puo' immaginare, non sono irrilevanti.
In attesa di partecipare oggi pomeriggio alla conferenza, abbiamo pensato di fare una chiacchierata con l'autrice.
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- Tommaso Portaluri: Per secoli la politica si e' fondata, agita e pensata sulla nozione di stato, che oggi, nell'epoca della globalizzazione, pare venir meno. Quale può essere il ruolo, in questo contesto, del "caso Israele"?
- Donatella Di Cesare: Ho cercato di prendere le distanze dalla cronaca dell'attualita' per poter riflettere su una questione cosi' complessa e delicata. A ben guardare in Italia, ma in fondo anche in Europa, manca un dibattito serio e approfondito sul Medio Oriente. Tutto si riduce a una cronaca, spesso molto di parte, che non aiuta ne' a ricostruire la storia ne' tanto meno a offrire gli elementi per un dibattito. Direi che finora hanno prevalso la geografia e la questione viscerale dei confini misurati con il centimetro. E questo in una terra dove sono decisive, con la storia, la teologia e la politica. Percio', a me pare che il "caso Israele" vada letto nel contesto della globalizzazione. Ha aperto la strada la filosofa Hannah Arendt. Imprescindibili sono le sue riflessioni non solo sullo stato-nazione, ma anche sul sionismo e soprattutto sull'ipotesi binazionale sostenuta da Buber e Magnes. Lei era gia' allora contraria, perche' si rendeva conto che dove si fa prevalere la nazione, c'e' poco spazio per i popoli, e dove si fronteggiano gli stati, la guerra e' inevitabile. Dovremmo dunque vedere nel tramonto dello stato-nazione, che sperimentiamo qui ogni giorno, una chance per il Medio Oriente. In altri termini, io non credo alla soluzione "due popoli, due stati". Ritengo che si tratti solo di un espediente della politica internazionale per rinviare continuamente le trattative e dare l'impressione che il problema possa essere risolto fra gli stati-nazione. Al contrario, e' evidente che la spartizione e' ormai impossibile. Sebbene da un lato gli israeliani costituiscano una societa' post-nazionale e i palestinesi una societa' proto-nazionale, proprio per questo l'ipotesi dei due stati e' di fatto gia' superata. Paradossalmente gli utopisti, in senso negativo, sono coloro che fanno credere che cio' sia realizzabile. Solo in una prospettiva che oltrepassi lo stato, e ripensi i concetti di comunita' e di cittadinanza, si puo' aprire un nuovo capitolo. In questo senso l'emergenza di Israele nel mondo e' per me l'emergere di tempi nuovi. E' la possibilita' esemplare di un superamento anarchico dell'ordine stato-centrico del mondo.
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- Tommaso Portaluri: Nel suo libro lei parla di Israele come "laboratorio politico della globalizzazione", cioe' un luogo nel quale si mette in discussione la nozione di identita' fondata sul radicamento a un territorio.
- Donatella Di Cesare: La sfida di Israele e' quella di testimoniare un modo altro, differente di abitare, cioe' di esistere. All'inizio del mio libro cito un versetto di Levitico a cui sono molto affezionata: "Mia e' la terra, perche' voi siete stranieri e residenti provvisori presso di Me". La parola ebraica e' gherim, che vuol dire appunto "stranieri residenti". Siamo ormai abituati a prendere il diritto romano come se fosse l'unico diritto della storia, quasi un diritto naturale. Ma il diritto ebraico, sopravvissuto grazie alla Torah, sebbene l'impero romano abbia sconfitto Israele, non si fonda sulla proprieta' privata della terra. Il ritmo del sette – il settimo anno, cioe' l'anno sabbatico, e poi il quarantanovesimo, cioe' l'anno dello Yovel, del Giubileo – scandisce il tempo in cui le terre prese in affitto vanno restituite. Scaturisce peraltro da qui il concetto di rivoluzione permanente. Se non e' prevista la proprieta' privata definitiva, e' perché tutti devono abitare sulla terra senza identificarsi, come stranieri residenti, mantenendo una estraneita' e una separazione. Solo cosi' si puo' accogliere l'altro. Questo vale anche per i palestinesi che, a loro volta, rivendicano in modo nazionalistico la proprieta' e si sentono espropriati. Sulla terra nessuno e' autoctono; non c'e' il diritto del nativo e dell'indigeno. Perche' sul luogo in cui ci troviamo, siamo gia' stati preceduti da altri. Israele testimonia il vuoto su cui poggiano tutte le nazioni. Percio' e' il laboratorio della globalizzazione.
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- Tommaso Portaluri: Molte pagine del suo libro sono dedicate all'esperienza dei kibbutzim, ossia a quei laboratori politici che hanno tentato di costruire l'Israele storico, come un'entita' profondamente diversa da quella che si e' realizzata. Che cosa ' utile riscoprire di quei progetti?
- Donatella Di Cesare: Per questo libro e' stata molto importante per me la lettura dei testi di Gustav Landauer, protagonista della Repubblica dei Consigli, l'unica rivoluzione anarchica della storia. Figura straordinaria del pensiero politico ebraico, Landauer viene oggi riscoperto in Germania, negli Stati Uniti, e da poco anche in Italia. Il suo comunismo anarchico ha ispirato i kibbutzim che sono nati sulla sua idea di comunita', ma anche sull'idea della rivoluzione permanente. Landauer aveva intuito lo scontro tra uno stato mondiale, una sorta di Golem, e una "comunita' di comunita'". Oggi questo scontro e' attualissimo: da un lato lo stato mondiale, dall'altro la possibilita' di una grande kibbutz, sempre decentrato, che si articoli in tanti, molteplici e differenti kibbutzim. Il socialismo di Gerusalemme non e' naufragato. E' stato soffocato dalla politica pragmatica di una sinistra che, anche in Israele, ha lavorato e lavora per una normalizzazione. I temi della giustizia sociale, del diritto d'asilo, della cittadinanza e dell'ospitalita' sono oggi all'ordine del giorno. La sinistra ha bisogno in Israele, ma a dir vero ovunque, di recuperare l'insegnamento del comunitarismo anarchico.
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- Tommaso Portaluri: L'ultimo capito del libro e' dedicato al tema della pace. Esiste oggi un modo radicale di porre il problema, in chiave storica e filosofica?
- Donatella Di Cesare: Credo che ci sia un pacifismo che, magari inconsapevolmente, sposa la logica della belligeranza e concepisce la pace come l'esito di un faticoso superamento della guerra. D'altra parte la filosofia, da Eraclito a Kant, ci ha insegnato a vedere cosi' la pace, in negativo, come la negazione della guerra. Si dovrebbe invece provare finalmente a capovolgere la prospettiva. Percio' io parlo di una "pace anarchica" che interrompe quel circolo che va dalla guerra alla guerra. Non e' la pace della non-aggressione, che usa la guerra preventiva per assicurare a ciascuno la propria posizione; piuttosto e' la pace della non-indifferenza, dell'ospitalita' nei confronti della differenza dell'altro, che irrompe d'improvviso interrompendo il tempo.

6. LIBRI. FEDERICO BATTISTUTTA PRESENTA "ISRAELE. TERRA RITORNO, ANARCHIA" DI DONATELLA DI CESARE
[Da "A. rivista anarchica", a. 44 n. 388, aprile 2014 (disponibile nel sito www.arivista.org) riprendiamo la seguente recensione dal titolo "Utopie, comunita' e vita vera"]

Donatella Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
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Israele: storia di una contraddizione
Cosa possono avere in comune Israele e il sionismo, da una parte, l'anarchia con la sua "esagerata idea di liberta'", dall'altra, e una radicale richiesta di pace in un mondo sempre piu' in guerra? Il recente saggio di Donatella Di Cesare (Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014) riannoda in modo originale i fili a cui questi temi rimandano. Se sfogliamo l'indice notiamo che il libro, a sua volta, si articola in tre momenti: il primo ripercorre le dinamiche interne al movimento sionista, lungo le tappe significative della sua storia; nel secondo vediamo emergere i motivi di una originale sensibilita' libertaria all'interno del pensiero ebraico moderno; l'ultimo propone una riflessione, quanto mai partecipata, sull'attualita' della nozione di pace/shalom. Vediamoli piu' da vicino.
Che cosa si debba intendere per sionismo e' oggi un buon esercizio didattico, anche presso il popolo di sinistra che spesso si dichiara, apertis verbis, antisionista senza sapere bene cosa significa tale espressione. Potremmo dire che il sionismo sta ad Israele, grosso modo, come il risorgimento sta all'Italia. Ma il paragone appare insufficiente. Nelle sue linee generali questa corrente e' nata con l'obiettivo di edificare uno stato-nazione per il disperso e perseguitato popolo ebraico. Il testo mostra bene come si sia verificato uno slittamento, in primo luogo semantico, che partendo da Sion – nome che indica una collina di Gerusalemme e, per estensione, Gerusalemme stessa – giunge alla nozione, tutta politica, di ricondurre il popolo ebraico all'idea di nazione e infine – poiche', in omaggio alla modernita', non si da' nazione senza stato – alla prospettiva di un ordinamento statuale, con tanto di ordinamento giuridico, confini territoriali su cui esercitare il monopolio della violenza e cosi' via. Tali slittamenti progressivi – pur partendo da antecedenti storici molto antichi, risalibili al profondo legame che unisce il popolo mosaico alla terra promessa – giungono all'idea di uno stato-nazione, rischiando di perdere lungo il cammino l'afflato originario, suscitando alla fine perplessita' all'interno dello stesso ebraismo. Tutto cio' nel libro lo vediamo condensato nel "grande interrogativo", esplicitato da Joseph Roth, se gli ebrei non fossero "qualcosa di piu' che una 'nazione'" descrivibile secondo parametri giuridico-politici.
Il sionismo, quindi, e' stato un movimento tutt'altro che granitico; al suo interno, ad esempio, operava la corrente del sionismo culturale a cui aderiva anche Martin Buber, il quale reputava riduttivo riportare il concetto di Sion all'idea di stato-nazione. Buber, lo sappiamo, si fara' portavoce della costruzione non di uno stato israeliano, ma di una "comunita' di comunita'" che alla fine avrebbe vanificato ogni nozione di potere statuale (ricordiamo che Di Cesare ha anche curato la piu' recente edizione italiana di Sentieri in utopia di Buber: cfr. "A" 351, marzo 2010). Proprio oggi, mentre stiamo assistendo, per opera del capitale globale, al declino inesorabile degli stati-nazione (di cui si puo' ben affermare cio' che fino a ieri si diceva dei monarchi costituzionali: regnano ma non governano), la prospettiva buberiana appare meno fantasiosa di quanto i critici un tempo le imputavano. Assai meno fantasiosa di chi propugnava "l'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza", del "socialismo in un solo paese", o di chi si ostinava – e si ostina tuttora – a parlare di un'"autonomia del politico", di una classe sfruttata che decide di farsi stato (mentre, ahime', la stessa forma-stato si va disfacendo di fronte ai poteri sovranazionali e il politico diviene una categoria ancillare rispetto al capitale finanziario).
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Teocrazia anarchica
Soprattutto a Buber, e al suo amico e mentore Gustav Landauer, e' infatti dedicato il capitolo centrale, su "comunita' anarchica e potere planetario". Con Buber la comunita' prende definitivamente congedo dallo stato. Comunita' dialogica, fondata sulla relazione io-tu, senza potere, dunque costitutivamente an-archica. E anarchica anche perche' profondamente religiosa, "perche' non esiste sfera politica all'infuori di quella teopolitica". Ma qui, sia chiaro, siamo agli antipodi di Schmitt e della sua teologia politica, quando questi dichiara di aver trasferito il modello teologico cristiano al campo del diritto: il sovrano altro non sarebbe che una secolarizzazione del Dio biblico. Cosi' come Dio crea il mondo ex nihilo, il sovrano crea dal nulla l'ordine giuridico (il "Dio onnipotente che e' divenuto l'onnipotente legislatore"). Israele, dira' invece Buber, dovra' essere una teocrazia anarchica. Teo-crazia diretta, per nulla metaforica: il potere, la terra e tutto il resto sono di Dio e non degli uomini. Nessuno si puo' dichiarare re, sovrano o capo di qualcosa. Teo-crazia contro iero-crazia, vale a dire contro il potere divenuto monopolio di una casta sacerdotale che pretende di rappresentare la volonta' divina.
L'ultima parte del volume e' invece una riflessione, per nulla scontata, sul desiderio di pace in un mondo in guerra. E' possibile, si chiede l'autrice, una pace non fondata sulla guerra e sugli eserciti, una pace fondata su se' stessa e non sul terrore e sulla minaccia? Partendo dal riconoscimento della letale relazione sempre esistita fra filosofia e guerra – da Eraclito ("la guerra e' padre di tutte le cose") fino ai moderni – Di Cesare giunge ad affermare, con Levinas, che "della pace si puo' avere solo un'escatologia", poiche' la vera pace si situa non dopo, bensi' prima, oltre e al di la' di ogni logica di guerra. E' la pace anarchica, non deducibile dalla guerra, non il risultato di calcoli o di compromessi; al contrario, e' l'istante di una trasformazione completa, senza mediazioni, la cifra dell'avvento improvviso di un mondo assolutamente altro.
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Vita vera e vita falsa
Alcuni dei temi trattati da Donatella Di Cesare possono rinviare a un piccolo libro di Judith Butler apparso la primavera scorsa (A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma 2013). Quali vite sono degne d'essere vissute e a chi spetta una buona vita, si domanda Butler? E, ribaltando la questione: quali morti meritano d'essere pianti e compianti, meritevoli di lutto? E ancora: "come condurre una vita buona in una vita cattiva?". L'autrice si e' posta questi interrogativi, fornendo alcune sollecitazioni, in occasione del conferimento del Premio Adorno (le sue domande provengono proprio da una frase dei Minima Moralia: "Non si da' vera vita nella falsa"), ricevuto nel 2012 a Francoforte e preceduto da accese polemiche per l'impegno della filosofa americana contro l'occupazione israeliana della Palestina.
L'autrice esemplifica il suo discorso citando le condizioni di chi vive in stato di guerra o in situazione di occupazione; di chi e' recluso, in attesa di processo; dei precari, dei migranti, dei clandestini e dei profughi delle societa' postindustriali, vittime di un sistema che consolida, amplifica e amministra la disuguaglianza e la violenza, "forme diverse di morte sociale". Implicito e' il richiamo alla questione palestinese. La domanda sollevata da Adorno viene da Butler rovesciata e articolata sul piano biopolitico (luogo reale del conflitto contemporaneo), su quell'insieme di procedure, tecniche e logiche di governo della vita umana: "Se la resistenza equivale a mettere in atto i principi di democrazia per cui combatte, allora dev'essere plurale e incarnata nei corpi".
Di Cesare nel suo saggio menziona Butler, pur non condividendo sempre le sue opinioni, come una filosofa che contribuisce a sviluppare una discussione, "ne' apologetica, ne' scontata", su Israele. E, infatti, il secondo testo presente nel libriccino di Butler e' dedicato proprio alla questione palestinese, in cui motiva le ragioni per cui un'ebrea (americana) come lei, regolarmente iscritta alla sinagoga, puo' dichiararsi, senza rinnegare la propria origine, contraria alla violenza dello stato israeliano e schierarsi in difesa del popolo palestinese.

7. LIBRI. ROBERTO ESPOSITO PRESENTA "ISRAELE. TERRA RITORNO, ANARCHIA" DI DONATELLA DI CESARE
[Da "La Repubblica" del 3 febbraio 2014 col titolo "Il nuovo ordine del mondo nell'eccezione di Israele"]

Donatella Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
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Il libro di Donatella Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, edito da Bollati Boringhieri, non e' solo un saggio teologico-politico su Israele. E' una intensa riflessione filosofica, dall'angolo di visuale dell'eccezione ebraica, sul rapporto tra popolo, nazionalita' e Stato nell'epoca della globalizzazione. Lo "stato" – nel senso del modo di essere, oltre che dell'organismo politico – di Israele non puo' essere omologato agli altri Stati sovrani, uniti tra loro dal nomos della terra. E cio' non soltanto per la ferita irrimarginabile inferta dalla Shoah, ma per una storia radicata in un rapporto con la trascendenza che sporge dall'orizzonte immanente della politica moderna. Tale eccedenza e' testimoniata dal destino ambivalente del sionismo – realizzato nelle sue intenzioni, eppure in perenne contraddizione con se stesso, in continua "crisi", come gia' nel 1943 scriveva Hannah Arendt (La crisi del sionismo, ora tradotto in Politica ebraica per Cronopio).
Fondato alla fine dell'Ottocento da Theodor Herzl in una prospettiva che affidava l'emancipazione ebraica alla creazione di uno Stato nazionale non diverso dagli altri, esso ricercava nell'appropriazione di una terra la garanzia dell'esistenza politica. In tal modo gli ebrei pagavano il prezzo di rinunciare alla propria specificita' senza ottenere un'inclusione paritaria nel concerto delle nazioni. Come annotava profeticamente Joseph Roth, essi "erano sempre stati uomini in esilio. Ora diventarono una nazione in esilio". Con quella opzione gli ebrei acquisivano il diritto indispensabile alla propria sopravvivenza, ma smarrivano nello stesso tempo un elemento decisivo della loro identita' differenziale.
Gershom Scholem e Martin Buber ne delineavano il profilo proprio nel contrasto con quella bipolarita' tra individuo e Stato che, nel paradigma di sovranita', caratterizza la politica moderna. Se il primo gia' negli anni Trenta dubitava che la questione ebraica potesse trovare definitiva soluzione in Palestina, il secondo negava che Sion fosse riducibile alla figura degli altri organismi nazionali. Certo, come afferma l'autrice, la costruzione dello Stato era la via necessaria, ma non la meta ultima. In questo senso ella riconosce in tutta la sua tensione quella "tragicita' del sionismo" di cui parla Shmuel Trigano nel suo Il terremoto di Israele. Filosofia della storia ebraica (Guida). Il ritorno alla terra non puo' cancellare la diaspora. Il destino di Israele non e' lo Stato, ma qualcosa che, attraverso di esso, si pone al contempo anche al suo esterno. Come sostiene Levinas, la stella di David brilla nel punto di tensione tra identita' e alterita', spazio e tempo, terra e cielo. Solo restando fedele all'attesa, Israele puo' corrispondere alla promessa di cui e' esito e testimonianza.
La forza, e la passione, di questo sguardo sta nel riconoscere in tale condizione una frattura e una risorsa. Una frattura rispetto al destino degli altri Stati nazionali e una risorsa nel momento in cui esso e' messo radicalmente in discussione dalla globalizzazione. Il fatto di non essere uno Stato come gli altri conferisce a Israele la possibilita' di sperimentare una nuova modalita' politica, non basata sulla difesa identitaria di confini bloccati, ma sul principio della continua alterazione. Certo, va detto che tra quanto sostiene la Di Cesare, lungo una linea di pensiero letteralmente anarchica, e la realta' della politica effettuale di Israele, vi e' piu' di una differenza, se non anche un contrasto. Ma ella stessa rivendica la possibilita' e la necessita', da parte del pensiero, di spingersi al di la' del dato storico verso il non-luogo dell'utopia. Sia il discorso sulla nuova comunita', come alternativa alla sovranita' dello Stato, sia quello su una categoria di pace non derivata in negativo dalla guerra, ne costituiscono esempio. Essi valgono, si puo' dire, non nonostante, ma in ragione della loro inattualita'.

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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 102 del 4 giugno 2021
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