[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 100



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 100 del 2 giugno 2021

In questo numero:
1. Movimento Nonviolento: 2 giugno 2021 festa della Repubblica che ripudia la guerra
2. Il risvolto di copertina di "Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione" di Donatella Di Cesare
3. "Letture.org" intervista Donatella Di Cesare sul suo libro "Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione"
4. Gabriella D'Agostino presenta "Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione" di Donatella Di Cesare
5. Paolo Randazzo presenta "Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione" di Donatella Di Cesare
6. Ripetiamo ancora una volta...

1. OGGI. MOVIMENTO NONVIOLENTO: 2 GIUGNO 2021 FESTA DELLA REPUBBLICA CHE RIPUDIA LA GUERRA
[Dal Movimento Nonviolento (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. e fax: 0458009803, e-mail: an at nonviolenti.org, siti: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it) riceviamo e diffondiamo]

Vogliamo celebrare la Festa della Repubblica perche' ci riconosciamo nei valori costituzionali.
Noi cittadini, civili e disarmati per definizione, abbiamo il compito di difenderla, lo dice la Costituzione stessa, che ci affida questo "sacro dovere" (articolo 52).
La Repubblica ripudia la guerra.
La Repubblica e' fondata sul lavoro.
La Repubblica riconosce i diritti umani.
La Repubblica promuove l'uguaglianza e la dignita' sociale.
La Repubblica tutela il paesaggio, la cultura, la ricerca.
Il 2 giugno festeggiamo la Repubblica democratica. Noi vogliamo portare la nostra aggiunta nonviolenta affinche' sia anche disarmata, strumento di pace che ripudia la guerra (articolo 11).
Riteniamo che i 25 miliardi di euro che saranno impiegati anche quest'anno per le spese militari vadano contro la Costituzione e sperperino denaro sottratto alle tante necessita' attuali (lavoro, sanita', istruzione, cultura, ricerca, protezione civile, pensioni, ecc.). Per questo chiediamo alle istituzioni e alla politica di finanziare la Difesa civile non armata e nonviolenta e diminuire le spese belliche: e' l'unico modo per essere coerenti con i principi, i diritti, i doveri e l'ordinamento della Repubblica italiana, democratica e antifascista.
Festeggiamo il 2 giugno con lo spirito civile di una festa di popolo. La pandemia ha di fatto abolito l'anacronistica parata militare. Anche il passaggio delle Frecce tricolori ci appare inadeguato e fuori luogo: altri sono i simboli unificanti della Repubblica. In questa giornata invitiamo tutti ad esporre insieme la bandiera tricolore e la bandiera arcobaleno della pace e della nonviolenza.
Per tutto questo noi celebreremo in modo civile e disarmato il 2 giugno. Saremo in alcune piazze italiane a sostegno della Campagna "Un'altra difesa e' possibile" per chiedere meno spese per le armi e piu' investimenti per la salute, la scuola, il lavoro, l'ambiente, i diritti.
Movimento Nonviolento
www.azionenonviolenta.it
www.nonviolenti.org

2. LIBRI. IL RISVOLTO DI COPERTINA DI "STRANIERI RESIDENTI. UNA FILOSOFIA DELLA MIGRAZIONE" DI DONATELLA DI CESARE

Nel paesaggio politico contemporaneo, in cui domina ancora lo Stato-nazione, il migrante e' il malvenuto, accusato di essere fuori luogo, di occupare il posto altrui. Eppure non esiste alcun diritto sul territorio che possa giustificare la politica sovranista del respingimento. In un'etica che guarda alla giustizia globale, Donatella Di Cesare con limpidezza concettuale e un passo a tratti narrativo riflette sul significato ultimo del migrare, dando prova anche qui di saper andare subito al cuore della questione. Abitare e migrare non si contrappongono, come vorrebbe il senso comune, ancora preda dei vecchi fantasmi dello jus sanguinis e dello jus soli. In ogni migrante si deve invece riconoscere la figura dello "straniero residente", il vero protagonista del libro. Atene, Roma, Gerusalemme sono i modelli di citta' esaminati, in un affresco superbo, per interrogarsi sul tema decisivo e attuale della cittadinanza. Nella nuova eta' dei muri, in un mondo costellato da campi di internamento per stranieri, che l'Europa pretende di tenere alle sue porte, Di Cesare sostiene una politica dell'ospitalita', fondata sulla separazione dal luogo in cui si risiede, e propone un nuovo senso del coabitare.

3. LIBRI. "LETTURE.ORG" INTERVISTA DONATELLA DI CESARE SUL SUO LIBRO "STRANIERI RESIDENTI. UNA FILOSOFIA DELLA MIGRAZIONE"
[Dal sito www.letture.org]

- "Letture.org": Professoressa Donatella Di Cesare, Lei e' autrice del libro "Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione" edito da Bollati Boringhieri: quale statuto filosofico per il migrante?
- Donatella Di Cesare: Nell'inventario della filosofia non esiste ancora la migrazione. Percio' ho scritto questo libro. Come nella politica, anche nella filosofia al migrante non viene riconosciuto diritto di cittadinanza. E' un destino non dissimile da quello dello straniero, relegato da sempre ai margini. Anche il migrante e' fuori-luogo, tanto quanto lo straniero, anzi di piu', perche' si situa alla frontiera, nel tentativo di varcarla. Non e' ne' cittadino, ne' straniero. Ovunque di troppo, e' un intruso che fa saltare le barriere. Sta qui la difficolta' di pensarlo. A meno di non rimettere in discussione i limiti convenuti del mondo, di non rivedere i fondamenti secolari dello Stato, della sovranita', della nazione. La filosofia ha scelto la stanzialita', l'ha legittimata, puntellando steccati e rafforzando barriere. Ci sono pochissime eccezioni: anzitutto Kant, che si e' arrestato, pero', al diritto di visita, senza riconoscere quello di residenza, e Hannah Arendt il cui pensiero non e' stato davvero ripreso in tutta la sua radicalita'. Il mio tentativo e' quello di restituire al migrante il suo statuto di straniero facendone tuttavia uno straniero residente, uno straniero che ha diritto di abitare, ma il cui abitare e' all'insegna non dell'avere, bensi' dell'essere. Il tema decisivo del libro e' appunto l'abitare, o meglio il coabitare. E' allora grazie al migrante che dobbiamo riconoscere di essere anche noi stranieri residenti, chiamati cioe' a risiedere nella separazione dalla terra. Ne' ius sanguinis, ne' ius loci.
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- "Letture.org": Nel libro Lei si interroga sul tema quanto mai attuale della cittadinanza, prendendo in esame i modelli di Atene, Roma e Gerusalemme: qual e' stato lo sviluppo storico del concetto di cittadinanza?
- Donatella Di Cesare: Ho voluto delineare tre paradigmi di citta' che, in modo diverso, hanno influenzato la politica occidentale. Anzitutto Atene, che con il suo mito dell'autoctonia e' il modello piu' fortunato. Autoctono e' un termine chiave composto da auto' e chthon, "stesso" e "suolo" – nato nel suolo stesso, non solo dalla terra, ma dal territorio circoscritto della citta'. Questo mito e' il viatico per affermare il possesso esclusivo del territorio civico dal quale, in una attribuzione collettiva dell'autoctonia, i cittadini sono nati, a cui appartengono, dal quale pretendono sovranamente di escludere gli altri, gli stranieri. Anche oggi i cittadini di uno Stato-nazione immaginano di avere un diritto di nascita, di essere proprietari del suolo. E' bizzarro che questa fantasia abbia avuto tanto successo. La versione parossistica e' il Terzo Reich. Ma questo mito sopravvive anche nelle democrazie occidentali. L'altro paradigma e' la cittadinanza imperiale di Roma, ben piu' ampia di quella ateniese. Infine Gerusalemme e' la citta' dei gherim, degli stranieri residenti, dove non si pone il problema dell'ospitalita', dato che in questo modello tutti abitano nel segno della separazione. Non mi interessa lo sviluppo storico della cittadinanza. Piuttosto guardo a questi tre paradigmi per ripensare la cittadinanza e, se e' possibile, andare oltre. I privilegi dei cittadini sono oggi la vera barriere eretta contro i migranti.
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- "Letture.org": Le politiche sovraniste dei respingimenti sono strettamente legate al concetto di Stato-nazione: un concetto certamente datato e destinato ormai, in un mondo globalizzato come il nostro, al tramonto.
- Donatella Di Cesare: Lo Stato-nazione e' assunto come se fosse un fenomeno naturale, mentre e' un fenomeno storico ed e' in fondo una finzione. Nel libro io delineo lo scontro fra lo Stato e i migranti. Perche' e' il contesto politico in cui viviamo. I diritti del migrante, a cominciare dalla sua liberta' di muoversi, urtano contro la sovranita' statale che si esercita sulla nazione e sul dominio territoriale. E' il conflitto fra i diritti umani universali e la spartizione del mondo in Stati-nazione. Agli occhi dello Stato il migrante costituisce un'anomalia intollerabile, un'anomia nello spazio interno e in quello internazionale, una sfida alla sua sovranita'. Non e' solo un intruso, ne' solo un fuorilegge, un illegale. Con la sua stessa esistenza infrange il principio cardine intorno a cui lo Stato si e' edificato, mina quel nesso precario fra nazione, suolo e monopolio del potere statale, che e' alla base dell'ordine mondiale. Il migrante accenna alla possibilita' di un mondo altrimenti concertato, rappresenta la deterritorializzazione, la fluidita' del passaggio, l'attraversamento autonomo, l'ibridazione dell'identita'. Pur di riaffermare il proprio potere sovrano, lo Stato lo ferma alla frontiera, luogo eminente del fronteggiarsi e dello scontro. Puo' ammetterlo nello spazio che governa, dopo i previsti controlli, oppure respingerlo. A tal fine e' disposto a violare palesemente i diritti umani. La frontiera diventa, cosi', non solo lo scoglio contro cui naufragano tante vite, ma anche l'ostacolo eretto contro ogni diritto di migrare. Questa contraddizione e' tanto piu' stridente nel caso delle democrazie che, se da un canto sono sorte storicamente proclamando i Diritti dell'uomo e del cittadino, dall'altro fondano la propria sovranita' su tre principi: l'idea che il popolo si autodetermini, sia artefice e destinatario delle leggi; il criterio di una omogeneita' nazionale; il postulato dell'appartenenza territoriale. Sono in particolare i due ultimi principi a osteggiare la mobilita'. Le migrazioni portano dunque alla luce un dilemma costitutivo che incrina al fondo le democrazie liberali. Il dilemma filosofico sfocia in una tensione politica aperta tra la sovranita' statale e l'adesione ai diritti umani. Nei lacci di questo doppio vincolo si dibatte la democrazia radicata nei confini dello Stato-nazione. L'inconciliabilita' tra diritti umani e sovranita' statale affiora paradossalmente anche nelle convenzioni universali e nei documenti giuridici internazionali. Di qui, purtroppo, la loro impotenza. Si intuisce allora perche' riflettere sulla migrazione significa anche ripensare lo Stato. Senza quella discriminazione, operata a priori, lo Stato non esisterebbe. Le frontiere assumono un valore quasi sacrale, rinviano a un'origina semi-mitica, perche' sono l'esito e la prova di quel suo compito diacritico, di quella sua missione delimitante. E' grazie a questo definire e discriminare che la compagine statale puo' costituirsi, puo' restare ferma e salda, puo' anzi "stare", essere Stato. L'esatto opposto della mobilita'. Quanto piu' questo compito e' imperativo, come nello Stato-nazione, tanto piu' tenace si rivela l'aspirazione all'omogeneita' e all'integrita'. Per i figli della nazione, che fin dalla nascita ne hanno condiviso l'ottica interna, lo Stato ha un'immediatezza ovvia, e' un dato eterno, esibisce un'indiscutibile naturalita'. Il migrante smaschera lo Stato. Dal margine esterno ne interroga il fondamento, punta l'indice contro la discriminazione, rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. E percio' spinge a ripensarlo. In tal senso la migrazione porta con se' una carica sovversiva.
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- "Letture.org": Lei sostiene nel Suo libro una politica dell'ospitalita', fondata sulla separazione dal luogo in cui si risiede: l'abitare un luogo non rappresenta dunque alcun valore?
- Donatella Di Cesare: Una filosofia che muove dalla migrazione, che dell'accoglienza fa il suo tema inaugurale, lascia che il migrare, sottratto all'arche', al principio che fonda la sovranita', sia punto d'avvio, e che il migrante sia protagonista di un nuovo scenario anarchico. Il punto di vista del migrante non potra' non avere effetti sulla politica come sulla filosofia, non potra' non movimentare entrambe. Penso che lo ius migrandi sia il diritto umano del nuovo millennio secolo che, sostenuto dall'associazionismo militante, dai movimenti internazionali e da una opinione pubblica sempre piu' avvertita e vigile, richiedera' una lotta pari a quella per l'abolizione della schiavitu'. Non c'e' diritto di migrare senza l'ospitalita' intesa come diritto di residenza. Questo puo' avvenire solo riconoscendo che nell'esilio planetario della globalizzazione siamo tutti stranieri residenti. Questa antica, nuova figura dello "straniero residente" fa saltare la logica di saldi steccati che assegnano l'abitare all'autoctono, al cittadino. Il cortocircuito collega lo straniero al risiedere, all'abitare, modifica entrambi. Abitare non vuol dire stabilirsi, installarsi, stanziarsi, fare corpo con la terra. Di qui le questioni che riguardano il significato di "abitare" e di "migrare" nell'attuale costellazione dell'esilio planetario. Senza recriminare lo sradicamento, ma senza neppure celebrare l'erranza, si prospetta la possibilita' di un ritorno. A indicare la via e' lo straniero residente che abita nel solco della separazione dalla terra, riconosciuta inappropriabile, e nel vincolo al cittadino che, a sua volta, scopre di essere straniero residente. L'ospitalita' deve essere iscritta nella cittadinanza. E quest'ultima non potra' restare immutata. Non si tratta di democratizzare la cittadinanza, svincolandola dalla nazione, bensi' di andare al di la' della cittadinanza, facendo emergere tutti i limiti del cosmopolitismo. Alla fin fine non si tratta di essere proclamati "cittadini", o "cittadini del mondo", ne' si tratta dell'estensione della "cittadinanza mondiale", bensi' di andare oltre, in quello spazio dove si deve co-abitare. Questo importa: coabitare.
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- "Letture.org": Quale futuro per l'integrazione tra migranti e abitanti?
- Donatella Di Cesare: "Ognuno a casa propria!". Questo e' lo slogan della xenofobia populista che trova qui il suo punto di forza. Spesso si ignora, pero', che questo e' un lascito diretto dell'hitlerismo che si proponeva di stabile i criteri della coabitazione. Il gesto discriminatorio rivendica per se' il luogo in modo esclusivo. Chi lo compie si erge a soggetto sovrano che, fantasticando una supposta identita' di se' con quel luogo, reclama diritti di proprieta'. Come se l'altro, che proprio in quel luogo l'ha gia' sempre preceduto, non avesse alcun diritto, non fosse, anzi, neppure esistito. Si cela in questa rivendicazione la violenza ancestrale. Quel soggetto sovrano, che sia un "io" o un "noi", che si proclami al singolare o plurale, non e' che un usurpatore che intende sostituirsi all'altro, scalzarlo, cancellarne le tracce. Come se l'altro, che proprio in quel luogo l'ha gia' sempre preceduto, non avesse alcun diritto, non fosse, anzi, neppure esistito. Cosi', insieme all'altro, cancella ogni etica. Perche' nessuno e' mai stato scelto, e sulla terra ha avuto temporaneamente un luogo dove prima abitava un altro, un luogo di cui percio' non puo' esigere il possesso. Coabitare e' la sfida politica ed etica del nuovo millennio.

4. LIBRI. GABRIELLA D'AGOSTINO PRESENTA "STRANIERI RESIDENTI. UNA FILOSOFIA DELLA MIGRAZIONE" DI DONATELLA DI CESARE
[Dal sito www.journals.openedition.org riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Archivio antropologico mediterraneo", a. XXI, n. 20 (2), 2018]

Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
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"Occorre una politica che prenda le mosse dallo straniero inteso come fondamento e criterio della comunita'". Cosi' scrive nel suo recente libro, Stranieri residenti, Donatella Di Cesare, proponendo una riflessione lucida e rigorosa, ma nello stesso tempo appassionante, su cosa significhi oggi essere migranti e che cosa, piu' in generale abbia significato migrare nella storia dell'umanita'. Andando oltre lo jus sanguinis, fondato su fantasmi che sostanziano la discendenza, e mostrando i limiti dello jus soli, che ancora la cittadinanza a un territorio, allo Stato-Nazione, invenzione storicamente recente, la Filosofa propone lo jus migrandi. "Migrare – scrive – e' un atto politico" e in questo senso e' un diritto che rappresenta una delle sfide del XXI secolo.
Il libro e' articolato in quattro densi capitoli: "I migranti e lo Stato", "Fine dell'ospitalita'?", "Stranieri residenti", "Coabitare nel terzo millennio". Nelle sintetica introduzione al volume, significativamente intitolata "In poche parole", l'Autrice avverte subito che non vi si troveranno "soluzioni" alle questioni politiche che dominano il dibattito sulle migrazioni: come "governare i flussi", come "distinguere tra rifugiati e migranti economici", come "integrarli”. Piuttosto, andando oltre "la logica immunitaria dell'esclusione" che sostanzia il pragmatismo politico, il suo approccio non puo' portare a soluzioni. L'ottica stato-centrica, fondata su una concezione di Stato come entita' naturale e quasi eterna, non puo' che intendere la migrazione come "devianza da arginare, anomalia da abolire": "Dal margine esterno il migrante rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica" (p. 11). Il libro pertanto intende proporre una "filosofia della migrazione": "Una filosofia che muove dalla migrazione, che dell'accoglienza fa il suo tema inaugurale, lascia che il migrare, sottratto [...] al principio che fonda la sovranita', sia punto d'avvio, e che il migrante sia protagonista di un nuovo scenario anarchico". E il suo punto di vista – sottolinea Di Cesare – "non potra' non avere effetti sulla politica come sulla filosofia, non potra' non movimentare entrambe" (p. 12). L'ottica a partire da cui si dipana la riflessione e' infatti quella che, sovvertendo l'idea di ospitalita' come istanza assoluta e connessa alla "carita' religiosa" o a un laico impegno etico, intende far entrare il migrante nella citta' come straniero residente. Atene, Roma, Gerusalemme sono tre modelli di cittadinanza che l'Autrice presenta e attraverso cui esemplifica cosa intenda per abitare e coabitare, per partecipazione e simultaneita', per promiscuita' spaziale e convergenza temporale.
Sia lo ius sanguinis sia lo ius soli sono criteri che de-finiscono l'appartenenza e che circoscrivono, fondandola, una comunita', la comunita'. Qual e' il significato dell'abitare? Forma frequentativa del verbo habeo, ci spiega Di Cesare, abitare significa "avere abitualmente, continuare ad avere". Abitare e' dunque la proprieta' e l'appartenenza, il possedere: "il soggetto, protagonista dell'abitare, scava in profondita' e traccia intorno a se' i confini dell'appropriazione. Il corpo si installa in uno spazio" (p. 164). Una svolta, nella riflessione sull'abitare, e' in Heidegger (Essere e tempo, par. 12). Nella riflessione sul rapporto tra essere e spazio, l'esistenza rimanda a ex-sistere, "venir fuori", "emergere da": "L'esserci, il Dasein [...] e' sempre un essere-nel-mondo. Di solito si e' portati a credere che l'esserci esista autonomamente e che inoltre si trovi nel mondo, o meglio, dentro il mondo. Si immagina, insomma, un rapporto spaziale, per cui si sta dentro il mondo come all'interno di un contenitore". Tuttavia, si chiede Di Cesare, "come va interpretato questo in, la preposizione che dovrebbe indicare il posto occupato dall'esistenza nello spazio?" (p. 165). Per decostruire questa credenza bisogna andare "all'etimologia di in che deriva dall'antico gotico innan – o wunian – cioe' wohnen, in latino habitare. Heidegger – continua Di Cesare – precisa che qui an indica l'essere soliti, abituali, rinvia cioe' alla familiarita'. Essere-nel-mondo non vuol dire stare dentro il mondo, occupare un posto, ma implica una relazione che si manifesta nel soggiornare presso il mondo in uno stretto nesso di intimita'" (pp. 165-166). Secondo Heidegger, l'abitare e' il "soggiorno", il "dimorare provvisorio", il "sostare fugace sulla terra", nulla a che fare dunque "con l'avere, con l'occupazione di uno spazio". I mortali devono imparare ad abitare, perche' in quanto mortali transitano, arrivano e partono. Non possono sottrarsi alla transitorieta'. Non radicamento, non possesso: abitare significa migrare (Wanderung, migrazione), "un migrare che richiama lo scorrere di un fiume", "la corrente che si incanala in un alveo, che lo scava, lo plasma e tuttavia lo segue, mentre disegna tracciati, apre vie, dischiude luoghi da cui prende luce lo spazio aperto [...]. Corrente vuol dire che l'abitare non puo' essere concepito come un essere qui, ma va invece inteso come un essere li' e oltre, dove si dirige il fiume". Se "la corrente del fiume e' il luogo del soggiornare umano sulla terra, il suo unico domicilio, allora l'abitare non puo' trovare legittimazione nel sangue e nel suolo" (pp. 167-168).
Paradigmatico e' il mito dell'autoctonia del modello ateniese, "che non aspira a offrire una visione degli albori, ne' vuole reclamare il possesso del primo antenato, che riserverebbe l'onore di aver dato la nascita all'umanita'. Nelle sue molteplici versioni – osserva Di Cesare – confacenti alle diverse citta', spesso rivali, il mito e' il viatico non tanto per sottolineare la nobilta' di una genealogia eroica e antichissima, quanto per affermare il possesso esclusivo del chton, il territorio civico dal quale, in una attribuzione collettiva dell'autoctonia, i cittadini sono nati e a cui appartengono" (p. 175). La rivalita' tra Atene e Sparta si deve anche alla loro diversa origine, Sparta e' la citta' dorica, di immigrati; Atene l'esempio della pura autoctonia: "la purezza mitica del passato, quando il popolo autoctono ha acquisito, nell'istante stesso della sua nascita, il suolo in cui abita, senza aver dovuto risiedere su terre altrui, ne' cacciarne gli occupanti, e' indispensabile per legittimare il diritto di possesso nel presente. Nel ricordo di quell'inizio gli ateniesi assicurano la propria identita' restando fermamente saldi al chton, al territorio attico. [...] E' il suolo attico, l'arche', il principio assoluto, l'inizio dell'umanita' e del mondo, il fondamento della citta', l'origine da cui si dispiega l'ordine patrilineare, quello della patria, della progenie. Liarche' e' il principio patrio" (pp. 175-176). Cosi' Platone nel Menesseno (237b-c, 238e-239a) potra' dire: "La bonta' della nascita trova il suo fondamento nell'origine dei loro antenati che non e' straniera, onde chiaramente risulta che gli stessi discendenti non sono meteci [metoikountas] in questo paese, venendovi da di fuori, ma autoctoni, che abitano [oikountas] e vivono nella loro patria, nutriti non come gli altri da una matrigna, ma da una terra madre dove abitavano [oikoun] e dove ora, morti, giacciono in quei familiari luoghi [en oikeiois topois] in cui questa li genero', li nutri', li ospito'". Nascita e morte dunque sono in relazione con la stessa terra. Solo i figli di una stessa madre sono cittadini, gli altri sono stranieri residenti. L'unita' genetica e l'omogeneita' di stirpe legittimano la democrazia: "Mentre tutte le altre citta' sono composte da uomini di tutte le provenienze e ineguali, si' che tale ineguaglianza si rispecchia nelle stesse costituzioni politiche, che sono tirannidi e oligarchie, e gli abitanti si considerano, gli uni di fronte agli altri, o come schiavi o come padroni; noi e i nostri, tutti fratelli perche' frutto di una sola madre, non ci consideriamo ne' schiavi ne' padroni gli uni degli altri, ma la nostra uguaglianza di origine [isogonia], dovuta alla stessa natura, ci costringe a ricercare eguaglianza legale [isonomian], stabilita per legge, e a non arrenderci gli uni agli altri, se non di fronte a fama di virtu' e di intelligenza" (p. 177).
Opposto e' il modello di Roma. Se ad Atene e' la citta' a definire il cittadino, a Roma e' il cittadino a definire la citta', e' l'individuo a determinare la comunita'. Laddove la cittadinanza ateniesa e' "esclusiva e statica", quella romana e' "inclusiva e dinamica". Dalla Lex Julia e la Lex Plautia Papiria (90-89 a.C.) e poi con l'Editto di Caracalla (212 d.C.), la cittadinanza viene concessa a tutti gli uomini liberi che Roma via via ingloba nel corso della sua politica espansionistica. Qui si inaugura la cittadinanza giuridica, sganciata sia dalla nascita sia dal domicilio e connettendola alla provenienza, alliorigo. Ogni cittadino ha una origo, ereditata di padre in figlio, che lo collega a un luogo che come collettivita' ha ricevuto da Roma la cittadinanza: "Grazie a questa duplice cittadinanza, d'origine e di diritto, Roma puo' estendere facilmente il suo dominio salvaguardando l'alterita' dei popoli inclusi" (p. 184). Il mito di fondazione di Lavinio e Roma, narrazione complessa da districare gia' per gli storici antichi, e i due protagonisti, Enea e Romolo, dice che i romani erano stranieri prima di diventare romani e che Romolo fonda una citta' accogliendo banditi, briganti, fuorilegge, schiavi. "Enea e Romolo, commenta Di Cesare, impediscono ogni genealogia diretta, interdicono ogni autoctonia mitica. Quanto agli aborigeni – un altro modo per chiamare gli italici o gli italiani – il loro nome, che tradisce l'origo, significa che quelli ci sono ab origine, dall'origine, e indica un limite temporale, non la nascita dalla terra" (pp. 186-187).
Il terzo modello che Di Cesare presenta e discute riguarda la citta' biblica di Gerusalemme, inquadrata su uno sfondo "caratterizzato non solo da un'etica, ma anche da un diritto costituzionale e da un diritto pubblico" (p. 187). Qui si colloca la questione dello straniero. Nella costituzione della Torah si trova "una vera e propria carta dello 'straniero residente', l'immigrato che abita presso il popolo di Israele". Il gher e' lo straniero che bussa alla porta dell'ezrakh, il cittadino che gli apre. La riflessione dell'Autrice si incentra su questa condizione, si interroga sui suoi diritti, indaga sulle loro reciproche relazioni. I termini richiedono una indagine filologica accurata per scongiurare il rischio di proiettare concetti greci e romani sul contesto ebraico. "La lingua ebraica ricorre [...] alla stessa radice verbale per designare sia l'abitazione sia l'estraneita'. Il gher deriva il suo nome da ghur che vuol dire abitare. [...] Letteralmente gher vuol dire colui che abita. Lo straniero, che nel testo biblico indica chi giunge dall'esterno, e si congiunge a Israele come ospite o come proselita, in una accezione molto vasta, e' allo stesso tempo l'abitante" (pp. 188-189). L'estraneita' e' dunque una condizione transitoria, essa non rimanda a una differenza identitaria, anzi "contribuisce a scavare il vuoto nell'identita', a renderla differente, a tenerla in movimento", rimandando a un altro modo di intendere l'abitare. L'estraneita' che si introduce nella dimora ricorda a chi abita che anche lui e' straniero. Essa pertanto non si oppone all'abitare ma ne modifica significato e senso. L'ebreo, come rivela l'etimologia di ivri', e' venuto da un altrove, non e' del luogo, questo non gli appartiene: "Si compendia qui il ruolo del gher che abita presso il popolo di Israele. Lo straniero, in quanto abitante, non e' opposto a ezrakh, la cui cittadinanza non e' fondata sull'autoctonia. Chi bussa alla porta non si scontra nell'etnicita' tellurica, nel particolarismo radicato. Come la Citta' si regge sulla Legge, cosi' il gher entra a far parte della comunita' attraverso il legame della Legge. E' un ingresso nell'universo dell'alleanza e del diritto. Entrare a far parte non vuol dire identificarsi. Lo straniero mantiene la sua estraneita', mentre gli vengono riconosciuti i suoi diritti" (p. 190). In Shemot [Esodo] 12, 49 si legge: "Una sola Torah avra' vigore per il cittadino [ezrakh] e per lo straniero [gher] che abita [gar] presso di voi". Gher e ebreo hanno uno stesso statuto: "Quel che vale per lo straniero, vale per tutto Israele nella sua costitutiva estraneita'. Piu' che ricongiungersi all'alleanza di Abramo dall'esterno, il gher ne fa sempre gia' parte" (p. 190). Nella Torah tuttavia si riconosce la fragilita', il possibile isolamento, la poverta' dello straniero e si prescrive un comportamento da tenere nei suoi confronti non solo in ottemperanza a un'etica, ma anche per bilanciare concretamente possibili condizioni ingiuste. Allo straniero, equiparato a fratello, come alla vedova e all'orfano, senza famiglia e senza terreno da coltivare, si badera' a lasciare il covone dopo la mietitura dei campi, le olive rimaste sull'albero dopo la raccolta, l'uva nella vigna dopo la vendemmia (Devarim [Deuteronomio] 24, 17-21) (p. 190). A questo si aggiungano le decime e le offerte per i bisognosi: "l'ospitalita' garantisce anzitutto alloggio e sostentamento" (p. 192).
Ruth, la moabita, e' il paradigma della gherut, dell'estraneita' come fonte della sovranita' ebraica, fondata sulla presenza-assenza di Dio: "Il ritrarsi per far posto all'altro e' il modello della creazione. E' cosi' che Dio, ritraendosi e ritirandosi, ha lasciato quel vuoto da cui sono sorti l'uomo e il mondo. Il vuoto e' fonte di vita. E dovra' essere custodito in un mondo che, per l'esilio di Dio, non e' compiuto. A sua volta, l'essere umano e' chiamato a reiterare quel ritiro, a serbare il vuoto attraverso la separazione – separandosi innanzitutto da se'. Di qui la sua costitutiva estraneita'" (p. 194). "Gli stranieri sono gli schiavi di un tempo che hanno approfittato del varco aperto nella totalita' egiziana per fuggire. L'uscita del popolo ebraico non mette fine solo alla sua oppressione, ma infrange anche il principio della schiavitu'. Chiunque, da quel momento, sa di non dover piu' essere schiavo. [...] L'uscita e' un'entrata: mentre esce dall'Egitto, dall'interno di un altro popolo, Israele si costituisce. La scena della fondazione e' un attraversamento, un passaggio. La fondazione non ha un principio, un inizio. L'uscita dall'altro precede ogni identita' che sara' sempre segnata da quel ricordo. Il popolo ebraico e' gia' sempre preceduto [...]. L'autoctonia resta impossibile. L'esordio del popolo, il suo ingresso nella storia, e' un'uscita. In tale insolito e straordinario rovesciamento tra dentro e fuori, l'apertura resta incisa nella dimora" (p. 195).
Lo straniero, il gher, e' dunque essenziale nella Citta' biblica e l'"idolatria del radicamento" ha come effetto immediato la guerra. Egli ricorda agli ebrei di essere stati stranieri, spingendoli a mantenere l'esilio nella loro dimora. Tutti gli abitanti sono ospiti, tutti i cittadini sono stranieri. Il gher e' toshav, "residente temporaneo" e "ospite". "Gli abitanti della terra – avverte Di Cesare – sono gherim vetoshavim, stranieri e residenti temporanei. [...] Lo statuto del gher toshav, dello straniero residente, basato unicamente sull'ingiunzione al ricordo dell'estraneita', una estraneita' a sua volta sostenuta dal ricordo, rende ineluttabile l'esilio, ne fa una categoria non solo teologica, ma anche esistenziale e politica" (p. 198).
Insomma, una bella lezione per l'oggi, per tutti. Un libro da leggere lentamente, come e' stato da piu' parti rilevato, difficile da riassumere e denso di spunti su cui meditare e rimeditare. La questione centrale e' allora ripensare criticamente il nesso tra nazione e cittadinanza. Di Cesare si richiama ad Habermas di "Cittadinanza politica e identita' nazionale" (1992, in Morale, diritto, politica, Einaudi 2007) che metteva in guardia contro i pericoli di una cittadinanza politica in un orizzonte post-nazionale, in cui lo Stato moderno, potente finzione, si e' fondato sulla "identificazione deleteria tra demos e ethnos" (p. 233). Questa identificazione non puo' fare parte ne' del concetto di democrazia ne' di quello di cittadinanza politica. Se una comunita' e' la partecipazione dei cittadini che esercitano i loro diritti, jus sanguinis e jus soli sono criteri di appartenenza, non di partecipazione. Habermas si augura che una cittadinanza democratica possa "preparare la strada a quello status di cittadinanza cosmopolita che gia' oggi si profila nelle comunicazioni politiche su scala planetaria" (p. 234). Di Cesare tuttavia intende andare al di la' della cittadinanza e far emergere i limiti del cosmopolitismo: "non si tratta di essere proclamati 'cittadini', o 'cittadini del mondo', ne' si tratta dell'estensione della 'cittadinanza mondiale', bensi' di andare oltre, in quello spazio dove si deve co-abitare [...]. Nella sua ingenuita' vacua il cosmopolitismo non dischiude e non assicura una politica dell'accoglienza. Chi ha subito le sevizie della guerra, chi ha sopportato la fame, la miseria, non chiede di circolare liberamente dove che sia; spera piuttosto, al temine del suo cammino, di giungere la' dove il mondo possa di nuovo essere comune. Non pretende di unirsi alla comunita' dei cittadini del mondo, ma si aspetta di poter coabitare con altri. Il cosmopolitismo e' una sorta di comunitarismo, nel senso che afferma il primato della comunita' umana su tutte le altre istituzioni. Il che non consente necessariamente l'accoglienza. Un altro modo di intendere la comunita' e' possibile" (p. 238).
La teoria del contratto sociale pone al margine, aggirandola, la questione dell'accoglienza. Nel proiettare in un passato mitico la sottoscrizione di un accordo tra individui che rinunciano a una parte delle loro prerogative per la liberta', la pace, la sicurezza nel nome di una volonta' generale, si costruisce un soggetto collettivo, un "noi", che pone gli "altri" alla frontiera che deve rimanere immutabile. La politica, pertanto, riguarda le questioni relative alla comunita' cosi' formata, la giustizia sociale riguarda i suoi membri, "l'eventuale ammissione dello straniero o, al contrario, il suo rifiuto, spettano alla comunita', perche' toccano l'autodeterminazione e la legittimita' delle sue frontiere" (p. 239). La comunita' dunque deve immunizzarsi per proteggersi da ogni minaccia esterna dal momento che lo scopo di una comunita' cosi' intesa e' preservare la coesione e il potere di azione.
Per la filosofia politica tradizionale "l'accoglienza rivela alla fin fine un impensato. Pensarla sarebbe compito di una filosofia [...] impolitica" (p. 240). Il rimando non puo' che essere alla riflessione di Roberto Esposito e alla sua filosofia dell'"impolitico" delineata proprio a partire dal ripensamento del significato di 'comunita'' (Categorie dell'impolitico, Bologna, Il Mulino 1999; Communitas. Origine e destino della comunita', Torino, Einaudi 2006). Nelle sue diverse declinazioni (liberale, comunitaria, comunista), la comunita' e' sempre intesa come proprieta' o identita' collettiva: essa appartiene "in proprio" "a un gruppo di individui che, grazie a cio', possono riconoscervi la loro identita'. [...] La comunita' viene semanticamente spinta verso i valori dell'appartenenza e dell'identita'" (p. 240). Nella riflessione di Esposito, invece, seguendo l'etimologia del termine, communitas e' condivisione del munus, di un vuoto, di un debito mai ripagabile, di un dono. "Cio' che e' comune non appartiene a nessuno, [...] si sottrae a ogni appropriazione [...]. In tal senso la comunita', considerata [...] in quell'etica che, mentre vincola lascia sempre uno spazio vuoto, non puo' essere intesa ne' come proprieta' ne' come identita'. Qui il 'noi' e' insensato come lo sono pure il 'tra noi' e il 'nostro'; il munus richiede l''essere con'" (p. 241). La communitas diventa immunitas quando questa obbligazione reciproca collassa, quando essa diventa "piccola patria".
Con le parole di Di Cesare che sintetizza Esposito: "Rendere il mondo comune vuol dire allora smantellare, demolire, disfare l'immunita', intorno alla quale il corpo politico si e' andato costruendo. [...] Se appare impossibile e irreale una politica dell'accoglienza, e' reale e necessaria un'impolitica dell'accoglienza. Per questo occorre riflettere sul valore del coabitare e sul significato del luogo. Solo una condivisione responsabile dei luoghi comuni puo' de-immunizzare dischiudendo spazi inediti di solidarieta', tempi inattesi di liberta'" (p. 243).
Di Cesare, nelle ultime pagine del suo libro presenta una lucida riflessione sulla condanna di Eichmann contenuta nell'ultima parte del lavoro di Hannah Arendt La banalita' del male, per tirare le fila del ragionamento sul significato di coabitare. "Arendt – scrive Di Cesare – riconosce una inquietante continuita' sul cui sfondo si staglia il progetto genocida dello sterminio. Anzitutto una continuita' con lo Stato-nazione che, gia' in quanto tale, fondandosi su un ideale omogeneo, e' spinto a espellere, a sputare fuori senza pieta' quanti non appartengono alla nazione [...]. Si spiega cosi' la ricorrente produzione di masse di rifugiati, destinata ad aumentare. Di qui la sua insistenza sul nesso tra espulsioni e sterminio. Come non sarebbe finito il nazionalismo dopo la Shoah, cosi' lo Stato-nazione avrebbe rappresentato un pericolo tanto piu' preoccupante, perche' dinanzi al crescente mescolarsi dei popoli al suo interno avrebbe cercato comunque di far coincidere la nazione con lo stato, anche a costo di impiegare mezzi violenti. Per i rifugiati c'era da aspettarsi tempi difficili. [...] Ma la continuita' riguarda anche il futuro. Che cosa resta dell'hitlerismo? L'idea che sia possibile scegliere con chi coabitare. Arendt non lo dice con chiarezza. Ma tra le righe si avvertono apprensione e timore per un progetto che, una volta introdotto nella storia, avrebbe potuto essere ripreso. L'esito finale dello sterminio non deve far perdere la costellazione politica in cui e' stato concepito. Coabitare non puo' essere una scelta, ne' tanto meno libera. E' nel liberalismo che, grazie alla finzione del contratto, volontariamente stipulato, si e' andata affermando l'idea che, con altrettanta autonomia, si possa decidere chi ammettere e chi escludere. Arendt non si sbagliava. Questo retaggio e' rimasto e affiora nelle tesi liberali sull'immigrazione che ripropongono il principio della liberta' di coabitazione, spesso senza riflettere sugli effetti a cui ha condotto nel passato. Ma rivendicare per se' questa liberta' significa incamminarsi già verso una politica di genocidio. Il principio immunizzante e' il medesimo" (p. 254).
Il progetto dell'Unione Europea e il suo successivo ampliamento, in fondo, consistevano proprio nell'immaginare questo spazio come il luogo di una riscoperta della politica, il laboratorio dove sperimentare nuove forme di cittadinanza, sganciata dalla filiazione e dalla nascita, e "sbarazzarsi del mito tossico della nazione": Europa “dimora delle diversita' (p. 244). Questo progetto e' miseramente crollato, l'"Europa delle diversita'" non ha preso forma, ma ha invece dato forma a un coacervo scomposto in cui un "insensato raddoppiamento dell'appartenenza", "un duplicato privilegio" della nascita hanno finito con il prendere il sopravvento. Cosi', identita', confini, sicurezza sono le parole mefitiche che uccidono a poco a poco ogni giorno e l'Europa e' rimasta ostaggio delle nazioni. Ma il coabitare non puo' darsi "nel solco del radicamento, bensi' nell'apertura di una cittadinanza svincolata dal possesso del territorio e di un'ospitalita' che prelude gia' a un modo altro di essere al mondo e a un altro ordine mondiale" (p. 259). Imparare ad essere, tutti, stranieri residenti, e impararlo ogni giorno.

5. LIBRI. PAOLO RANDAZZO PRESENTA "STRANIERI RESIDENTI. UNA FILOSOFIA DELLA MIGRAZIONE" DI DONATELLA DI CESARE
[Da "L'Espresso" del 14 gennaio 2018 col titolo "Un pianeta tutto da abitare" e il sommario "Di Cesare propone una diversa filosofia della migrazione e dell'ospitalita'"]

Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
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Un libro da leggere lentamente, il saggio "Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione" di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri, pp. 280, euro 19).
Affronta il tema delle migrazioni contemporanee provando a darne una lettura sistemica. Perche' lentamente?
Perche', se i temi e le vicende che l'autrice analizza non sono diversi o piu' urgenti rispetto a quelli affrontati nella comunicazione pubblica, occorre ricordare che, dietro a ogni sguardo ferito, corpo in mare, sbiadito documento d'identita', non ci sono solo le storie di quanti (255 milioni nel 2015) migrano dai loro distrutti paesi d'origine in altri paesi in cui credono possibile realizzare in pace la loro umanita', ma anche i segni di un nuovo ordine mondiale.
Segni che Di Cesare invita a leggere e capire attraversando i temi del rapporto tra migranti e Stato, dell'attuale valore dell'ospitalita' e, soprattutto, della figura degli "stranieri residenti".
Si ridiscutono i modelli classici di Atene, di Roma con la sua civitas aperta agli stranieri, di Gerusalemme biblica e si scopre in quest'ultimo contesto la figura del "gher", al tempo stesso abitante e straniero. Il concetto dell'abitare come indissolubile legame di sangue tra un popolo e un territorio e' ormai pura, velenosa idolatria.

6. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...

... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.

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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 100 del 2 giugno 2021
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