[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 101



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 101 del 3 giugno 2021

In questo numero:
1. Piero Calamandrei: Discorso ai giovani sulla Costituzione (1955)
2. Un estratto da "Terrore e modernita'" di Donatella Di Cesare
3. Giorgio Nardone presenta "Terrore e modernita'" di Donatella Di Cesare
4. Libera Pisano presenta "Tortura" di Donatella Di Cesare
5. Ripetiamo ancora una volta...

1. REPETITA IUVANT. PIERO CALAMANDREI: DISCORSO AI GIOVANI SULLA COSTITUZIONE (1955)
[Testo del discorso pronunciato da Piero Calamandrei a Milano nel Salone degli affreschi della Societa' Umanitaria il 26 gennaio 1955 in occasione dell'inaugurazione di un ciclo di conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi.
Piero Calamandrei, nato a Firenze il 21 aprile 1889 ed ivi deceduto il 27 settembre 1956, avvocato, giurista, docente universitario, antifascista limpido ed intransigente, dopo la Liberazione fu costituente e parlamentare, fondatore ed animatore della rivista "Il Ponte", impegnato nelle grandi lotte civili. Dal sito dell'Anpi di Roma (www.romacivica.net/anpiroma) riprendiamo la seguente notizia biografica su Piero Calamandrei: "Nato a Firenze nel 1889. Si laureo' in legge a Pisa nel 1912; nel 1915 fu nominato per concorso professore di procedura civile all'Universita' di Messina; nel 1918 fu chiamato all'Universita' di Modena, nel 1920 a quella di Siena e nel 1924 alla nuova Facolta' giuridica di Firenze, dove ha tenuto fino alla morte la cattedra di diritto processuale civile. Partecipo' alla Grande Guerra come ufficiale volontario combattente nel 218mo reggimento di fanteria; ne usci' col grado di capitano e fu successivamente promosso tenente colonnello. Subito dopo l'avvento del fascismo fece parte del consiglio direttivo dell'"Unione Nazionale" fondata da Giovanni Amendola. Durante il ventennio fascista fu uno dei pochi professori che non ebbe ne' chiese la tessera continuando sempre a far parte di movimenti clandestini. Collaboro' al "Non mollare", nel 1941 aderi' a "Giustizia e Liberta'" e nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d'Azione. Assieme a Francesco Carnelutti e a Enrico Redenti fu uno dei principali ispiratori dei Codice di procedura civile del 1940, dove trovarono formulazione legislativa gli insegnamenti fondamentali della scuola di Chiovenda. Si dimise da professore universitario per non sottoscrivere una lettera di sottomissione al duce che gli veniva richiesta dal Rettore del tempo. Nominato Rettore dell'Universita' di Firenze il 26 luglio 1943, dopo l'8 settembre fu colpito da mandato di cattura, cosicche' esercito' effettivamente il suo mandato dal settembre 1944, cioe' dalla liberazione di Firenze, all'ottobre 1947. Presidente del Consiglio nazionale forense dal 1946 alla morte, fece parte della Consulta Nazionale e della Costituente in rappresentanza del Partito d'Azione. Partecipo' attivamente ai lavori parlamentari come componente della Giunta delle elezioni della commissione d'inchiesta e della Commissione per la Costituzione. I suoi interventi nei dibattiti dell'assemblea ebbero larga risonanza: specialmente i suoi discorsi sul piano generale della Costituzione, sugli accordi lateranensi, sulla indissolubilita' del matrimonio, sul potere giudiziario. Nel 1948 fu deputato per "Unita' socialista". Nel 1953 prese parte alla fondazione del movimento di "Unita' popolare" assieme a Ferruccio Parri, Tristano Codignola e altri. Accademico nazionale dei Lincei, direttore dell'Istituto di diritto processuale comparato dell'Universita' di Firenze, direttore con Carnelutti della "Rivista di diritto processuale", con Finzi, Lessona e Paoli della rivista "Il Foro toscano" e con Alessandro Levi del "Commentario sistematico della Costituzione italiana", nell'aprile del 1945 fondo' la rivista politico-letteraria "Il Ponte". Mori' a Firenze nel 1956". Tra le opere di Piero Calamandrei segnaliamo particolarmente Uomini e citta' della Resistenza, edito nel 1955 e successivamente ristampato da Laterza, Roma-Bari 1977, poi riproposto da Linea d'ombra, Milano 1994, e nuovamente ripubblicato da Laterza nel 2006]

L'art. 34 dice: "I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi piu' alti degli studi". Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra Costituzione c'e' un articolo che e' il piu' importante di tutta la Costituzione, il piu' impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l'avvenire davanti a voi. Dice cosi':
"E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta' e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
E' compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignita' di uomo. Soltanto quando questo sara' raggiunto, si potra' veramente dire che la formula contenuta nell'art. primo - "L'Italia e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro" - corrispondera' alla realta'. Perche' fino a che non c'e' questa possibilita' per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potra' chiamare fondata sul lavoro, ma non si potra' chiamare neanche democratica perche' una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, e' una democrazia puramente formale, non e' una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della societa', di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la societa'.
E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione e' in parte una realta', ma soltanto in parte e' una realta'. In parte e' ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!
E' stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c'e' sempre anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito e' una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui e' venuto fuori il nuovo regime.
Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di liberta', voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste liberta', che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell'uomo e del cittadino contro il passato.
Ma c'e' una parte della nostra Costituzione che e' una polemica contro il presente, contro la societa' presente. Perche' quando l'art. 3 vi dice: "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana" riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Da' un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l'ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalita', di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non e' una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, e' una Costituzione che apre le vie verso l'avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perche' per rivoluzione nel linguaggio comune s'intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma e' una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa societa' in cui puo' accadere che, anche quando ci sono, le liberta' giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche, dalla impossibilita' per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c'e' una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della societa'. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto e' in noi per trasformare questa situazione presente.
Pero', vedete, la Costituzione non e' una macchina che una volta messa in moto va avanti da se'. La Costituzione e' un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perche' si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l'impegno, lo spirito, la volonta' di mantenere queste promesse, la propria responsabilita'. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione e' l'indifferenza alla politica, l'indifferentismo politico che e' - non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani - una malattia dei giovani.
"La politica e' una brutta cosa", "che me ne importa della politica": quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscera', d quei due emigranti, due contadini, che traversavano l'oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l'altro stava sul ponte e si accorgeva che c'era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: "Ma siamo in pericolo?", e questo dice: "Se continua questo mare, il bastimento fra mezz'ora affonda". Allora lui corre nella stiva svegliare il compagno e dice: "Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz'ora affonda!". Quello dice: "Che me ne importa, non e' mica mio!". Questo e' l'indifferentismo alla politica.
E' cosi' bello, e' cosi' comodo: la liberta' c'e'. Si vive in regime di liberta', c'e' altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch'io! Il mondo e' cosi' bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non e' una piacevole cosa. Pero' la liberta' e' come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent'anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perche' questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla liberta' bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.
La Costituzione, vedete, e' l'affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma e' l'affermazione solenne della solidarieta' sociale, della solidarieta' umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. E' la carta della propria liberta', la carta per ciascuno di noi della propria dignita' di uomo.
Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le liberta' civili e politiche, la prima volta che ando' a votare dopo un periodo di orrori - il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo - io ero a Firenze, lo stesso e' capitato qui - queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perche' avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignita', questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunita', questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.
Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventu', farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto - questa e' una delle gioie della vita - rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non e' solo, che siamo in piu', che siamo parte di un tutto, nei limiti dell'Italia e nel mondo.
Ora vedete - io ho poco altro da dirvi -, in questa Costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c'e' dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane.
Quando io leggo, nell'art. 2, "l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarieta' politica, economica e sociale", o quando leggo, nell'art. 11, "l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli", la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma questo e' Mazzini; o quando io leggo, nell'art. 8, "tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge", ma questo e' Cavour; quando io leggo, nell'art. 5, "la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali", ma questo e' Cattaneo; o quando, nell'art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate, "l'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica" esercito di popolo, ma questo e' Garibaldi; e quando leggo, all'art. 27, "non e' ammessa la pena di morte", ma questo, o studenti milanesi, e' Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani.
Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro a ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perche' la liberta' e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa e' una carta morta, no, non e' una carta morta, questo e' un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove e' nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque e' morto un italiano per riscattare la liberta' e la dignita', andate li', o giovani, col pensiero perche' li' e' nata la nostra Costituzione.

2. LIBRI. UN ESTRATTO DA "TERRORE E MODERNITA'" DI DONATELLA DI CESARE
[Dal sito www.corriere.it riprendiamo il seguente estratto dal volume di Donatella Di Cesare, Terrore e modernita', Einaudi, Torino 2017, pp. 207, li' pubblicato il 5 maggio 2017 con il titolo "Quant'e' moderno il Califfato. Il contagio del terrore globale" e il sommario "Un brano dal libro della filosofa Donatella Di Cesare (Einaudi) che esce il 9 maggio. La violenza jihadista non e' oscurantismo ma nasce dalla crisi del nostro tempo"]

Sono tre i paradigmi che prevalgono nell'interpretazione del terrorismo attuale: lo "scontro di civilta'", secondo la fortunata formula di Huntington, la lotta di classe e, piu' in generale, l'idea che siano le forti diseguaglianze economiche ad alimentare la violenza, infine la guerra del "sacro" che chiama in causa la religione. Tutti e tre questi paradigmi, pur contenendo giuste intuizioni, spunti fecondi, si rivelano inadeguati e offrono una visione semplificata, talvolta pericolosamente riduttiva, di un fenomeno molto complesso.
Il terrorismo e' strettamente connesso con la globalizzazione, di cui non e' solo l'effetto, ma anche, in certo modo, il vettore trainante. Se da un canto proclama il suo "no" al pianeta unificato, dall'altro, pero', fa saltare i confini, cancella i limiti, annulla le differenze: tra guerra e pace, militari e civili, emergenza e normalita'. Il terrorista e' un agente d'ibridazione. La macabra scena dell'autoesplosione e' fortemente simbolica: deflagrando il "martire" frammenta le membra proprie e altrui, provoca un miscuglio di sangue e corpi, sino a impedire l'identificazione. Confonde, dissimula, mimetizza l'identita'.
Questo spiega perche' sia difficile definire una volta per tutte il "terrorista", a meno di non ripiegare su una delle numerose scorciatoie che ne fanno un mostro sanguinario o uno psicopatico. Altrimenti si possono fornire diverse interpretazioni, sempre parziali e sommarie: i terroristi sono vittime della crisi economica, prove viventi del naufragio dell'integrazione, novelli erostrati in cerca di celebrita', figli di internet e dei videogiochi, prodotti della societa' dello spettacolo. E l'elenco potrebbe proseguire.
Nel delineare lo "scontro di civilta'", Huntington ha avuto forse il solo merito, come ha notato Appadurai, di aver colto per tempo quel sentimento di inimicizia verso l'Occidente che si andava diffondendo nel mondo islamico. Ma e' inaccettabile anzitutto la sua idea monolitica e fissa di "civilta'", da cui viene espunta la storia. Come se l'Occidente — per limitarsi alla filosofia — non fosse debitore all'islam dei testi aristotelici, e come se la mistica islamica fosse immaginabile senza Platone. Nel mondo globalizzato l'immagine di due blocchi monolitici, circoscritti per di piu' con criteri di razza, di territorio, di religione, appare non solo errata, ma anche nociva. L'effetto immediato, quello piu' noto, e' condannare tutto il variegato mondo musulmano, tacciandolo di essere arcaico e antiprogressista.
Piu' che di "scontro di civilta'" si dovrebbe parlare di una civilta' degli scontri che attraversa il pianeta e produce i focolai di una guerra a bassa intensita'. A cio' ha contribuito in modo determinante il potere sfrenato del capitalismo globale che, favorendo uno sparuto gruppo di vincitori, dietro di se' ha lasciato e lascia masse di perdenti, non solo esclusi da ogni possibilita' di emancipazione, ma anche profondamente umiliati. Tuttavia disagio, poverta', disoccupazione non sono cause dirette, molle che spingono immediatamente a quella scelta estrema e che potrebbero chiarirla. Ne' la giustizia sociale, un tempo bandiera di organizzazioni combattenti, viene oggi esplicitamente rivendicata. I poveri sono le prime vittime del terrore. A gettare l'ombra di altri interessi non e' solo il ruolo ambiguo di paesi come l'Arabia Saudita o il Kuwait. La questione e' ben piu' complicata, se si considera l'inquietante convergenza tra flussi del capitale finanziario e terrorismo transnazionale che, favoriti dalla comune struttura reticolare, sfiorano la complicita'. Basti pensare all'enorme traffico di armi.
Non meno riduttivo e' il terzo paradigma che interpreta il terrorismo come sinonimo di fondamentalismo, una peripezia semantica ingiustificata, che provoca ulteriori gravi slittamenti. Si puo' essere fondamentalisti, radicali e radicalizzati, senza per cio' essere "terroristi". Di qui a incolpare l'islam il passo e' breve. L'islamofobia diventa a portata di mano. Se pero' si prende di mira l'islam, perche' risparmiare cristianesimo ed ebraismo? Ecco che il fronte si amplia. Viene rispolverato lo scontro di civilta' che, in una nuova versione, si presenta come il conflitto tra la laicita', illuminata e progressista, contro il "sacro", cioe' la religione che, riaffiorata nello spazio pubblico, sarebbe pronta, in tutte le sue tradizioni, a un nuovo sterminismo teocratico. "La religione e' guerra" — recita un primordiale stereotipo mai venuto meno. Di monoteismo in monoteismo, di testo in testo, si risale fino all'Antico Testamento, dove si immagina di rinvenire le prove di quella "teologia del terrore", causa di tutti i mali, passati, presenti e futuri.
Questo paradigma, suffragato anche dal clash of monotheisms, dall'attrito fra i tre monoteismi, sembra ormai il piu' diffuso. Se non si puo' negare che la violenza jihadista abbia una matrice religiosa, d'altra parte e' inaccettabile sia l'amalgama tra islam e terrore, sia la criminalizzazione dei monoteismi. Si tratta ancora una volta di un tentativo, drastico e schematico, per orientarsi nel tormentato scenario contemporaneo cercando un fronte netto, una frontiera certa, la' dove invece le linee dei conflitti si intersecano, si legano, si saldano.

3. LIBRI. GIORGIO NARDONE PRESENTA "TERRORE E MODERNITA'" DI DONATELLA DI CESARE
[Dal sito www.aggiornamentisociali.it riprendiamo la seguente recensione del marzo 2018]

Donatella Di Cesare, Terrore e modernita', Einaudi, Torino 2017, pp. 216, euro 12.
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Un doloroso e recente fenomeno e' all'origine del libro di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia all'Universita' "La Sapienza": l'uccisione di persone innocenti negli attentati terroristici di matrice islamica. Spesso si usa la parola "terrore" per parlare di questi eventi, compiuti da persone che di solito vivono nelle povere periferie dell'Occidente, si percepiscono abbandonate e disperse, e scelgono di uccidere altri e allo stesso tempo di andare incontro a una morte violenta. Ma a che cosa si oppongono i terroristi? Se ci si interroga su questo punto si sposta il focus dell'attenzione, perche' non si tratta piu' dei terroristi, ma di noi occidentali, eredi della Rivoluzione francese e abitanti la modernita'. Si impone allora una domanda alla nostra attenzione: e' proprio il terrore a definire la nostra amata modernita'? L'A. risponde affermativamente e argomenta la sua posizione richiamandosi a due grandi temi.
Il primo fa capo allo Stato e alla sovranita'. Filosofi e giuristi affermano che lo Stato moderno ha il "monopolio nell'uso della forza" (p. 127). Giusto: esso non nacque proprio decapitando l'antico sovrano – a Parigi – e affermando in tal modo il suo pubblico diritto? Questo "monopolio" non significa soltanto che la violenza di una parte non domina piu' i rapporti privati tra i cittadini, ma che lo Stato si impone ai suoi sudditi attraverso la forza sempre viva della minaccia, perche' e' sovrano "chi dispone della minaccia piu' credibile" (p. 50). La minaccia di morte appunto: quando la vittima potenziale si avverte "consegnata al vuoto planetario, esposta all'abisso cosmico" (p. 63). La storia europea mostra in modo nitido e crudo il rapporto tra Stato e morte: guerre di conquista e guerre di indipendenza, campi di battaglia, trincee, eroi e cadaveri. Tutte realta' non pensabili senza uno Stato dotato di sovranita'. Come aveva ben capito anche Lenin che, lungi dal criticare la sovranita', la realizzo' in grande. Mentre i vecchi anarchici volevano disfarsi dello Stato, i terroristi dei giorni nostri vogliono "appropriarsi" della sovranita', anzi del suo "principio": vogliono essere la puntuale origine del timore diffuso che invoca e genera la sovranita' ed esercitare "la sovranita' assoluta di vita e di morte" (p. 154).
Ma noi occidentali, evoluti e invidiati, saremmo al riparo dalla violenza sovrana? Di fatto molti intellettuali, anche di sinistra, osservano con senso di superiorita' sia il terrorismo sia le attuali guerre religiose del Medio Oriente. Senza avvedersi di aver "sacralizzato lo Stato" e di essere i sacerdoti di "una sorta di religione civile" (p. 161), nutrono "la pretesa paternalista di canalizzare il malessere di quei fratelli minori che seguono l'onda dell'integralismo religioso per reclutarli nella grande flotta socialista" (p. 175). Non si pensi, pero', che il moderno Stato occidentale sia soltanto pacifica convivenza: proprio le sue reazioni, persino sul piano legislativo, agli atti terroristici lo mostrano desideroso di tutto "qualificare, definire, nominare" (p. 53); anche la sovranita' moderna "e' sempre virtualmente terrorista" (p. 50). Non ci stiamo forse avviando (noi occidentali) verso uno Stato di polizia? Che cosa ci indicano i militari o i vigili armati ormai presenti nelle nostre piazze? In effetti, "il terrore resta iscritto nel moderno Stato democratico", che non si accontenta di simboli, ma sa "amministrare il terrore che infonde nei cittadini" (p. 54) e la polizia e'  "il supplemento originario della sovranita'" (p. 189). Per comprendere quanto ampia e profonda sia la forza della sovranita', per andare oltre alla chiacchiera mediatica che se ne serve senza averla davvero capita, occorre uno sguardo "freddo e deciso": questo e' lo sguardo del filosofo che osserva "il terrore serbato nello Stato" (p. 55).
Se spostiamo ora la nostra attenzione sul mondo islamico, siamo condotti in un altro orizzonte. Soprattutto dopo la guerra in Iraq, iniziata nel 2003, si e' diffusa l'attesa di "un colpo d'ala della storia", per cui la sovranita' umana diventera' un giorno la religiosa "sovranita' illimitata di Dio" (p. 111). Un tale desiderio di sovranita' vive un ideale escatologico: anticipare l'istante supremo in cui sara' finalmente chiaro e reale "il limite tra il Bene e il Male". In questo scenario, la sovranita' e' parente dell'apocalittica (pp. 110-112). Essa riporta all'antico sacro. Questa prospettiva, incentrata su un dominio sovrano, non e' comune ai tre grandi monoteismi, dato che almeno due di essi (l'ebraismo e il cristianesimo) hanno accettato l'ermeneutica moderna dei loro testi sacri (pp. 163-165).
Ma il terrorista parla anche della vera e propria modernita' – e qui tocchiamo il secondo tema che struttura il libro –, che non e' piu' caratterizzata da un visibile vertice sovrano al tempo stesso temuto e osannato. Viviamo, infatti, un'epoca in cui gli Stati stanno perdendo "il monopolio della violenza legittima", visto che oramai si e' generalizzata (p. 15). Il terrorista ci fa riflettere sulla globalizzazione, sull'impero della tecnica, sul consumismo, sul benessere commercializzato. Egli infatti e' cresciuto in Occidente, dove nessuna tradizione lo costringe, dove nulla e' sicuro e tutto e' possibile, offerto allo sguardo come "le merci in un grande magazzino" (p. 114). Il terrorista nega una nostra persuasione: di vivere in una "marcia trionfale verso il confort generalizzato" (p. 44). Egli ci uccide perche' ci conosce: il "neomartire" vuole "uccidere l'occidentale che e' in lui prima ancora dell'occidentale che ha di fronte" (p. 131). In realta', questo ambiguo rifiuto della modernita' puo' assumere varie forme: dalla delinquenza ordinaria all'uso di stupefacenti o, piu' di recente, al terrorismo, una terza e ulteriore variante, in cui rinasce l'antico sacro: "la rabbia si sacralizza [...] il piccolo delinquente trova riscatto nel sacrificio incondizionato a una causa nobile ed elevata", egli assume "il ruolo dell'eroe religioso" (p. 118). Allargando il discorso, si puo' riconoscere che: "L'islam cristallizza il rifiuto per la modernita' occidentale" (p. 130).
Questa critica della modernita' e' priva di ogni verita'? Essa riproduce in forma sanguinaria la critica rivolta dai filosofi? Confrontarsi con queste domande ci spinge a guardare a noi stessi e alla nostra realta'. Siamo i destinatari di una "uniformazione violenta del mondo" (p. 11), viviamo un'epoca "incomparabilmente piu' violenta" di quella delle due guerre mondiali e della tensione Stati Uniti - Unione Sovietica (p. 12), siamo in mezzo a una "disuguaglianza violenta" e a una "globalizzazione armata" (p. 13), circondati da "innumerevoli conflitti a bassa intensita'" (p. 14), inconsapevoli che "attraverso una serie ininterrotta di cause, un mio piccolo vantaggio qui si traduca altrove nell'agonia di qualcuno" (p. 149). Siamo una "scialba e gretta modernita'" (p. 80), che pero' sfugge a molti intellettuali, i quali sono sicuri che la modernita' sia una meta per tutti, non accorgendosi che l'islamismo guerriero "con la sua aspirazione trascendente lancia una sfida all'immanenza profana del capitale" (p. 174), che questa "collera universale, speranza senza frontiere" e' un fatto nuovo: essa e' "l'alternativa orientale al comunismo" (p. 176).
Nel portare avanti il suo ragionamento, la Di Cesare ovviamente si confronta con la filosofia, la sua disciplina di appartenenza, e lo fa tracciando un proprio itinerario. Come altri critici della modernita', dialoga con Nietzsche e Heidegger, che ne denunciarono il "carattere autodistruttivo", e prende le distanze dalle posizioni di Habermas, ritenute un progetto degno anche se non ancora compiuto. Considera poi con attenzione la filosofia di Levinas. Questi critica il "soggetto moderno" che si pensa come "sovrano preoccupato unicamente della sua sovranita' [...] sciolto e svincolato da qualsiasi responsabilita'". Ben al contrario, Levinas afferma che l'uomo e' ostaggio gia' sempre offerto all'altro [...]. Senza l'altro l'io non esisterebbe neppure [...]. La responsabilita' precede la liberta' ed e' una responsabilita' anarchica, senza principio e senza comando, scandita dall'ebraico hinneni, "eccomi", con cui nella Torah si annuncia l'io, rispondendo di tutto e di tutti" (p. 153).
Una chiamata in campo della filosofia e' espressa anche in un altro modo, all'apparenza strano. Si danno eventi che vanno qualificati come "filosofici", nel senso che essi hanno una radicalita' tale da illuminare un insieme di altri fatti sociali all'apparenza meno inquietanti. Riportiamo giusto qualche stralcio: il terrorista "diventa l'ombra oscura del filosofo" (p. 42), egli ha "un retroterra filosofico" (p. 48), la sua sfida "ha un'ampiezza filosofica" alla pari della Rivoluzione francese (p. 147); oggi la minaccia atomica viene dall'aria, e questo significa che "sotto l'aspetto filosofico l'aeronautica svolge un ruolo decisivo" (p. 39). Quegli eventi sono filosofici – cosi' sembra doversi intendere – perche' in essi il filosofo coglie in atto cio' che nell'esperienza umana e' dimensione estrema, oltre ogni convenzione di vita o facile buon senso. La' egli deve apprendere e poi tradurre in parola quanto appreso.
Quale sara' l'ultima parola di questa riflessione che riguarda sia fatti sociali sia vissuti profondi? Ce lo dice l'ultima riga del libro: in questa nostra nuova "erranza globale", piuttosto che cercare "artifici" difensivi "occorrerebbe rinunciare in modo incondizionato e definitivo a ogni sovranita'" (p. 190). Giunto alla fine, il lettore si pone alcune domande che lasciamo volutamente aperte. Da un lato, e' suggestiva la proposta di eliminare la violenta "sovranita'", ma per regolare le umili faccende umane non vi sara' bisogno di un piu' pacifico ma sempre pubblico "governo"? Ma e' possibile pensare a una distinzione tra "sovranita'" e "governo"? Dall'altro, la saggezza filosofica non dovrebbe essere affascinata anche dal complesso, dal molteplice della vita e della societa', e non soltanto dalle punte estreme del terrore, magari scoperto proprio tra noi occidentali? Soltanto esse sarebbero illuminanti?

4. LIBRI. LIBERA PISANO PRESENTA "TORTURA" DI DONATELLA DI CESARE
[Dal sito www.filosofia-italiana.net riprendiamo la seguente recensione]

Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, Milano 2016.
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Tortura e' l'ultimo lavoro di Donatella Di Cesare e non e' che l'ultimo tassello di alcune grandi battaglie civili e politiche, che l'autrice – da filosofa – con tanto coraggio porta avanti da alcuni anni (1). Il volume sulla tortura e' un lavoro di cui non possiamo non esserle grati. Non solo perche' e' la prima riflessione filosofica sulla tortura, che ne mette in luce una politica, una fenomenologia e un'amministrazione, ma anche perche' la scrittura di un saggio del genere non puo' che essere una scrittura dolorosa, una sorta di catabasi, evidente soprattutto nella sezione intitolata "amministrazione della tortura" (pp. 149-200), che non lascia fuori nulla: dai crimini internazionali alle torture made in Italy, dalle efferatezze perpetrate durante gli anni di piombo al G8 di Genova, dai morti in cella fino al recentissimo caso di Giulio Regeni, da Guantanamo ad Abu Ghraib.
La fenice nera (p. 34) e' la metafora terribile e spaventosa con cui viene abilmente definita la tortura, che e' sempre risorta, in qualche modo, dalle ceneri della storia. La costellazione teorica in cui la riflessione si muove va da Benjamin a Sartre, da Zambrano a Arendt, da Sade – definito a ragione "forse il primo pensatore biopolitico della modernita'" (p. 117) – a Bataille, passando per Kafka. Di pari passo, l'autrice ricostruisce il dibattito americano sulla tortura – a partire dal saggio di Nagel del 1971 intitolato War and Massacre –, da cui prende decisamente le distanze mettendo in luce quanto la soteriologia della tortura presente in quel dibattito sia uno strumento di propaganda del liberalismo.
Queste pagine non contengono solo un grido di protesta che si leva contro tale pratica violenta, poliziesca cosi' terribilmente diffusa, ma sono – come ho gia' detto – una analisi filosofica della tortura, intesa come tecnica del potere, che lungi dall'essere arcaica e relegata nei meandri oscuri della storia o nella barbarie delle dittature, dopo l'11 settembre e' entrata prepotentemente nel nuovo millennio e, anzi, e' divenuta un dispositivo stesso della sovranita' della democrazia ferita dal terrore. Nello stato d'eccezione del terrore abbiamo assistito a cio' che Di Cesare chiama, "una democratizzazione della tortura" (p. 39). Lo spartiacque e' stato proprio l'11 settembre che ha aperto uno scenario inedito poiche' la tortura non e' piu' legata al totalitarismo, ma e' stata democratizzata in modo inquietante. Al processo di democratizzazione e' seguita una sorta di delocalizzazione ed extraterritorialita', come se si trattasse di un'impresa, e' stata, infatti, esportata al di fuori dei confini nazionali. I non luoghi al di fuori dello stato sono le carceri, – si pensi a Guantanamo, definito "uno zoo per umani" (p. 179), alle prigioni irachene o afgane – dove i torturatori agiscono indisturbati.
Riflettere sulla tortura e', dunque, una difficile operazione filosofica e questo emerge con chiarezza nelle pagine di questo libro. Torturare e' sia un esercizio bio-politico, che ha a che fare con "la violazione dell'interdetto fondamentale" (p. 90), ovvero il limite del corpo e la violazione della nuda vita, sia una sorta di epifenomeno che mostra chiaramente la permanenza del paradigma della teologia politica nelle nostre democrazie. La tortura e' il graffio del potere sul corpo, una incisione sacrale che getta luce sul fondo oscuro dello stato moderno.
In quanto faccia a faccia e crimine politico, il cui fine ultimo e' la confessione della verita', la tortura e' – in alcuni casi – tanto un crimine metafisico, quanto paradossalmente una pratica di deumanizzazione profondamente umana. Le bestie, infatti, non torturano anche perche' non parlano, non confessano.
In questo lavoro, Di Cesare mostra il sentiero che da Torquemada arriva fino ai giorni nostri e si insinua nelle griglie del potere e di controllo delle democrazie. La tortura ha a che fare con il segreto in due modi: e' tanto il taglio del corpo per portare alla luce il segreto, quanto una pratica clandestina che si trova sul crinale scosceso tra spazio pubblico e "corpo mistico" (p. 28) della sovranita'. E' una pratica confessionale che si iscrive perfettamente nel solco della teologia politica, che parte dall'inquisizione e arriva al carcere di Abu Ghraib.
In queste pagine, c'e' una analisi cristallina della specificita' della tortura. Anche se e' Vernichtung, annientamento, non deve essere confusa con lo sterminio di massa o il genocidio. Non e' neanche un'uccisione, poiche' si ha tortura se c'e' una relazione duale, se c'e' un corpo vivo che prova dolore. L'impotenza dell'altro deve fare da contrappeso ad un esercizio supremo della sovranita'. La sua peculiarita' consiste nel faccia a faccia, in una tecnica precisa, organizzata, distillata e sistematica. La tortura, di principio, esclude la morte perche' ha bisogno di un interlocutore sofferente. A tal fine, prendendo come esempio paradigmatico Guantanamo, viene fatto notare come la tortura spesso sia accompagnata da una tecnica biopolitica di allontanamento della morte: da un canto si tortura, dall'altro viene praticata l'alimentazione forzata e viene impossibilitato anche il suicidio.
Se da un lato, dunque, la tortura e' una costante della storia, dall'altro viene fatto notare come sia in atto un cambio di paradigma nella contemporaneita': prima il torturatore era alla luce del sole, adesso e' un tecnico o un funzionario, potenzialmente e' il poliziotto. Le nuove forme ci hanno costretto ad una risemantizzazione del concetto stesso di tortura, risemantizzazione che e' ancora piu' problematica, perche' favorisce una pericolosa dissimulazione. Vari sono stati, infatti, gli eufemismi e gli stratagemmi retorici con cui si e' occultata la tortura, basti pensare – ad esempio – all'interrogatorio coercitivo o alla tortura bianca (no-touch torture), ovvero un insieme di pratiche che non lasciano tracce (isolamento, privazione del sonno, l'alternanza forzata di buio/luce, la stress position, etc.).
L'operazione che l'autrice fa in queste pagine e' un'operazione opposta, ovvero chiamare per nome le torture, articolarne la grammatica facendo i conto con il suo vasto campo semantico: tortura deriva da torqueo, da torcere, una torsione dei muscoli (p. 97); ci sarebbe, dunque, una sorta di inquietante etimologia performativa della tortura.
In queste pagine viene offerta una fenomenologia della tortura lasciando parlare Amery e il suo testo Jenseits von Schuld und Suehne, dove si parla di Verfleischlichung (p. 102), ovvero di una carnizzazione, una riduzione a mera carne. La carne nel '900 e' una delle parole chiavi della filosofia di Merleau-Ponty, che nel Visibile e l'Invisibile scrive: "cio' che chiamiamo carne non ha nome in nessuna filosofia" (2). Si puo' dire, come ricorda Di Cesare citando Esposito, che la carne 'selvaggia' sia "una modalita' dell'impolitico" (3). La carne sfugge alla tenaglia del politico, ma non agli arnesi infernali della tortura. Come la carne e' l'indefinibile, allo stesso modo la tortura e' l'impensato, l'indicibile, la violenza che non e' parola, ma rantolo e urla.
L'urgenza filosofica, etica e politica che in queste pagine si delinea e' "risalire la vertigine dell'inumano" (p. 96), articolandone la grammatica, dandogli parola. E' un compito difficile non solo perche' bisogna confrontarsi con la descrizione di una violenza indicibile, una pratica diventata tabu', ma soprattutto perche' richiede una dolorosa resa dei conti con la deriva autoritaria in agguato in ogni esercizio di potere. "Ogni forza e' una promessa di brutalita'" (p. 154), cosi' scrive Di Cesare richiamandosi al connubio benjaminiano, descritto in Zur Kritik der Gewalt, tra violenza e diritto presente nella polizia. Il potere poliziesco, per Benjamin, si insinua proprio dove lo stato non riesce a garantirsi con l'ordinamento giuridico il raggiungimento dei propri fini. Si potrebbe dire che come la carne che sfugge, anche il potere poliziesco e' spettrale, informe, inafferrabile e contiene potenzialmente la "massima degenerazione pensabile del potere" (4).
Tra le molte questioni filosofiche che il volume solleva, ve ne sono alcune che riguardano la politicita' della tortura. Essa e' un crimine politico, perpetrato per lo piu' dallo stato o da funzionari di stato; infatti, l'agente o il poliziotto intervengono come istanza mediatrice, sono l'anello di congiunzione che opera per lo stato e, cosi' facendo, opera anche a nostro nome. Torturano per noi e in questo modo corrompono l'intero corpo sociale. Non si tratta, dunque, solo del rapporto tra torturatore e torturato, ma la tortura lede la comunita' intera. Quindi, che fare? Criminalizzare la tortura non basta; infatti, benche' ci siano convenzioni, trattati, comitati, organizzazioni, questo non ne ostacola la diffusione. C'e', infatti, un paradosso: la tortura potrebbe essere messa fuori legge dallo stato, ma d'altro canto – visto che e' un crimine di stato – nessuno stato ammetterebbe la propria illegittimita'. In queste pagine, dietro la critica alla tortura, c'e' una critica radicale, legittima, anarchica allo stato stesso, al suo apparato e alle sue trappole. Essa diventa non solo un dispositivo per ripensare lo stato, ma anche la comunita' tout court. Se, infatti, rimettersi dalla tortura e' impossibile, come scrive Amery – citato nel libro – "chi ha subito la tortura non puo' piu' sentirsi a casa nel mondo" (p. 101), se la dignita' non e' recuperabile, come si puo', allora, riparare la comunita' dalla tortura? Non di certo attraverso l'umanizzazione del boia e la banalizzazione del torturatore a semplice esecutore di un ingranaggio, una tendenza che – come e' noto – prende le mosse dall'analisi della Arendt del processo Eichmann a Gerusalemme. Questa facile soluzione e' respinta con forza da Di Cesare, perche', se cosi' fosse, ci sarebbe allora un potenziale torturatore in ogni uomo. In questo caso, il dilemma – esposto chiaramente in queste pagine – non sarebbe piu': "parlerei o no, se venissi sottoposto a tortura?", ma "torturerei o no, se mi venisse ordinato?". Questo, a mio avviso, e' un interrogativo che ci chiama, ci reclama, a cui non possiamo sottrarci.
Sarebbe tempo di riconoscere, scrive l'autrice, una "colpa di obbedienza" (p. 129), legata ad un ripensamento radicale della dignita', ma anche della carne umana. Forse e' solo facendo i conti con questi interrogativi fondamentali, che questo splendido lavoro ci porge, che si puo' aprire la strada per ripensare una strategia politica e filosofica di resistenza alle torture presenti e quelle a venire.
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Note
1. Si pensi, ad esempio, ai volumi Se Auschwitz è nulla, Il Melangolo, Genova 2012 o Crimini contro l'ospitalita'. Vita e violenza nei centri per stranieri, Il Melangolo, Genova 2014.
2. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, trad. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1969, p. 163.
3. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. 182.
4. W. Benjamin, Per la critica della violenza, trad. it. di A. Sciacchitano, Centro Studi Walter Benjamin, http://walterbenjamin.ominiverdi.org, p. 16.

5. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...

... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.

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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 101 del 3 giugno 2021
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