[Nonviolenza] Telegrammi. 4124



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4124 del 3 giugno 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Ripetiamo ancora una volta...
2. Daniele Lugli: Gaza
3. Alcuni estratti da "Tortura" di Donatella Di Cesare (parte prima)
4. Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...

... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.

2. RIFLESSIONE. DANIELE LUGLI: GAZA
[Dal sito di "Azione nonviolenta" (www.azionenonviolenta.it).
"Daniele Lugli (Suzzara, 1941), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sara' presidente nazionale dal 1996 al 2010, e con Pietro Pinna e' nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull'obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell'Educazione all'Universita', sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali e' intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all'incarico piu' recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. E' attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una societa' civile degna dell'aggettivo ed e' un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell'ambiente. Nel 2017 pubblica con Csa Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948"]

Ogni volta che nominano Gaza mi sorprende pensare a quanto dolore sia concentrato in un cosi' piccolo territorio. E' 360 km quadri.
Il mio comune e' ben piu' grande: 405 km quadri, un nono abbondante di piu'. Il mio comune conta 130mila abitanti. Tende a calare piu' che a crescere. Ogni tanto persone, provenienti da situazioni disperate, vengono e vorrebbero restare. Non sono accolte bene. A stare ai risultati delle ultime elezioni lo sono invece addirittura fin troppo, per la maggioranza dei miei concittadini. Non mi soffermo su questa vergogna. A Gaza vivono, sopravvivono, 1 milione e 800mila persone. Due su tre sono profughi da territori dove stavano, o pensavano di stare, anche peggio. Anche qualche anno fa me ne ero occupato.
A Gaza comanda Hamas, ben armato movimento islamista. Ha colto l'occasione di un'odiosa iniziativa di sfratto di palestinesi dalle loro case in un quartiere di Gerusalemme per lanciare tanti razzi sulle citta' di Israele, provocando terrore e qualche vittima. L'esercito israeliano ha reagito con bombardamenti massicci, di gran lunga piu' distruttivi, causando naturalmente molte piu' vittime, in nome del diritto alla legittima difesa. Palestinesi hanno manifestato in diverse citta' contro i bombardamenti su Gaza e sono stati duramene repressi. Violenze reciproche si sono verificate in quartieri e citta' dove la convivenza era da tempo – almeno sette anni – pacifica, da Gerusalemme a Tel Aviv, Caifa, Acri, Tiberiade, Hadara, Lod. In questa citta' – 80 mila abitanti, un terzo palestinesi, due terzi ebrei – gli scontri sono parsi quasi l'avvio di una guerra civile, tra comunita' diffidenti e ostili non solo qui. Lod, leggo, e' segnata da una fiorente criminalita'. Violenze, sparatorie non sono una novita', ma ogni limite sembra venir meno quando paura e rancore investono arabi ed ebrei, contrapposti in quanto tali.
Le azioni militari sono sospese. Sia Hamas che Netanyahu si dicono vincitori. Hanno ragione. Hamas ha mostrato che l'invio massiccio di razzi – sempre piu' efficaci e di lunga gittata – e' in grado di bucare la Iron Dome (Cupola di Ferro) che difende Israele. Si e' accreditato come il rappresentante vero dei palestinesi, piuttosto del presidente dell'Autorita' Abu Mazen, visto anche che nei territori interessati non si vota da 15 anni. In Israele ripetute elezioni non hanno portato a un governo stabile. Guerra e tensioni sono utili a Benjamin Netanyahu per allontanare la prospettiva di una maggioranza alternativa, che lo escluderebbe dal potere, con l'apporto dei partiti degli arabi, cittadini israeliani. Magari Netanyahu potra' convocare, da vincitore, le quinte elezioni anticipate. Hanno perso, continuano a perdere, gli abitanti tutti di Israele-Palestina che vorrebbero vivere nella pace possibile, senza persecuzioni, apartheid, terrorismo.
La cosiddetta comunita' internazionale e' attraversata da diverse pulsioni: c'e' chi pensa di guadagnare dalla rinnovata tensione e chi spera che si attenui almeno e scompaia dalle prime pagine per altri sette anni. Nulla si fa per contribuire alla miglior convivenza in quelle terre. Nelle manifestazioni – si tengono anche nel nostro paese – non sventolano assieme le bandiere israeliana e palestinese. Eppure sarebbe un piccolo, buon segno di incoraggiamento per gli abitanti di un paese in cui la convivenza e' necessaria e obbligata e nel quale esigue minoranze perseguono con coerenza questo obiettivo, contro repressione, persecuzioni, apartheid, terrorismo. Clamorosa l'assenza dell'Europa che sembra ignorare la dimensione mediterranea, essenziale anche per la questione immigrazione.
Torno a Gaza. Leggo su "Internazionale" un articolo del "New York Times" che parla della situazione di una famiglia, con bimbe piccole, sotto i bombardamenti. Scrive Alareer: "Siamo una coppia palestinese perfettamente nella media: tra tutti e due abbiamo perso piu' di trenta parenti… Temo il peggio. E temo il meglio. Se ne usciremo vivi, come se la caveranno psicologicamente i miei figli nei prossimi anni? Vivranno nel terrore costante del prossimo attacco?". Intanto si preoccupa di rassicurare le sorelline con la favola serale. Alla fine recita il solito ritornello "Toota toota, khalasat el hadoota. Hilwa walla maltouta", cioe' La storia e' finita. Era bella o no? Di solito Matouta (brutta) dicono le bimbe per ottenerne un'altra. Questa volta dicono Hilwa (bella) e basta. Non e' un bel segno. Con Alareer speriamo che le figlie possano conoscere di Gaza storie vere che meritino di essere dette, sinceramente, Hilwa.

3. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "TORTURA" DI DONATELLA DI CESARE (PARTE PRIMA)
[Dal sito www.tecalibri.info]

Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pp. 218.
*
Indice
Prologo
*
1. Politica della tortura
1. Senza fine? Nel ventunesimo secolo
2. Tortura e potere
3. Lo sfondo oscuro del sacrificio. La tortura nel dispositivo del terrore
4. La tortura dopo l'abolizione della tortura
5. La fenice nera
6. Tortura e democrazia
7. Stato d'eccezione e tortura preventiva. Dopo l'11 settembre
8. Il dibattito sulla tortura
9. Il dilemma delle "mani sporche". Thomas Nagel e Michael Walzer
10. "Mandato di tortura". Alan Dershowitz
11. Il male minore e' sempre un male
12. 24 hours chrono. Il torturatore gentiluomo
13. Una teologia politica della tortura
14. Perche' non torturare il terrorista? La bomba a tempo
15. Quelle dannose storielle pseudofilosofiche
16. Illegittimita'. Lo Stato che tortura
17. Naufragio dei diritti umani?
18. Dignita' umana e tortura
*
2. Fenomenologia della tortura
1. Definire la tortura? Note etimologiche
2. "Chi ha subito tortura non puo' piu' sentirsi a casa nel mondo". Amery
3. Tortura, genocidio, Shoah
4. Uccidere e torturare
5. Tra biopotere e potere sovrano
6. Anatomia del carnefice
7. Sade, la negazione dell'altro e il linguaggio della violenza
8. Da Torquemada a Scilingo. Quattro ritratti
9. Torturatori si diventa?
10. Pedro e il Capitano
11. Il segreto della vittima
12. Dire la tortura
13. Sul dolore e sulla sofferenza
14. Sopravvivere alla propria morte
*
3. Amministrazione della tortura
1. Giulio Regeni. Il corpo del torturato
2. Benjamin, o sull'istituzione ignominiosa
3. Il G8 di Genova
4. La tortura "bianca". Sul carcere di Stammheim
5. Scomparsi, desaparecidos. La morte negata
6. Il gulag globale della CIA
7. Guantanamo. Il campo del nuovo millennio
8. Abu Ghraib. Le foto della vergogna
9. Donne e violenze sessuali
10. Nelle mani del piu' forte
11. Tormenti e torture made in Italy
12. Perche' e' reato
*
Epilogo
Riferimenti bibliografici
*
Da pagina 11
Prologo  
Scrivere sulla tortura e' una scelta problematica e delicata. Ancora fino a qualche anno fa la condanna, almeno a parole, sembrava unanime. Il che non ha impedito alla tortura di aggirare l'interdizione, di eludere quel divieto, condiviso al punto da assurgere quasi a principio categorico, cercando scampo clandestinamente dietro le quinte.
Ma l'unanimita' e' venuta meno. I nuovi adepti, un po' ovunque, sono usciti allo scoperto. Negli Stati Uniti hanno dato avvio a un dibattito. Non sarebbe auspicabile un'eccezione? Non tornerebbe forse utile un ricorso ponderato, limitato, magari addirittura legalizzato alla tortura? La "guerra al terrore" sembrerebbe richiederlo. Si moltiplicano gli sforzi per offrire legittimita' a una pratica mai dismessa. I paladini inveterati, dittatori e autocrati, despoti e demagoghi, che hanno continuato a governare nei quattro angoli del mondo, si compiacciono dell'improvvisa crepa, gioiscono dell'insospettabile breccia aperta nella democrazia. Le opinioni pubbliche vacillano incerte e esitanti. Come se il rifiuto istintivo non bastasse piu'.
L'interdizione della tortura finisce per essere tacciata di utopismo vuoto, inadeguato all'ordine globale, che e' invece dominato dalla minaccia del terrore. Si dovrebbe allora proteggere la democrazia autorizzando la tortura, cioe' attingere al terrore per combattere il terrore. Ecco perche' la questione della tortura e' lo spartiacque che separa due letture alternative della storia attuale.
Accettare di discuterne il ruolo e lo statuto, i presupposti e gli esiti, non significa essere disposti ad accogliere in futuro un buon argomento per giustificarla. Il "no" fermo alla tortura viene prima di ogni discussione. La' dove si cominciasse a richiamare casi particolari, dove un filosofo morale almanaccasse su deroghe e restrizioni, la risposta non potrebbe essere che quella, concisa e categorica, della prassi politica: "Non si deve torturare".
Tuttavia il "no", che scaturisce anzitutto dall'indignazione, non basta a difendere la dignita' umana offesa dalla tortura. La riflessione e' indispensabile. In tal senso la tortura rappresenta, anzi, il paradigma della questione morale nell'eta' contemporanea, la cui forma cogente e paradossale e' quella sintetizzata da Theodor W. Adorno: "non si deve torturare, non ci devono essere campi di concentramento, mentre tutto cio' continua in Asia e in Africa e viene soltanto rimosso, perche' l'umanita' civilizzatrice e' come sempre inumana nei confronti di quelli che ha svergognatamente marchiato come incivili" (1970, p. 255). Da un canto l'impulso che oppone un "no" deciso, quando si viene a sapere che qualcuno e' stato torturato, il senso di solidarieta' con i corpi tormentati, la nuda paura fisica di chi si identifica con la vittima, dall'altro la ricerca di una riflessione teorica che non si limiti a razionalizzare quell'impulso, a tradurlo in un principio astratto.
Emerge qui una contraddizione che attraversa lo scenario attuale e chiarisce, almeno in parte, l'impotenza effettiva che ciascuno avverte. E' la contraddizione fra il rifiuto spontaneo di dover tollerare ancora quell'orrore intollerabile e la coscienza che intuisce perche', malgrado tutto, l'orrore prosegua e non se ne veda la fine. Proprio la tortura porta alla luce il dilemma del singolo che si dibatte in questa morsa.
In tale scenario drammatico si deve allora riconoscere con franchezza che "nulla e' cambiato", come suggerisce il refrain della poesia Torture di Wislawa Szymborska, quasi un breve trattato filosofico, dove la perspicuita' dello sguardo non impedisce lo stupore incredulo, lo sbigottimento esasperato (2009, pp. 456-59). E se, di fronte al reiterarsi dell'orrore, il "no" mostra la sua inerme ostinazione, si deve tuttavia ricordare che siamo non solo quello che facciamo, ma anche quello che promettiamo di fare o di non fare.

Nulla e' cambiato.
Il corpo prova dolore, deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto - sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili, le giunture stirabili.
Nelle torture, di tutto cio' si tiene conto.

Nulla e' cambiato.
Il corpo trema, come tremava
Prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c'erano, e ci sono, solo la terra e' piu' piccola
e qualunque cosa accada, e' come dietro la porta.

Nulla e' cambiato.
C'e' soltanto piu' gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, fittizie, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo ne risponde
era, e' e sara' un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.

Nulla e' cambiato.
Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
e' rimasto pero' lo stesso.
Il corpo si torce, si dimena e divincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.

Nulla e' cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l'animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c'e', e c'e', e c'e'
e non trova riparo.
*
Da pagina 15
1. Politica della tortura

Il fine della persecuzione e' la persecuzione,
il fine della tortura e' la tortura,
il fine del potere e' il potere.
(George Orwell, 1984)

1. Senza fine? Nel ventunesimo secolo
La parola "tortura" sembrerebbe evocare scenari arcaici e remoti che affiorano dal passato tetro e crudele dell'umanita'. Come se quel fenomeno estremo debba essere consegnato alla ricostruzione storica che contribuisce a respingerlo in una lontananza irreversibile e definitiva. Le storie della tortura, anche le piu' riuscite, sono un repertorio di efferatezze, un catalogo di orrori, un inventario di atrocita', che si disegnano sullo sfondo di una trama scheletrica e ripetitiva. Tra sadismo e perversione, questa sorta di folklore del male descrive procedure e tecniche escogitate dalla fantasia umana per infliggere dolore e tormento, indugia sulla nudita' inerme della vittima e sulla maschera plumbea del carnefice, penetra nei meandri oscuri della cella dove viene estorta la confessione, entra subdolamente nella stanza dei supplizi, raffigura la lugubre festa punitiva. Gogna o ruota, morsa o fustigazione, forca o rogo: la scenografia della tortura e' allestita sul palco dell'Inquisizione. Forse perche' li' si scorge l'apice della storia. Il sipario, pero', puo' calare. Al punto che orrore e ripugnanza lasciano il posto persino a quel sentimento del sublime che pervade chi contempla la distruzione del corpo altrui alla dovuta distanza.
La storia, infatti, dovrebbe concludersi con un immancabile happy end. Il progresso ha la meglio sulla barbarie e la tortura viene respinta nel passato premoderno della civilta'. Rassicurante si erge la figura di  Cesare Beccaria  che, con il suo trattato  Dei delitti e delle pene,  pubblicato nel 1764, condanna fermamente teoria e pratica della tortura. Gli fanno eco Pietro Verri e i grandi riformatori settecenteschi. Quasi ovunque abolita nelle terre d'Europa — nel 1740 in Prussia, nel 1770 in Sassonia, nel 1780 in Francia, nel 1786 nel Granducato di Toscana, nel 1789 nel Regno di Sicilia — la tortura resta, a partire dalla modernita' dei Lumi, una presenza inquietante, la cui ombra si allunga sinistramente sulla civilta'. Le scene di tortura si ripetono, in forme differenti e mutevoli. Ma la tortura non si lascia ridurre a una fantasmagoria. Mostruosa, e tuttavia reale, interdice il lieto fine. Il capitolo sull'abolizione non puo' essere l'ultimo. Deroghe, eccezioni, anomalie si susseguono. Richiedono postille e aggiunte. La tortura pare dileguare tutt'al piu' per qualche decade. Presto, tuttavia, ricompare ai margini: nei conflitti e nelle guerre, ai confini dei moderni imperi, nelle colonie. Fa ritorno, in tutta la sua feroce potenza, nelle carceri delle dittature, nei lager dei regimi totalitari. Anche nella seconda meta' dell'ultimo secolo prosegue, inarrestabile, la sua avanzata. Come dimenticare le atrocita' commesse in Algeria e in Iran, nella Grecia dei colonnelli, nel Portogallo di Salazar? Per non parlare dell'uso massiccio della tortura nelle dittature latino-americane.
La narrazione del progresso viene pregiudicata dal susseguirsi di postille. La tortura non e' un relitto dell'Inquisizione; non e' confinabile alle periferie del tempo e dello spazio. Affiora prepotentemente dal passato e minaccia di avere un futuro. "Senza fine?", si chiede Edwar Peters nell'edizione ampliata del suo libro Torture, divenuto ormai un classico (1999, p. 176). Il suo interrogativo riprende quello di Piero Fiorelli, il piu' grande storico della tortura, che al termine della sua opera monumentale La tortura giudiziaria nel diritto comune, pubblicata nel 1953-1954, aveva inserito una sezione conclusiva intitolata "Senza una fine?". La domanda e' una ammissione. La tortura deborda, eccede la storia.
Palese o nascosta, combattuta o tollerata, la tortura non ha mai conosciuto eclisse, al punto da presentarsi, pur nella sua variabilita' attraverso i secoli, come un fenomeno ininterrotto, un'istituzione permanente, una costante della storia umana. Lo documentano i codici e le leggi; lo attesta la memoria collettiva. Non ha senso considerarla l'aberrazione di un diritto primitivo, l'anomalia di una giustizia ancora balbuziente, l'incidente di percorso di una ragione trionfante. Si puo' tentare di proiettarla nella brutalita' oscena del passato per convincersi di vivere in un paradiso in divenire. Un'epoca lontana, un luogo distante, una ideologia screditata sono gli alibi di una visione rassicurante che non regge piu'.
La tortura ha eluso anatemi e censure, aggirato divieti e proibizioni. Non e' stata soppressa, ma neppure superata. La tortura resiste pervicacemente anche nel passaggio dal supplizio alla pena. La nuova sobrieta' punitiva, che ruota intorno all'economia del castigo, non basta a debellarla. La prigione non espelle la tortura, non la bandisce. Nel suo famoso saggio Sorvegliare e punire del 1975, dove nel ricostruire la genealogia della prigione delinea il superamento, ancora per certi versi ottimistico, dei supplizi nelle pene, anche Michel Foucault ammette che la tortura continua a ossessionare il sistema penale (cfr. 2014, pp. 43 e sgg.). Perche' adeguandosi allo scarto dal corpo all'anima, diviene piu' sottile e eterea, ma non meno temibile.
La condanna della tortura ne favorisce paradossalmente la disseminazione clandestina anche nei paesi democratici. Per misurare l'ampiezza attuale del fenomeno basta leggere i dati forniti da Amnesty International - nel 2015 sono almeno 122 i paesi che hanno torturato - e seguire il flusso di notizie che giungono non solo dai teatri di guerra, dai campi profughi, dai sotterranei delle dittature, ma anche dai penitenziari, dalle carceri e da tutte le strutture di internamento dei paesi democratici. Ne viene fuori una mappa, ampia e spettrale, che spinge a parlare di globalizzazione della tortura. Piu' viene denunciata, piu' la tortura si nasconde e si dissimula in nuove forme. Abolita, riemerge; depennata, si manifesta ancora piu' virulenta. E si impone nell'attualita' della politica, nel suo piu' urgente ordine del giorno.
Non si erano ancora spente le ceneri del World Trade Center, che la tortura divento' tema di dibattito pubblico. Nello scenario apocalittico di un attacco imminente, in cui i terroristi fossero pronti a usare armi di distruzione di massa, perche' non si sarebbe dovuto ricorrere alla tortura, al fine di acquisire informazioni indispensabili, salvando molte vite umane? Nel war on terror, nella "guerra al terrore", la tolleranza verso la tortura e' la prova piu' eclatante dell'immediata e profonda erosione dei diritti umani.
Il suo ingresso nel ventunesimo secolo non poteva essere piu' glorioso. La tortura si presenta come l'arma estrema dell'intelligence per arginare il conflitto globale intermittente. Lo stesso potere politico, che prima ne aveva proibito esteriormente l'impiego, facendone al tempo stesso uso, o meglio abuso, contro dissenso e sovversione, chiede di giustificare la tortura, di ammetterla, legalizzarla; pretendendo di agire su istanza del popolo, ne sollecita la piena autorizzazione. Ed ecco che, proprio quando viene fatta passare per espediente straordinario del controterrorismo, la tortura rivela, a ben guardare, il suo volto piu' intimo e oscuro: quello del terrore. Inscritta sin dall'inizio nella logica del dominio, di cui costituisce la pratica piu' violenta e stringente, la tortura appartiene alla politica dell'intimidazione, interna prima ancora che esterna. In tal senso esibisce l'onnipotenza della sovranita'.
*
2. Tortura e potere
Si immagina di solito l'inferno come pena senza fine. Questo, e non altro, e' la condanna eterna, che non conosce riscatto, ne' redenzione. La sentenza di morte si traduce in tortura, quel dolore che incombe e sovrasta nel corridoio del morire perpetuo.
La tortura e' la parvenza perversa e spietata dell'eternita'. Percio' evoca visioni infernali. Il castigo e' perpetuo. Tuttavia la tortura non si dilata in un tempo eterno, ma si compie piuttosto in una ripetitivita' senza fine. E' questo incessante senza-fine uno dei suoi tratti peculiari.
Non stupisce che il torturato aneli continuamente alla fine - fosse pure quella risolutiva della morte. Cio' che lo affligge e' l'angoscia di un morire interminabile. Agli occhi del torturatore, per contro, la morte prematura della vittima e' un incidente irritante, la sua perdita di coscienza un errore da evitare. Occorre che l'altro resti cosciente, in vita, almeno fintantoche' si protrae la tortura. Sebbene si concluda molto spesso con la morte, la tortura non va, dunque, confusa con l'esecuzione. Non e' una tecnica dell'uccidere. Con la morte dell'altro verrebbe meno ogni rapporto. Anche, e soprattutto, quello di potere. La morte libererebbe la vittima dalle mani del carnefice - misera e paradossale liberazione. Ecco perche' la tortura non si appaga della morte altrui che, anzi, segna l'istante in cui, pur trionfando nella sua atrocita', quella pratica prolungata di violenza perde intempestivamente il suo oggetto. Non e' l'annientamento il suo scopo ultimo. La tortura va oltre, facendo del morire una pena duratura, trasformando l'essere umano in una creatura morente.
Solo se la si considera in tal modo, come esercizio di violenza assoluta, si coglie la rilevanza politica della tortura. Qui emerge con chiarezza il suo nesso stretto con il potere. E' anzitutto il potere di dominare l'altro, di sopraffarlo con il tormento, di sottometterlo con la sofferenza, di soggiogarlo con la vessazione. Senza limite - che non sia quello della morte da scongiurare. Fin nei recessi piu' reconditi del suo essere, il torturato deve percepire il dolore che gli viene inflitto, che assurge a insegna del potere, tremendo e incondizionato, del torturatore. Da un canto la vittima inerme, nell'onta della sua umiliazione, dall'altro il carnefice trionfante, nell'apoteosi della sua sovranita'. Nulla e' consentito alla vittima, tutto e' possibile al carnefice.
Questi fa del torturato un corpo su cui trascrivere la pena. Lavora alla carne, luogo dei suoi esperimenti, materia della sua tecnica di distruzione. Il carnefice e' un artigiano, che si atteggia a creatore, innalzandosi a signore del dolore. L'altro, deumanizzato, e' ridotto alla mera, passiva corporeita'. Anche quando la tortura tocca l'anima - il dolore psichico si confonde con quello fisico, questo con quello. Il corpo sofferente della vittima entra nell'ingranaggio allestito con attrezzi e meccanismi sempre nuovi, con strumentari da collaudare. La tortura non e' la sede di un processo, ma il laboratorio dell'immaginazione distruttiva.
La violenza provoca il dolore, lo mette a nudo, lo rende visibile, udibile. Ferite, colpi, percosse soffocano la parola. Non c'e' posto per i suoni articolati. Solo gemiti e urla. Mentre vorrebbe penetrare fin nell'intimo della vittima, nella sua piu' intangibile interiorita', per rovesciarla all'esterno e impossessarsene, quella violenza ne annienta il linguaggio, rendendo vana la sua stessa impresa. Puo' estrarne le viscere, quando e' ancora in vita, come vuole un antico supplizio. Ma il torturato resta un corpo senza voce.
Cio' contraddice l'idea, che ha goduto a lungo di un vasto consenso, secondo cui il fine ultimo della tortura sarebbe la confessione della verita'. Come se la pena fosse gia' di per se' giustificata, come se chi la subisce ne portasse, quasi, la colpa. Con questo capovolgimento morale, su cui e' stata edificata una secolare finzione, si e' preteso non solo di sgravare il carnefice delle sue responsabilita', ma anche di far passare la tortura per uno strumento della confessione.
Solo quando viene liberata dai vincoli fittizi della Verita', quando crolla l'alibi dell'interrogatorio, la tortura si rivela quel che sempre e' stata ed e': la pratica violenta del potere. Non e', dunque, entro il codice della verita', bensi' entro quello del potere che la tortura va considerata.
*
Da pagina 72
14. Perche' non torturare il terrorista?
La bomba a tempo
E' stato preso un terrorista, sospettato di aver predisposto una bomba a orologeria in una delle tante scuole della citta', dove in quel momento si trovano molti bambini. Impossibile tentare di far evacuare rapidamente le scuole. Sottoposto a immediato interrogatorio, compiuto con mezzi legali, l'uomo ha rifiutato di rispondere. Il tempo stringe. La bomba potrebbe esplodere da un momento all'altro. Sono a rischio decine, centinaia di vite umane. Non sara' opportuno estorcergli le informazioni preziose, usando una certa pressione, piu' psichica che fisica? Non sara' necessario, in questo caso, ricorrere a una tortura non letale?
La risposta immediata e' "si'!". Chi potrebbe rispondere altrimenti? E in genere e' questa la reazione di chi e' chiamato a prendere posizione di fronte allo scenario della bomba a orologeria, del ticking bomb. Si puo' modificare la versione, aggiungere o togliere elementi, renderla iperbolicamente piu' drammatica, ventilando la possibilita' che i presunti terroristi siano in procinto di scatenare un attacco batteriologico o siano addirittura in possesso di armi nucleari.
Diventa comunque impossibile opporre un netto "no". Cosi' la tortura puo' essere considerata come arma legittima nell'eta' del terrore planetario. La richiesta di legalizzare la tortura, pur ammettendone l'immoralita', si basa proprio su questo caso, sullo scenario del ticking bomb. Da Baghdad a Madrid, da Londra a Sharm-el-Sheikh, da Beirut a Istanbul: non si contano le bombe che, purtroppo, sono state innescate e fatte esplodere negli spazi pubblici, massacrando vittime inermi.
Che lo scenario della bomba a tempo sia stato preso molto sul serio dai filosofi americani, non solo dai neo-con, ma anche dai liberal, non dovrebbe dunque sorprendere. Come ha osservato Bob Brecher nel suo libro dedicato a questo tema, "Dershowitz, in quel che viene chiamato il "nuovo realismo" sulla tortura, non e' isolato" (2007, p. 6). A questo proposito bastera' citare cio' che ha dichiarato Martha Nussbaum: "Non penso che una posizione moralmente sensibile negherebbe che possano esserci situazioni immaginabili in cui la tortura [di un singolo individuo] sia giustificata".
Con "posizione moralmente sensibile" si intende la condanna a priori della tortura. Il principio sembra andare in frantumi sotto i colpi della dura realta'. Non sarebbe questo, d'altronde, il destino di tutti i principi e di tutti gli a priori? Di fronte al fanatismo cieco del terrore, che minaccia vite innocenti, morale e diritto non sembrano reggere e dovrebbero essere rivisti. Il purismo etico delle anime belle e' costretto a capitolare dinanzi ai fatti. A meno di non voler competere, quanto a fanatismo, con i terroristi. La condanna universale della tortura, inscritta nella cultura occidentale all'indomani della seconda guerra mondiale, ratificata dai trattati internazionali, non sarebbe piu' difendibile, ne' accettabile, nella pratica. Chi potrebbe mai mettere in dubbio l'esigenza del ricorso all'interrogatorio coercitivo, se ne va di tante vite? Occorrera' allora riconoscere che, in uno stato di necessita', come quello prospettato dallo scenario della bomba a orologeria, per il quale persino il codice penale di molti paesi democratici ammetterebbe una sospensione della legge, la tortura sarebbe inevitabile. Si tratterebbe, semmai, di controllarla e regolamentarla.
L'emergenza del terrore si impone con forza. L'eccezione fa testo. Il dilemma della bomba a orologeria rischia di far crollare l'edificio dei diritti umani, di incrinare i principi faticosamente conquistati nel corso di secoli, le idee che solo ieri sembravano irrinunciabili. A cominciare, ad esempio, dal presupposto della inviolabilita' del corpo di un prigioniero. La storia del ticking bomb rende accettabile, all'interno di una societa' improntata al liberalismo democratico, l'ipotesi che lo Stato torturi, che divenga, anzi, legale, in alcune circostanze eccezionali, la tortura di Stato.
Si deve ammettere che il dilemma della bomba a orologeria ha una forza dirompente; per le evidenti ripercussioni, etiche e politiche, non puo' essere sottovalutato. Non si da', a ben guardare, alcuna disputa. Le colombe tacciono, gli "idealisti" integerrimi, che vorrebbero difendere la dignita' umana sempre e ovunque, sono costretti a revocare le loro piu' ferme convinzioni, lasciando la parola ai falchi, ai "realisti" pragmatici, che sanno guardare con risolutezza al bene dei piu', sanno calcolare benefici e costi, misurare le conseguenze, impedire la catastrofe, ottenendo un successo certo.
Questo scenario cosi' angoscioso fa tornare alla mente le innumerevoli immagini di attentati terroristici trasmesse dal grande schermo. Pero' non riferisce l'esperienza di un attentato in particolare, ne' sembra rinviare a una situazione realmente accaduta. Il carattere ipotetico dell'intero dilemma ricorda piuttosto la serie 24 hours chrono, tutta costruita sulla trama della bomba a tempo. Non si trattera' dello stesso presunto "realismo", cioe' della medesima fiction?
Se cosi' fosse, il dibattito sviluppatosi in America sul ticking bomb, che ha coinvolto filosofi e intellettuali, ha investito i media e l'opinione pubblica, incidendo sul mondo politico, quasi a suggellarne le scelte compiute nel war on terror, ruoterebbe intorno a una favola. Per giunta una favola sbandierata come la piu' reale delle realta'. E' possibile, in politica, prendere decisioni, gravi anche nel loro significato etico, basandosi su una fiction, su una rappresentazione immaginaria? E' possibile, in filosofia, rimettersi a storielle irreali, pretendendo di edificare, su quella base fittizia, una nuova e piu' realistica etica, adatta alla minaccia del terrore? A meno che quella favola non sia un pretesto ideologico.
Nelle sue innumerevoli e differenti versioni lo scenario del ticking bomb appare un prodotto della fantasia. I "fatti" riportati, se considerati con attenzione, non sono neppure plausibili. L'intera situazione e' costruita su presupposti inverosimili e assurdi.
Basta menzionarne alcuni: si assume che le autorita' siano a conoscenza di un attacco imminente; che abbiano preso proprio uno dei terroristi che ha messo la bomba a orologeria; che questo davvero possieda le informazioni necessarie; che non ci sia altro mezzo efficace, per farlo parlare, se non la tortura; che non ci siano altre possibilita' per salvare le vite umane; che la tortura sia efficace, che cioe' il terrorista non abbia eventualmente un piano di riserva e dica la verita'.
Si potrebbe continuare a decostruire l'impianto logico e retorico della story. Perche' mai, in quella situazione di catastrofe incombente, per la quale gli strateghi militari, gli esponenti politici, gli apologeti della tortura, parlano di "necessita'", sarebbe auspicabile sottoporre il sospetto terrorista alla lunga e incerta prassi dell'interrogatorio coercitivo, cioe' della tortura non letale? O forse sarebbe piu' opportuno ricorrere ai provati, vecchi metodi della tortura tradizionale? Si deve inoltre pensare che il terrorista, che ha progettato un attentato, ammesso che sia lui, sia pronto a morire; non avrebbe allora difficolta' a resistere alla tortura, o meglio, a fornire informazioni sbagliate. Dallo US Army Field Manual (pp. 34-52), il manuale operativo dell'esercito americano, sino al modo in cui Agostino nella sua opera La citta' di Dio, (XIX, 6) riflette sulla presunzione di innocenza: tutti concordano nell'inattendibilita' della confessione estorta sotto tortura.
Gli esempi, di solito addotti, per avvalorare il dilemma della bomba a tempo, sono stati sempre smentiti. Il piu' famoso e' quello richiamato da Dershowitz e poi ripreso da molti: e' il caso di Abdul Hakim Murad. Nel 1995, a Manila, la polizia nazionale filippina, durante una imponente operazione di sicurezza, scopri' il piano di Murad, un membro di Al Qaeda, che stava preparando un serie di attentati contro sette aerei di linea sulla rotta del Pacifico. Secondo la versione divulgata dopo l'11 settembre, quando in America andava crescendo il consenso per la tortura, la polizia filippina sottopose Murad per sessantasette giorni a pestaggi, waterboarding, violenza psicologica, sigarette spente sulle parti intime, minacce di violenza sessuale. Murad crollo' e confesso' la sua trama che sarebbe costata la vita di quattromila passeggeri. Questo episodio avrebbe dovuto dimostrare la razionalita' e l'efficacia della tortura. "Che cosa sarebbe successo se Murad fosse stato arrestato in America?" - tuono' lo storico Jay Winnick dalle colonne del "Wall Street Journal". In molti gli fecero eco. Il famoso editorialista Jonathan Alter commento': "Una certa tortura evidentemente funziona". Ma i fatti si svolsero ben diversamente: "La polizia di Manila aveva ottenuto da Murad tutte le informazioni rilevanti gia' nei primi minuti dopo il sequestro del suo portatile" (McCoy 2008, pp. 167-68). In seguito, nei giorni della tortura, per porre termine al dolore, Murad aggiunse solo dettagli che non erano altro se non la conferma, flebile e superflua, delle congetture che la polizia gli andava suggerendo.
Analoghi, seppure meno eclatanti, sono altri casi di attentati che - come quelli che Scotland Yard e i servizi di sicurezza britannici hanno scoperto il 10 agosto 2006 - sono stati sventati seguendo i metodi classici d'inchiesta. D'altronde, fino all'arresto dei sospetti, i servizi non sapevano dell'imminenza di un attentato. Qui si confonde l'imminenza con l'eventualita'. Un attentato e', per chi non lo progetta, un evento inatteso e imponderabile. Il che non significa che non occorra prevenirlo. Ma lo scenario della bomba a orologeria vorrebbe far credere che si possa tenere sotto controllo attentato e attentatore e che la tortura sia a tal fine lo strumento indispensabile.
Solo torturando il terrorista si potrebbe disinnescare la bomba e fermare il tempo. Non importa, poi, che si chieda, come una necessita' pressante, la tortura di uno solo contro la possibilita', molto aleatoria, della morte di molti. Nel "modello economico" della tortura contano i numeri (cfr. Wisnewski-Emerick 2009, pp. 16-45). Proprio questo principio utilitaristico dovrebbe, anzi, offrire legittimita' etica alla tortura. Che dire poi del torturando? Un terrorista e' un terrorista - non e' un cittadino, non e' un soldato, non rispetta la legge, ne' le regole della guerra. Si chiama fuori da ogni contratto politico, ma per cio' stesso anche da ogni vincolo umano. Non puo' valere per lui la reciprocita'. Identificato sempre solo con l'azione che compie, consegnato a un'ostilita' anonima e raggelante, per il terrorista a fortiori non e' possibile alcuna empatia, cioe' nessuna umana simpatia. Perche', dunque, non torturare il terrorista?
Bisognerebbe rovesciare l'argomento del ticking bomb, come suggerisce Luban, riformulandolo cosi' (2014, p. 94): "E se l'unico modo per far si' che il terrorista riveli il luogo in cui ha collocato la bomba fosse quello di torturare per giorni e giorni, senza fine, te - si', proprio te, in persona - pensi che il governo dovrebbe farlo? Sarai sequestrato, incappucciato, ti verranno tolti gli abiti; sarai costretto a mettere un pannolone e a indossare una tuta arancione; sarai bendato, ti verra' fatta una iniezione di sedativi, sarai trasportato con un volo a Cuba. Picchiato, denudato e deriso da membri dell'altro sesso, sarai tenuto per un guinzaglio, per ore sarai martellato da assordante musica rap e da luci stroboscopiche; bagnato con un tubo, verrai gettato in una cella frigorifera durante la notte, poi sarai incatenato a un gancio, nel corridoio, e costretto a stare in piedi, finche' le tue caviglie non diventeranno il doppio e i tuoi reni non cominceranno a cedere. Quindi verrai legato al soffitto con le braccia tirate indietro e, infine, sotto le unghie ti verranno conficcati aghi sterilizzati. Per un motivo, o per l'altro, questo e' l'unico modo che abbiamo per far parlare il terrorista. Dovremmo farlo?".
La tortura e' una forma di controterrorismo emotivo che al terrore risponde con il terrore. Ma nel dilemma della bomba a tempo non e' stigmatizzata come una violenza brutale; viene presentata invece come un'azione doverosa, imposta dal calcolo del male minore, dettata dalla necessita'. Che a compierla sia il torturatore nobile, l'utilitarista o Jack Bauer, la tortura appare l'unica scelta per evitare la catastrofe imminente. Appare - ma non e', ne' lo e' mai stata.
Sulla questione e' intervenuta Ruchama Marton, fondatrice di Israel's Physicians for Human Rights (Medici israeliani per i diritti umani), sostenendo che mai la tortura, anche la piu' crudele, ha contribuito a disattivare una bomba a orologeria. "E comunque - ha aggiunto - per quanto tempo continuera' a ticchettare? Per dieci minuti, due ore, o tre settimane? In realta' non c'e' nessun chiaro caso di bomba a orologeria".
L'ideologia della tortura legalizzata si fonda su una favola. Sulla base dell'esperienza storica lo scenario del ticking bomb non si e' mai verificato. Il che fa supporre che sia del tutto inverosimile. Non vanno percio' respinte solo le conclusioni, a cui l'argomento vorrebbe giungere, ma l'ipotesi stessa. Perche' sta qui la trappola: presentare come evidenza empirica un caso particolare, che muterebbe l'intera questione, ma che, nella realta', non si e' mai dato. Il realismo e', a ben guardare, uno pseudorealismo. E l'eccezione, che giustificherebbe la tortura, si rivela una ipotesi fittizia, non desunta dai fatti, bensi' forgiata dalla fantasia. L'argomentazione empirica, che ruota intorno alla fiction, si inoltra nell'esame di circostanze concrete, si arricchisce via via di dettagli. Si viene cosi' risucchiati in una vertigine di analisi minuziose, di dilemmi insolubili, dove si perde di vista il tema stesso e, sopraffatti dall'ebbrezza di questo pseudorealismo, si finisce quasi per riconoscere, in quella situazione di emergenza, la necessita' della tortura.
Se da un canto l'argomento del ticking bomb fa leva su impulsi e emozioni viscerali, mettendo di fronte alla minaccia efferata, dall'altro introduce in un artificioso mondo trasparente, dove dominano solo certezze, dove il male e' calcolabile, dove tutto si snoda con logica sequenzialita', dove a ogni istante, malgrado l'urgenza implacabile, si impongono le decisioni giuste.
Il dilemma non e' un dilemma. L'apparente complessita' dei ragionamenti, piu' o meno capziosi, si risolve in un gioco intellettuale, una sorta di divertimento che distrae dalla questione effettiva, rischiando, con l'alibi dell'urgenza, di far passare per una ovvieta' la tortura istituzionalizzata. Ecco perche' lo scenario della bomba a orologeria non e' che un'impostura, un raggiro, nonche' un potente strumento di propaganda.
(parte prima - segue)

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Roberto Radice (a cura di), Platone, Rcs, Milano 2020, pp. 208 (in supplemento al "Corriere della sera").
*
Maestre
- Svetlana Aleksievic, Gli ultimi testimoni, Bompiani, Milano 2016, 2017, pp. 368, euro 12.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4124 del 3 giugno 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
*
Nuova informativa sulla privacy
Alla luce delle nuove normative europee in materia di trattamento di elaborazione dei  dati personali e' nostro desiderio informare tutti i lettori del notiziario "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile consultare la nuova informativa sulla privacy: https://www.peacelink.it/peacelink/informativa-privacy-nonviolenza
Per non ricevere piu' il notiziario e' sufficiente recarsi in questa pagina: https://lists.peacelink.it/sympa/signoff/nonviolenza
Per iscriversi al notiziario, invece, l'indirizzo e' https://lists.peacelink.it/sympa/subscribe/nonviolenza
*
L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e' centropacevt at gmail.com

Mail priva di virus. www.avg.com