[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
[Nonviolenza] Telegrammi. 4119
- Subject: [Nonviolenza] Telegrammi. 4119
- From: Centro di ricerca per la pace Centro di ricerca per la pace <centropacevt at gmail.com>
- Date: Fri, 28 May 2021 18:28:27 +0200
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4119 del 29 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Sommario di questo numero:
1. Ripetiamo ancora una volta...
2. Jean-Marie Muller: Dialogo con Eric Weil
3. Segnalazioni librarie
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'
1. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...
... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.
2. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: DIALOGO CON ERIC WEIL
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo dodicesimo: "Dialogo con Eric Weil" (pp. 225-240). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.serenoregis.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
Decidersi per la nonviolenza
Dopo avere lungamente camminato con Eric Weil facendolo parlare e ascoltandolo attentamente, e' venuto il momento di aprire con lui una discussione per fare apparire i nostri accordi e i nostri disaccordi.
Anzitutto, l'immenso merito di Eric Weil e' l'affermare chiaramente che la violenza contraddice radicalmente l'esigenza di ragione che l'uomo porta in se' e che fonda la sua umanita': per divenire realmente e pienamente un uomo, l'individuo deve liberamente optare per la ragione contro la violenza. Eric Weil non ignora che l'uomo e' un essere di bisogni, di desideri e di passioni e che, come tale, e' un essere violento. Ma, se l'uomo e' capace di comprendersi come un essere violento, e' proprio perche' ha gia' in se stesso l'idea della nonviolenza. La violenza e' una possibilita' dell'uomo e la restera' sempre. Ma l'uomo possiede un'altra possibilita' che corrisponde a un'esigenza costitutiva del suo essere: la nonviolenza.
Per realizzare la sua umanita', l'uomo deve tentare di informare alla ragione i suoi desideri e le sue passioni e di sottometterli alla sua volonta': deve decidersi per la nonviolenza. Questa decisione da' un senso alla sua esistenza, cioe' nello stesso tempo un orientamento e un significato. Cosi', tutta la riflessione filosofica di Eric Weil e' fondata sul concetto di violenza e, dunque, su quello di nonviolenza. Volendo precisare cio' che si trova al centro del pensiero del Nostro, Gilbert Krischer scrive: "Al livello catagoriale, la violenza e' il concetto di cio' che minaccia l'uomo nella sua stessa umanita': la soppressione della relazione umana da uomo a uomo, all'altro uomo e all'uomo che egli e'. Essa e' cio' che lo disumanizza. E' questo "altro dall'uomo" che abita nell'uomo, col quale l'uomo e' in conflitto, e questo conflitto costituisce l'uomo nella sua stessa umanita'. L'uomo trova se stesso nell'esperienza della violenza" (1). La violenza e' l'irrazionalita', la contraddizione, il non-senso perche' e' l'in-umanita'. Per questo l'uomo ragionevole deve decidere di scartare la violenza e optare definitivamente per la nonviolenza, sapendo bene che questa opzione dovra' essere rinnovata ad ogni istante per allontanare la possibilita' sempre presente della violenza.
Cosi' la violenza viene squalificata dalla filosofia di Eric Weil e ogni "evangelo della violenza" viene rifiutato: solo l'esigenza di nonviolenza fonda l'umanita' dell'uomo. La nonviolenza non deve soltanto in-formare il pensiero dell'uomo, essa deve determinare il suo atteggiamento nella vita, il suo comportamento verso gli altri, e il suo impegno nella storia. La nonviolenza sara' dunque una saggezza pratica. Infatti, l'uomo che ha optato per la nonviolenza non e' un essere solitario: egli vive in una comunita' storica in seno alla quale ha una parte, legata alla parte degli altri uomini. Non sarebbe pensabile per lui fuggire l'incontro e la presenza degli altri per essere meglio fedele alla sua opzione nonviolenta. Egli deve essere solidale con la sua comunita': e' nella vita di questa che egli deve far progredire la nonviolenza. Poiche', se questa da' un senso all'esistenza personale dell'uomo ragionevole, essa da' ugualmente un senso alla storia collettiva degli uomini e dei popoli. E' dunque responsabilita' dell'uomo ragionevole agire in modo che la storia stessa divenga sempre piu' nonviolenta.
Nella misura in cui gli altri hanno come lui optato per la ragione, per il discorso e la nonviolenza, gli diventa possibile stabilire con loro un dialogo, entrare in una discussione con loro. Essi formano insieme la comunita' dei "veri uomini". Se sopravviene un disaccordo tra loro, cio' non deve generare violenza, perche' essi si sono dati per regola comune di non ricorrervi. Questo disaccordo deve essere superato con la discussione, e se essi non possono arrivare ad un accordo, devono almeno mettersi d'accordo sul loro disaccordo e cosi' disinnescare ogni conflitto tra loro. La nonviolenza sara' la regola d'oro che prevarra' nei rapporti tra i veri uomini che hanno scelto la ragione contro la violenza.
*
Scegliere tra uccidere e morire
Ma Eric Weil non ignora che l'uomo ragionevole si urtera' inevitabilmente con la violenza degli uomini irragionevoli, sia all'interno che all'esterno della sua comunita'. Quale dovra' essere allora l'atteggiamento dell'uomo che ha optato per la nonviolenza quando si trovera' nella situazione in cui dovra' scegliere tra uccidere e morire? Se non si considera altro che l'esigenza formale della morale pura, non c'e' alcun dubbio per Eric Weil che l'individuo debba scegliere di morire per non essere violento lui stesso. Ma egli critica questa scelta, la contesta e alla fine la rifiuta. La rifiuta come una tentazione alla quale l'uomo morale non deve cedere. Accettare di morire appare a Eric Weil come una soluzione facile. Infatti, in definitiva, la morte permette all'uomo morale di sfuggire a tutte le difficolta' che egli incontra nella vita per essere fedele alla morale. La morte, in qualche modo, viene a semplificargli la vita. E' per questo che Eric Weil sospetta colui che fa la scelta di morire, di dimostrare piu' vilta' che coraggio.
Ma, soprattutto, egli rifiuta questa scelta perche', accettando di morire, l'uomo morale abbandona il mondo alla violenza degli uomini immorali, diserta la storia, mentre e' nella storia che egli deve vincere la violenza e fare progredire la ragione. Cosi' Eric Weil arriva ad affermare che, riguardo all'esigenza della morale concreta e storica, e non piu' della morale formale e astratta, l'uomo morale deve scegliere di uccidere piuttosto che morire per preservare la possibilita' di realizzare la nonviolenza, in lui stesso e nella sua comunita'.
E' qui che noi dobbiamo cominciare ad entrare in discussione con Eric Weil. Prima di tutto, bisogna che l'individuo si trovi in una situazione eccezionale per avere da scegliere, in piena conoscenza di causa, tra morire e uccidere. Il piu' delle volte egli dovra' scegliere tra due rischi, quello di uccidere e quello di morire, e questo e' gia' molto differente. Infatti, a priori, non e' sempre detto che, assumendo il rischio di morire piuttosto che quello di uccidere, le probabilita' di venire ucciso siano realmente piu' grandi.
Poi, abbiamo qualche difficolta' a credere a Eric Weil quando dice che e' facile per l'uomo morale preferire morire che uccidere. Saremmo piuttosto inclini a pensare che la paura di morire, anche nell'uomo morale, resta piu' forte della paura di vivere e che, di conseguenza, lui stesso e' naturalmente piu' tentato di uccidere che di morire. Ma, soprattutto, non pensiamo che chi accetta di morire per fedelta' alla sua scelta per la nonviolenza abbandoni la storia e la consegni alla violenza degli uomini irragionevoli. Colui che muore a causa della violenza dei malvagi, non perche' questa violenza lo abbia ripreso nella sua fuga o lo abbia raggiunto nel suo nascondiglio, ma perche' egli ha deciso di affrontarla a viso aperto per sbarrarle la strada e impedirle di continuare la sua corsa folle nella storia proseguendo la sua opera distruttrice, costui e' piu' di chiunque altro presente alla storia. Non soltanto questi e' e resta nella storia, ma agisce nella storia, fa la storia. Non si tratta per lui di proteggere la propria purezza, ma di proteggere la storia contro l'impurita' della violenza. Rifiutando di farsi lui stesso complice della violenza, egli costruisce contro di essa, con il proprio corpo, un nuovo fronte di resistenza. Al contrario, egli ha coscienza che, se accettasse di ricorrere anche lui alla violenza, aprirebbe un breccia che le consentirebbe il passaggio.
Colui che accetta di morire per non uccidere puo' sperare di contribuire effettivamente ed efficacemente a spegnere la violenza nel mondo. Cio' che e' in gioco, qui, e' in effetti la speranza, in quanto opzione filosofica. In fondo, ci sembra che si debba comprendere il pensiero di Eric Weil sulla necessita' della violenza in termini di disperazione. Chiunque accetta di uccidere per non morire rischia fortemente di contribuire a riaccendere la violenza nel mondo. Cosi', proprio a proposito della storia e secondo il criterio dell'efficacia nella storia, e' ragionevole sperare che sia piu' operante il morire per realizzare oggi la nonviolenza in se stessa, che l'uccidere per conservare la possibilita' di realizzarla domani. Colui che accetta di morire per realizzare la nonviolenza in se stesso, la realizza nello stesso momento anche nella storia. Colui che accetta di morire opponendosi con tutto il proprio essere alla violenza della storia e rifiutando cosi' di essere violento lui stesso, apre una speranza nella storia: egli educa gli uomini alla ragione e alla nonviolenza piu' di colui che accetta di uccidere per vincere la violenza. La violenza dell'uomo ragionevole ha ogni probabilita', in effetti, di servire di pretesto alla violenza dell'uomo irragionevole.
Ci sembra dunque essenziale invertire l'ordine della regola e dell'eccezione stabilito da Eric Weil. Secondo lui, la regola, quando l'uomo morale deve scegliere tra uccidere e morire, e' di uccidere, benche' riconosca che possano esistere delle eccezioni a questa regola. A noi sembra, al contrario, che per l'uomo che ha optato per la nonviolenza, la regola debba essere di prepararsi a morire per non uccidere, benche' possano esistere delle situazioni eccezionali in cui egli non possa fare altrimenti che uccidere per impedire una piu' grande violenza, soprattutto quando questa attacca e rischia di uccidere i suoi prossimi. Detto questo, sarebbe dar prova di temerita' fingere di dimenticare che quello stesso che ha scelto la nonviolenza come regola di condotta puo', in tali circostanze, non avere il coraggio di morire e puo' decidere di uccidere, perche' la paura di essere ucciso sara' stata piu' forte della sua volonta' di non uccidere. Del resto, chi potrebbe in tal caso scagliare su di lui la prima pietra?
Dunque, come regola generale, Eric Weil pensa che i veri uomini devono accettare, per mantenere la coesione della propria comunita' e preservare cosi' la possibilita' per i suoi membri di vivere moralmente, di ricorrere alla violenza per riportare alla ragione gli individui che hanno optato per la violenza. Ma cosi' egli reintroduce la necessita' della violenza nella vita stessa dell'uomo che ha optato per la nonviolenza. Certo, egli ha cura di riaffermare che la nonviolenza resta il fine della storia, la sua causa finale, ma lo fa per giustificare meglio la violenza come mezzo necessario – tecnicamente necessario – per raggiungere questo fine.
*
Il fine giustifica i mezzi?
Quando Eric Weil pone il dualismo tra la violenza dell'uomo irragionevole e quella dell'uomo ragionevole e fonda su di esso il suo ragionamento che afferma la necessita' della contro-violenza per contenere la violenza, egli semplifica esageratamente la realta'. Infatti, nella maggior parte dei conflitti violenti, e' praticamente impossibile stabilire una separazione cosi' chiara e categorica tra i comportamenti dei due avversari. Il piu' delle volte, ognuno dei due puo' invocare legittimamente delle buone ragioni per essere in conflitto con l'altro. Ognuno puo' avere dei motivi fondati per pretendere di dire che non fa altro che difendere il suo diritto contro l'altro. Inoltre, e' notevole il fatto che sia l'uno che l'altro abbiano ricorso alla stessa retorica di legittimazione. I discorsi con cui giustificano la propria violenza, infatti, sono perfettamente simmetrici e accade spesso che siano allo stesso modo parzialmente fondati.
Dunque non e' possibile attenersi allo schema giustificativo secondo il quale gli uomini ragionevoli sarebbero obbligati a ricorrere alla violenza per combattere la violenza dei malfattori, dei cattivi, dei criminali o dei folli. La storia, ieri come oggi, e' piena di conflitti mortali in cui ognuna delle due comunita' opposte puo' far valere, con la stessa sincerita' (ma sincerita' non e' verita'...), che essa non fa altro che difendersi contro un nemico che minaccia il suo diritto all'esistenza.
Per Eric Weil e' evidente che il fine giustifica i mezzi. Se c'e' una contraddizione tra la nonviolenza, considerata come il fine della storia, e la violenza, considerata come mezzo per agire nella storia, l'uomo ragionevole deve assumere questa contraddizione, anche se non deve mai rassegnarvisi ma, al contrario, sforzarsi sempre di superarla. Qui ci sembra che la riflessione di Eric Weil sul rapporto tra il fine e i mezzi costituisca un punto debole del suo pensiero. Egli certo non ignora i pericoli e i rischi inerenti al principio della giustificazione dei mezzi con il fine, ma, secondo noi, la maniera un po' sbrigativa con cui difende e legittima quel principio non offre alcuna possibilita' di premunirsi effettivamente contro quei pericoli e rischi. Se, infatti, e' necessario per lui che il fine sia giusto perche' lo siano anche i mezzi, cio' non e' per niente sufficiente. Il fine non giustifica qualunque genere di mezzi. La storia stessa ci mostra che mezzi cattivi pervertono il fine in nome del quale sono impiegati. Esiste, nella realta' dei fatti, una coerenza, una omogeneita' tra la natura dei mezzi messi all'opera e la natura del fine a cui si arriva. L'esigenza di usare dei mezzi coerenti al fine ricercato non e' soltanto una questione di moralita', ma anche, e indissolubilmente, una questione di efficacia. Eric Weil non ci sembra prestare sufficiente attenzione a questo legame organico tra il fine e i mezzi. Egli non si sofferma abbastanza a mettere in luce l'atto di violenza che giudica necessario per contenere la violenza dell'uomo irragionevole, ne' ad esaminare tutte le sue conseguenze, tanto per chi lo commette quanto per chi lo subisce. Cio' lo dispensa dal constatare che questo atto di violenza e' anch'esso uno scacco della ragione.
*
La violenza puo' essere l'antidoto della violenza?
Eric Weil ragiona costantemente a partire dal postulato secondo il quale l'azione contro la violenza – che si tratti della violenza della delinquenza, dell'ingiustizia, dell'oppressione o dell'aggressione; del resto egli non fa generalmente distinzione tra queste differenti violenze – e' necessariamente violenta, e cio' senza che quel postulato sia veramente discusso. Nel leggerlo, troviamo che egli tiene questo postulato come indiscutibile. Ora, proprio questo postulato ci sembra del tutto discutibile. Vorremmo dunque discuterlo continuando il dialogo con Eric Weil.
Tra i mezzi che possono ricondurre alla ragione l'uomo irragionevole, Eric Weil non vede altro che la persuasione e la violenza. Ma, affinche' la persuasione possa arrivare allo scopo, bisognerebbe che l'individuo che ha scelto la violenza decida liberamente di rinunciarvi, opti per la ragione e accetti la discussione. Questo non e' impossibile, perche' l'uomo violento resta ancora radicalmente capace di ragione, ma non e' la cosa piu' probabile. E, dal momento in cui la persuasione ha fallito nel convincere colui che ha optato per la violenza, Eric Weil afferma che l'uomo ragionevole non ha piu' alcuna altra possibilita' se non scegliere lui stesso la violenza per costringerlo, dato che gli argomenti duri della violenza sarebbero i soli che quello puo' comprendere. Ma quelli che credono che la violenza e' il solo linguaggio che possa essere compreso dai loro avversari e che possa far loro intendere la ragione, necessariamente non imparano e non sanno effettivamente parlare che quel linguaggio. Cosi', si chiudono essi stessi nella fatalita' della violenza.
Eric Weil non lascia alcuno spazio ad una costrizione che non sia violenta, cioe' che faccia valere altri argomenti da quelli della ragione, senza entrare nella logica inumana e disumanizzante della violenza. La nozione di costrizione nonviolenta e' del tutto assente dal campo di riflessione di Eric Weil. Per lui, la nonviolenza non puo' essere messa in atto che nel dialogo e nella discussione, non puo' essere altro che la nonviolenza del discorso. Egli non conosce la nonviolenza dell'azione. Egli ignora tutto dell'azione nonviolenta, che puo' obbligare l'individuo irragionevole ad accettare la discussione esercitando contro di lui una forza che non e' una violenza, cioe' che non viola la sua umanita'.
Secondo Eric Weil, ogni azione nella storia e' necessariamente violenta e colui che rinuncia alla violenza rinuncia all'azione nella storia col pretesto di salvaguardare la purezza della sua volonta'. Bisogna riconoscere che questa tesi non e' fondata. Ci sembra che il suo errore decisivo stia nel non avere posto una distinzione tra forza e violenza. Egli parla sempre della violenza in una maniera generica e ingloba in questo solo termine tutte le forme di costrizione. Percio', egli non lascia alcuno spazio per una forza nonviolenta fondata non soltanto sulla forza della ragione, ma anche sulla forza dell'azione; non lascia alcuno spazio ad una azione nonviolenta che metta in atto una reale forza di costrizione tale che non debba nulla alla logica distruttrice e omicida della violenza.
"Mi sembra abbastanza chiaro – scrive Patrice Canivez – che Weil ha in vista un intervento del filosofo nella storia il cui risultato sarebbe far generare alla storia una versione nonviolenta dell'azione, cioe', in un senso preciso del termine, una versione propriamente politica dell'azione. (...) Questo punto e' evidentemente da mettere in rapporto con l'atteggiamento socratico del filosofo, cioe' col suo rifiuto della violenza attiva" (2). Ma, affermando questo, Patrice Canivez effettua un superamento del pensiero di Eric Weil. Certo, questo superamento e' interno alla logica della sua filosofia e, in questo senso, e' fedele al suo pensiero, ma non e' stato esplicitamente formulato da lui. E' vero che tutta la riflessione filosofica di Eric Weil invoca con tutta la sua speranza una "versione nonviolenta dell'azione", ma lui stesso non ha mai percepito chiaramente la possibilita' di una tale azione. E' per questo che egli ha sempre mantenuto la necessita' dell'azione violenta. Patrice Canivez precisa che Eric Weil ha lui stesso considerato delle situazioni nelle quali l'azione puo' diventare nonviolenta: "Questo e' vero, egli nota, per il governo, poiche' esso agisce mediante la discussione" (3). Ma, in realta', in questo caso, il governo discute piu' che agire e mira soltanto a persuadere degli interlocutori che non hanno scelto la violenza. Ora, l'azione che fa problema, tanto al filosofo quanto all'uomo politico, e' quella che agisce contro la violenza. In definitiva, la ricerca effettiva delle possibilita' dell'azione nonviolenta realizza il compimento della filosofia di Eric Weil, ma lo realizza al di la' della sua propria visione. Per poter affermare quello che scrive Patrice Canivez, bisogna mettersi sulle spalle di Eric Weil, cio' che permette di scoprire un orizzonte che lui non ha scoperto...
*
La violenza non riconosce alcun limite
Certamente, riconoscendo la necessita' della violenza, Eric Weil vorrebbe limitarne l'impiego allo stretto necessario. Ma, in forza della sua propria logica, tutta meccanica, la violenza non riconosce alcun limite. Dal momento in cui le si fa spazio, essa vuole occupare tutto lo spazio. Eric Weil coglie questo pericolo, ma ci sembra che non vi dedichi la riflessione che si dovrebbe dedicargli per circoscriverlo e per tentare di premunirsi contro di esso.
Benche' pensi di dover affermare la necessita' della violenza, Eric Weil vuole credere che l'umanita' arrivera' ad eliminare questa necessita'. Ma una tale attesa rischia fortemente di essere vana, poiche' postula che tutti gli uomini abbiano liberamente deciso di scegliere la ragione contro la violenza. Eric Weil puo' ben esigere che l'uomo ragionevole, quando usa la violenza per vincere la violenza dei malvagi, abbia la ferma intenzione, anzi, di piu', che abbia la volonta' tenace di non farlo se non per creare un mondo in cui non sara' piu' necessario farlo, ma, contrariamente a quanto egli afferma, cio' non e' decisivo. Questo, infatti, non dipende dall'uomo ragionevole. Dipende dagli uomini irragionevoli e dalla loro disposizione a optare per la ragione. Ora, Eric Weil non ignora che da uomini abbandonati alle loro passioni si puo' ben esigere, ma non ci si puo' aspettare che siano ragionevoli.
Affermare che l'azione dell'uomo ragionevole deve mirare anche all'eliminazione della violenza che lotta contro la violenza ingiusta, e', se ci si attiene strettamente al "sistema" di Eric Weil, postulare in realta' una storia liberata dalla violenza ingiusta, il che implica che la storia sia liberata dall'uomo ingiusto. Inoltre, e' postulare una u-topia che non si realizzera' mai da nessuna parte. Bisogna convenire qui che il sistema di Eric Weil si trova prigioniero di una contraddizione irriducibile e che, in definitiva, esso non funziona.
Quando egli tenta di fare un bilancio della storia, e piu' particolarmente il bilancio dell'azione della violenza nella storia, ci sembra dar prova di un ottimismo che non e' confermato dai fatti stessi. Le conclusioni a cui perviene fanno conto su un progresso della nonviolenza nella storia che ci lascia un po' scettici. Come minimo, questo progresso non e' lineare. Ogni avanzata e' pagata cara e nessuna e' definitivamente acquisita. E, soprattutto, le ricadute indietro sono cosi' numerose e profonde che abbiamo molta esitazione a pensare che il bilancio d'insieme sia positivo. Se la regola e' vincere la violenza con la violenza e ridurre cosi' il numero delle sue vittime, le eccezioni alla regola – che fanno vedere che la violenza accresce la violenza e aumenta il numero delle sue vittime – sono troppo numerose, troppo ripetute e troppo gravi per non essere altro che eccezioni. Esse vengono a contraddire la regola a tal punto che la aboliscono.
In realta', ci saranno sempre tra noi degli uomini irragionevoli che non si lasceranno convincere dalla forza della ragione e bisognera' bene costringerli con la violenza se, come afferma Eric Weil, non c'e' altra possibilita' di metterli in condizioni di non nuocere. Per questo, nonostante l'estrema scommessa sulla ragione che egli vuol fare per riaffermare che la nonviolenza e' proprio il senso e il fine della storia, la logica della sua filosofia non permette di intravedere una storia che esca dalla logica della violenza. Ha lui stesso accordato troppo credito alla violenza per lasciare sperare che gli uomini arrivino a liberare la storia dalla sua presa. Certo, egli non chiude la storia nella fatalita' della violenza, come fanno gli ideologi della violenza. Egli mantiene fino alla fine della sua riflessione la possibilita' di una storia nonviolenta, poiche' non e' fatale che gli uomini scelgano la violenza. Essi lo fanno liberamente. Del resto, non lo fanno tutti, e Eric Weil pensa che siano sempre meno numerosi quelli che lo fanno. Ma, se e' vero che basta che alcuni tra loro scelgano la violenza per far si' che quanti hanno scelto la ragione si trovino nella necessita' di ricorrere essi stessi alla violenza per neutralizzarli, allora la storia e' bell'e chiusa nella necessita' della violenza. Certo, e' vano accusare gli dei o qualche destino: la colpa e' degli uomini irragionevoli. Ma bisogna porre la questione che Eric Weil non pone: non e' anche colpa degli uomini ragionevoli il non aver saputo inventare altri mezzi diversi dalla violenza per vincere la malvagita' degli uomini irragionevoli?
*
Emmanuel Levinas: la critica etica dello Stato
Emmanuel Levinas si riferisce in particolare all'opera di Eric Weil quando riconosce la necessita' dello Stato (4). Ma rimane piu' vigilante di lui per tentare di scongiurare i pericoli inerenti alla gestione statale della societa'.
La relazione tra gli uomini non si limita al faccia a faccia dell'uno con l'altro. Dal momento che sopravviene un terzo, bisogna organizzare la giustizia e questa ha bisogno di leggi e di istituzioni, cioe' dello Stato. Levinas non disconosce che l'obbligo di rendere giustizia necessita di "una certa violenza" (5). L'uomo violento che minaccia il prossimo "chiama la violenza" (6). Percio', secondo Levinas, "non si puo' dire che non ci sia alcuna violenza legittima" (7). Tuttavia, egli e' sempre consapevole che in ogni violenza ce' una parte irriducibile di ingiustizia.
Le regole e le leggi universali secondo le quali lo Stato giudica i cittadini non possono produrre che una giustizia imperfetta, la quale, in definitiva, non rende giustizia alla persona giudicata: questa persona e' unica, ma non e' riconosciuta come tale. Lo Stato "non scioglie i nodi, ma li taglia" (8) e la giustizia repressiva si mantiene sempre "sul ciglio della ingiustizia possibile" (9). Troppo spesso l'azione dello Stato si ritorce contro il bene che esso ha ritenuto di cercare: "La guerra e l'amministrazione, cioe' la gerarchia mediante le quali si instaura e si mantiene lo Stato, alienano il Medesimo [cioe' il soggetto Io; n. d. tr.] che esse dovevano mantenere nella sua purezza; per sopprimere la violenza bisogna ricorrere alla violenza" (10). Secondo Levinas, "la politica lasciata a se stessa porta in se' una tirannia" (11). Importa dunque che lo Stato non sia consegnato alle "sue proprie necessita'" (12). Per questo, "la politica deve sempre poter essere controllata e criticata a partire dall'etica" (13).
Lo Stato che rifiuta di lasciarsi trascinare dalla propria logica – Levinas lo chiama "lo Stato liberale" - deve essere "sempre inquieto per il proprio ritardo sull'esigenza del volto di Altri" (14). Lo Stato deve avere cattiva coscienza per il fatto che non e' mai abbastanza giusto. Deve sempre avere il rimorso delle proprie durezze. La necessita' di una giustizia resa sotto la copertura delle leggi dello Stato non dispensa l'uomo dalla sua responsabilita' verso l'altro uomo. "Nello Stato in cui le leggi funzionano nella loro generalita', in cui le sentenze sono pronunciate con la preoccupazione dell'universalita', una volta dichiarata la giustizia, c'e' ancora per la persona in quanto unica e responsabile, la possibilita' o l'appello a trovare qualche cosa che revisionera' questo rigore della giustizia sempre rigorosa. Addolcire questa giustizia, ascoltare questo appello personale, e' il compito di ciascuno" (15).
Per Levinas, ogni stabilimento di un ordine sociale fondato sulla gerarchia non puo' produrre che una giustizia imperfetta: "Per me – egli afferma – l'elemento negativo, l'elemento di violenza nello Stato, nella gerarchia, appare anche quando la gerarchia funziona perfettamente, anche quando tutti si inchinano alle idee universali. Ci sono delle crudelta' che sono terribili perche' provengono precisamente dall'Ordine ragionevole. Ci sono delle lacrime che un funzionario non puo' vedere: le lacrime di Altri. (...) Solo il Me puo' accorgersi delle "lacrime segrete" di Altri che il funzionamento anche razionale della gerarchia fa sgorgare. La soggettivita', di conseguenza, e' indispensabile per assicurare quella stessa nonviolenza che lo Stato (...) pure ricerca" (16). Analizzando le condizioni di possibilita' di un ordine politico nel pensiero di Emmanuel Levinas, Vincent Tsongo Luutu scrive: "Mostrando quanto la politica non assicuri sempre, come deve, i nobili obiettivi che si prefigge, e incitandola ad una cattiva coscienza terapeutica, l'etica risveglia, con una specie di azione profetica, l'umano nel seno della politica. (...) L'umano, basamento della filosofia di Levinas, e' questa capacita' di dire no all'inumano che e' proprio della totalita' trionfante" (17).
*
Gandhi ignorato
Cosi', Emmanuel Levinas fa una critica dello Stato che non si ritrova nell'opera di Eric Weil. Tutto sommato, lo Stato di Eric Weil ha buona coscienza. Ma neppure Levinas si domanda se sarebbe possibile opporsi alla violenza che minaccia l'altro con dei metodi diversi da quelli della violenza omicida. Ne' l'uno ne' l'altro fanno alcun riferimento a Gandhi. In definitiva, quando tutto e' stato detto, appare che il torto di Eric Weil e' di avere ignorato Gandhi e di non avere imparato nulla da lui. Qui nasce una domanda che non sembra poter avere risposta: come e' potuto avvenire che Eric Weil non abbia prestato alcuna attenzione al pensiero e all'azione di Gandhi? Come spiegare che, in tutta la sua opera, egli non ci dica una sola parola su Gandhi? Come e' potuto avvenire che il filosofo che ha riflettuto per tutta la sua vita sulla violenza e la nonviolenza non si sia trovato, in un momento o l'altro, in risonanza con colui che, dalla fine degli anni trenta del Novecento, la storia aveva gia' consacrato come "l'apostolo della nonviolenza"? Evidentemente, infatti, Eric Weil non pote' non sentir parlare dell'azione nonviolenta intrapresa da Gandhi per liberare il suo popolo dalla violenza dell'oppressione coloniale britannica. Come dunque pote' avvenire che la testimonianza di Gandhi, di cui Albert Einstein ha detto che era "il piu' grande genio politico della nostra civilta'" (18), non sia stata presa in considerazione da Eric Weil, non abbia mai alimentato la sua riflessione? Certo, Gandhi non era propriamente parlando un filosofo. Ma era piu' che un filosofo, era un saggio e, agli occhi stessi di Eric Weil, la saggezza e' il compimento della filosofia. Era anche un uomo politico, Gandhi, e, come tale, divenne, in un momento decisivo della storia del suo popolo, l'artefice principale della sua liberazione. Eric Weil, per parte sua, seguendo Hegel, non ha mai cessato di riflettere sulla storia, che costituiva in qualche modo il principale oggetto della sua riflessione. Cosi', ha molto riflettuto su Machiavelli, al quale ha voluto render giustizia contro accuse che giudicava fallaci. Perche' dunque non ha riflettuto su Gandhi?
Ci si intenda bene: il nostro intento non e' rimpiangere che Eric Weil non abbia aderito ai princìpi e alle tesi enunciate da Gandhi sulla nonviolenza. Il nostro rincrescimento e' soltanto che egli non le abbia prese in considerazione e non le abbia discusse, che non abbia confrontato i principi e le tesi della propria filosofia col pensiero e l'azione di Gandhi. Senza voler pregiudicare le conclusioni a cui sarebbe pervenuto Eric Weil, ci sembra che un tale confronto sarebbe stato di una grande fecondita'.
Cio' che Gandhi ha provato e' che, contrariamente alle affermazioni di Eric Weil, era possibile rinunciare ad ogni impiego della violenza e restare presenti e agire nella storia della propria comunita'. Molto presto, l'attenzione di numerosi filosofi fu attirata da cio' che aveva di eccezionale l'impresa del leader indiano. Fin dal 1927, Jacques Maritain scrive in Primato dello spirituale: "L'esempio di Gandhi e' quello adatto a farci vergognare" (19). Nel 1933, in uno studio intitolato La purificazione dei mezzi, Maritain esamina lungamente "la testimonianza portata da Gandhi". Certo, egli esprime delle riserve e delle critiche sulla dottrina gandhiana alla quale rimprovera di condannare in linea di principio e in modo assoluto ogni ricorso ai mezzi della violenza. Tuttavia, si domanda se "la tecnica di Gandhi", una volta rettificata e riadattata, "non potrebbe, come lo stesso Gandhi ha spesso dichiarato, essere applicata in Occidente come in Oriente, e rinnovarvi le lotte temporali per la persona umana e per la liberta'" (20).
*
Il campo inesplorato dei metodi nonviolenti
Per parte sua, Emmanuel Mounier si mette all'ascolto di Gandhi fin dal 1933 e presta la piu' grande attenzione ai mezzi d'azione nonviolenti che Gandhi preconizza per liberare il suo popolo. "Non c'e' alcun dubbio per nessuno tra noi – egli scrive – che la violenza e' sempre una impurita' e che un ideale pratico di nonviolenza deve essere il limite a cui dobbiamo cercare incessantemente di avvicinarci". In questa prospettiva, Mounier afferma la sua decisione "di studiare e di sperimentare tutto il campo ancora inesplorato dei metodi nonviolenti, senza mai perdere di vista la loro efficacia e cercando di riguadagnare il tempo perduto per non far poggiare sul vuoto la nostra azione". Certo, Mounier non scarta in modo assoluto la necessita' di usare mezzi violenti, ma vi pone molte condizioni, la prima delle quali e' questa: "Che noi abbiamo prima sperimentato eroicamente, in quanto li avremo maturati e armati di efficacia, tutti i mezzi nonviolenti che sono a nostra disposizione, e che non accetteremo la violenza che come ultimo ripiego" (21).
Nel febbraio 1949, Paul Ricoeur pubblica nella rivista Esprit un articolo intitolato "L'uomo nonviolento e la sua presenza alla storia" (22). Anche lui prende in considerazione l'apporto di Gandhi alla storia: "Per quanto egli sia inimitabile – scrive -, per quanto limitata sia la sua opera, Gandhi rappresenta nel nostro tempo piu' che una speranza, una dimostrazione. (...) Gandhi non e' stato meno terribilmente presente all'India che Lenin alla Russia". Cio' che soprattutto sembra a Ricoeur esemplare nelle campagne d'azione intraprese da Gandhi, e' che esse realizzano la riconciliazione dei fini e dei mezzi. "Il nonviolento dunque – egli afferma – lungi dall'esiliare i fini fuori dalla storia e dal disertare il piano dei mezzi, che abbandonerebbe alla loro impurita', si esercita a congiungere fini e mezzi in una azione che sarebbe intimamente una spiritualita' e una tecnica". Egli riconosce che gli Occidentali ignorano tutto di questa tecnica d'azione e di questo metodo di resistenza e che hanno torto a non studiarli.
E' difficile non pensare che se Eric Weil avesse anche lui prestato attenzione all'opera di Gandhi, sarebbe stato condotto a correggere certe sue espressioni per riconoscere la possibilita' di un'azione nonviolenta nella storia.
*
Note
1. Gilbert Krischer, Figures de la violence et de la modernite'. Essai sur la philosophie d'Eric Weil, Lille, Presses Universitaires de Lille, 1992, p. 123-124.
2. Patrice Canivez, "La revolution, l'Etat, la discussion", in Discours, violence et langage: un socratisme d'Eric Weil, Le Cahier du College international de philosophie, Paris, Editions Osiris, 1990, p. 43.
3. Ibidem, p. 60.
4. Cfr Emmanuel Levinas, Cahier de l'Herne, Paris, Le Livre di Poche, 1993, Biblio-Essais, p. 64.
5. Ibidem, p. 124.
6. Ibidem, p. 123.
7. Ibidem, p. 124. (Cioe', c'e' qualche violenza legittima; n.d.t.).
8. Emmanuel Levinas, Autrement qu'etre, op. cit., p. 264; tr. it. cit.
9. Ibidem.
10. Emmanuel Levinas, Cahier de l'Herne, op. cit., p. 55.
11. Emmanuel Levinas, Totalite' et Infini, op. cit., p. 334-335; tr. it. cit.
12. Emmanuel Levinas, Autrement qu'etre, op. cit., p. 248; tr. it. cit.
13. Emmanuel Levinas, Ethique et Infini, op. cit., p. 75; tr. it. cit.
14. Emmanuel Levinas, Entre nous, op. cit., pp. 238-239.
15. Emmanuel Levinas, in François Poirie', Emmanuel Levinas, op. cit., p. 108.
16. Emmanuel Levinas, Cahier de l'Herne, op. cit., p. 63-64.
17. Vincent Tsongo Luutu, Penser le socio-politique avec Emmanuel Levinas, Lyon, Profac, 1993, p. 131-132.
18. Albert Einstein, Comment je vois le monde, Paris, Flammarion, 1979, coll Champs, p. 52.
19. Jacques Maritain, Primaute' du spirituel, Paris, Plon, 1927, p. 131; tr. it. ediz. Logos, Roma 1980.
20. Jacques Maritain, Du regime temporel de la liberte', Paris, Desclee de Brouwer, 1933, p. 198-201; tr. it. cit.
21. Emmanuel Mounier, "Revolution personnaliste et communautaire", Oeuvres, tome I, 1931-1939, Paris, Le Seuil, 1961, p. 325-326; tr. it. Rivoluzione personalista e comunitaria, Edizioni di Comunita', Milano 1955.
22. Questo articolo e' stato pubblicato nel libro di Paul Ricoeur, Histoire et verite', Paris, Le Seuil, 1955, p. 223-233; tr. it Storia e verita', Marco editore, Lungro di Cosenza 1995.
3. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Letture
- Concetto Marchesi, Perche' sono comunista, Sellerio, Palermo 2021, pp. 112, euro 12.
*
Maestre
- Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Torino, Bollati Boringhieri, 2018, pp. 192, euro 15.
4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
5. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4119 del 29 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
*
Nuova informativa sulla privacy
Alla luce delle nuove normative europee in materia di trattamento di elaborazione dei dati personali e' nostro desiderio informare tutti i lettori del notiziario "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile consultare la nuova informativa sulla privacy: https://www.peacelink.it/peacelink/informativa-privacy-nonviolenza
Per non ricevere piu' il notiziario e' sufficiente recarsi in questa pagina: https://lists.peacelink.it/sympa/signoff/nonviolenza
Per iscriversi al notiziario, invece, l'indirizzo e' https://lists.peacelink.it/sympa/subscribe/nonviolenza
*
L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e' centropacevt at gmail.com
Numero 4119 del 29 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Sommario di questo numero:
1. Ripetiamo ancora una volta...
2. Jean-Marie Muller: Dialogo con Eric Weil
3. Segnalazioni librarie
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'
1. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...
... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.
2. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: DIALOGO CON ERIC WEIL
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo dodicesimo: "Dialogo con Eric Weil" (pp. 225-240). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.serenoregis.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
Decidersi per la nonviolenza
Dopo avere lungamente camminato con Eric Weil facendolo parlare e ascoltandolo attentamente, e' venuto il momento di aprire con lui una discussione per fare apparire i nostri accordi e i nostri disaccordi.
Anzitutto, l'immenso merito di Eric Weil e' l'affermare chiaramente che la violenza contraddice radicalmente l'esigenza di ragione che l'uomo porta in se' e che fonda la sua umanita': per divenire realmente e pienamente un uomo, l'individuo deve liberamente optare per la ragione contro la violenza. Eric Weil non ignora che l'uomo e' un essere di bisogni, di desideri e di passioni e che, come tale, e' un essere violento. Ma, se l'uomo e' capace di comprendersi come un essere violento, e' proprio perche' ha gia' in se stesso l'idea della nonviolenza. La violenza e' una possibilita' dell'uomo e la restera' sempre. Ma l'uomo possiede un'altra possibilita' che corrisponde a un'esigenza costitutiva del suo essere: la nonviolenza.
Per realizzare la sua umanita', l'uomo deve tentare di informare alla ragione i suoi desideri e le sue passioni e di sottometterli alla sua volonta': deve decidersi per la nonviolenza. Questa decisione da' un senso alla sua esistenza, cioe' nello stesso tempo un orientamento e un significato. Cosi', tutta la riflessione filosofica di Eric Weil e' fondata sul concetto di violenza e, dunque, su quello di nonviolenza. Volendo precisare cio' che si trova al centro del pensiero del Nostro, Gilbert Krischer scrive: "Al livello catagoriale, la violenza e' il concetto di cio' che minaccia l'uomo nella sua stessa umanita': la soppressione della relazione umana da uomo a uomo, all'altro uomo e all'uomo che egli e'. Essa e' cio' che lo disumanizza. E' questo "altro dall'uomo" che abita nell'uomo, col quale l'uomo e' in conflitto, e questo conflitto costituisce l'uomo nella sua stessa umanita'. L'uomo trova se stesso nell'esperienza della violenza" (1). La violenza e' l'irrazionalita', la contraddizione, il non-senso perche' e' l'in-umanita'. Per questo l'uomo ragionevole deve decidere di scartare la violenza e optare definitivamente per la nonviolenza, sapendo bene che questa opzione dovra' essere rinnovata ad ogni istante per allontanare la possibilita' sempre presente della violenza.
Cosi' la violenza viene squalificata dalla filosofia di Eric Weil e ogni "evangelo della violenza" viene rifiutato: solo l'esigenza di nonviolenza fonda l'umanita' dell'uomo. La nonviolenza non deve soltanto in-formare il pensiero dell'uomo, essa deve determinare il suo atteggiamento nella vita, il suo comportamento verso gli altri, e il suo impegno nella storia. La nonviolenza sara' dunque una saggezza pratica. Infatti, l'uomo che ha optato per la nonviolenza non e' un essere solitario: egli vive in una comunita' storica in seno alla quale ha una parte, legata alla parte degli altri uomini. Non sarebbe pensabile per lui fuggire l'incontro e la presenza degli altri per essere meglio fedele alla sua opzione nonviolenta. Egli deve essere solidale con la sua comunita': e' nella vita di questa che egli deve far progredire la nonviolenza. Poiche', se questa da' un senso all'esistenza personale dell'uomo ragionevole, essa da' ugualmente un senso alla storia collettiva degli uomini e dei popoli. E' dunque responsabilita' dell'uomo ragionevole agire in modo che la storia stessa divenga sempre piu' nonviolenta.
Nella misura in cui gli altri hanno come lui optato per la ragione, per il discorso e la nonviolenza, gli diventa possibile stabilire con loro un dialogo, entrare in una discussione con loro. Essi formano insieme la comunita' dei "veri uomini". Se sopravviene un disaccordo tra loro, cio' non deve generare violenza, perche' essi si sono dati per regola comune di non ricorrervi. Questo disaccordo deve essere superato con la discussione, e se essi non possono arrivare ad un accordo, devono almeno mettersi d'accordo sul loro disaccordo e cosi' disinnescare ogni conflitto tra loro. La nonviolenza sara' la regola d'oro che prevarra' nei rapporti tra i veri uomini che hanno scelto la ragione contro la violenza.
*
Scegliere tra uccidere e morire
Ma Eric Weil non ignora che l'uomo ragionevole si urtera' inevitabilmente con la violenza degli uomini irragionevoli, sia all'interno che all'esterno della sua comunita'. Quale dovra' essere allora l'atteggiamento dell'uomo che ha optato per la nonviolenza quando si trovera' nella situazione in cui dovra' scegliere tra uccidere e morire? Se non si considera altro che l'esigenza formale della morale pura, non c'e' alcun dubbio per Eric Weil che l'individuo debba scegliere di morire per non essere violento lui stesso. Ma egli critica questa scelta, la contesta e alla fine la rifiuta. La rifiuta come una tentazione alla quale l'uomo morale non deve cedere. Accettare di morire appare a Eric Weil come una soluzione facile. Infatti, in definitiva, la morte permette all'uomo morale di sfuggire a tutte le difficolta' che egli incontra nella vita per essere fedele alla morale. La morte, in qualche modo, viene a semplificargli la vita. E' per questo che Eric Weil sospetta colui che fa la scelta di morire, di dimostrare piu' vilta' che coraggio.
Ma, soprattutto, egli rifiuta questa scelta perche', accettando di morire, l'uomo morale abbandona il mondo alla violenza degli uomini immorali, diserta la storia, mentre e' nella storia che egli deve vincere la violenza e fare progredire la ragione. Cosi' Eric Weil arriva ad affermare che, riguardo all'esigenza della morale concreta e storica, e non piu' della morale formale e astratta, l'uomo morale deve scegliere di uccidere piuttosto che morire per preservare la possibilita' di realizzare la nonviolenza, in lui stesso e nella sua comunita'.
E' qui che noi dobbiamo cominciare ad entrare in discussione con Eric Weil. Prima di tutto, bisogna che l'individuo si trovi in una situazione eccezionale per avere da scegliere, in piena conoscenza di causa, tra morire e uccidere. Il piu' delle volte egli dovra' scegliere tra due rischi, quello di uccidere e quello di morire, e questo e' gia' molto differente. Infatti, a priori, non e' sempre detto che, assumendo il rischio di morire piuttosto che quello di uccidere, le probabilita' di venire ucciso siano realmente piu' grandi.
Poi, abbiamo qualche difficolta' a credere a Eric Weil quando dice che e' facile per l'uomo morale preferire morire che uccidere. Saremmo piuttosto inclini a pensare che la paura di morire, anche nell'uomo morale, resta piu' forte della paura di vivere e che, di conseguenza, lui stesso e' naturalmente piu' tentato di uccidere che di morire. Ma, soprattutto, non pensiamo che chi accetta di morire per fedelta' alla sua scelta per la nonviolenza abbandoni la storia e la consegni alla violenza degli uomini irragionevoli. Colui che muore a causa della violenza dei malvagi, non perche' questa violenza lo abbia ripreso nella sua fuga o lo abbia raggiunto nel suo nascondiglio, ma perche' egli ha deciso di affrontarla a viso aperto per sbarrarle la strada e impedirle di continuare la sua corsa folle nella storia proseguendo la sua opera distruttrice, costui e' piu' di chiunque altro presente alla storia. Non soltanto questi e' e resta nella storia, ma agisce nella storia, fa la storia. Non si tratta per lui di proteggere la propria purezza, ma di proteggere la storia contro l'impurita' della violenza. Rifiutando di farsi lui stesso complice della violenza, egli costruisce contro di essa, con il proprio corpo, un nuovo fronte di resistenza. Al contrario, egli ha coscienza che, se accettasse di ricorrere anche lui alla violenza, aprirebbe un breccia che le consentirebbe il passaggio.
Colui che accetta di morire per non uccidere puo' sperare di contribuire effettivamente ed efficacemente a spegnere la violenza nel mondo. Cio' che e' in gioco, qui, e' in effetti la speranza, in quanto opzione filosofica. In fondo, ci sembra che si debba comprendere il pensiero di Eric Weil sulla necessita' della violenza in termini di disperazione. Chiunque accetta di uccidere per non morire rischia fortemente di contribuire a riaccendere la violenza nel mondo. Cosi', proprio a proposito della storia e secondo il criterio dell'efficacia nella storia, e' ragionevole sperare che sia piu' operante il morire per realizzare oggi la nonviolenza in se stessa, che l'uccidere per conservare la possibilita' di realizzarla domani. Colui che accetta di morire per realizzare la nonviolenza in se stesso, la realizza nello stesso momento anche nella storia. Colui che accetta di morire opponendosi con tutto il proprio essere alla violenza della storia e rifiutando cosi' di essere violento lui stesso, apre una speranza nella storia: egli educa gli uomini alla ragione e alla nonviolenza piu' di colui che accetta di uccidere per vincere la violenza. La violenza dell'uomo ragionevole ha ogni probabilita', in effetti, di servire di pretesto alla violenza dell'uomo irragionevole.
Ci sembra dunque essenziale invertire l'ordine della regola e dell'eccezione stabilito da Eric Weil. Secondo lui, la regola, quando l'uomo morale deve scegliere tra uccidere e morire, e' di uccidere, benche' riconosca che possano esistere delle eccezioni a questa regola. A noi sembra, al contrario, che per l'uomo che ha optato per la nonviolenza, la regola debba essere di prepararsi a morire per non uccidere, benche' possano esistere delle situazioni eccezionali in cui egli non possa fare altrimenti che uccidere per impedire una piu' grande violenza, soprattutto quando questa attacca e rischia di uccidere i suoi prossimi. Detto questo, sarebbe dar prova di temerita' fingere di dimenticare che quello stesso che ha scelto la nonviolenza come regola di condotta puo', in tali circostanze, non avere il coraggio di morire e puo' decidere di uccidere, perche' la paura di essere ucciso sara' stata piu' forte della sua volonta' di non uccidere. Del resto, chi potrebbe in tal caso scagliare su di lui la prima pietra?
Dunque, come regola generale, Eric Weil pensa che i veri uomini devono accettare, per mantenere la coesione della propria comunita' e preservare cosi' la possibilita' per i suoi membri di vivere moralmente, di ricorrere alla violenza per riportare alla ragione gli individui che hanno optato per la violenza. Ma cosi' egli reintroduce la necessita' della violenza nella vita stessa dell'uomo che ha optato per la nonviolenza. Certo, egli ha cura di riaffermare che la nonviolenza resta il fine della storia, la sua causa finale, ma lo fa per giustificare meglio la violenza come mezzo necessario – tecnicamente necessario – per raggiungere questo fine.
*
Il fine giustifica i mezzi?
Quando Eric Weil pone il dualismo tra la violenza dell'uomo irragionevole e quella dell'uomo ragionevole e fonda su di esso il suo ragionamento che afferma la necessita' della contro-violenza per contenere la violenza, egli semplifica esageratamente la realta'. Infatti, nella maggior parte dei conflitti violenti, e' praticamente impossibile stabilire una separazione cosi' chiara e categorica tra i comportamenti dei due avversari. Il piu' delle volte, ognuno dei due puo' invocare legittimamente delle buone ragioni per essere in conflitto con l'altro. Ognuno puo' avere dei motivi fondati per pretendere di dire che non fa altro che difendere il suo diritto contro l'altro. Inoltre, e' notevole il fatto che sia l'uno che l'altro abbiano ricorso alla stessa retorica di legittimazione. I discorsi con cui giustificano la propria violenza, infatti, sono perfettamente simmetrici e accade spesso che siano allo stesso modo parzialmente fondati.
Dunque non e' possibile attenersi allo schema giustificativo secondo il quale gli uomini ragionevoli sarebbero obbligati a ricorrere alla violenza per combattere la violenza dei malfattori, dei cattivi, dei criminali o dei folli. La storia, ieri come oggi, e' piena di conflitti mortali in cui ognuna delle due comunita' opposte puo' far valere, con la stessa sincerita' (ma sincerita' non e' verita'...), che essa non fa altro che difendersi contro un nemico che minaccia il suo diritto all'esistenza.
Per Eric Weil e' evidente che il fine giustifica i mezzi. Se c'e' una contraddizione tra la nonviolenza, considerata come il fine della storia, e la violenza, considerata come mezzo per agire nella storia, l'uomo ragionevole deve assumere questa contraddizione, anche se non deve mai rassegnarvisi ma, al contrario, sforzarsi sempre di superarla. Qui ci sembra che la riflessione di Eric Weil sul rapporto tra il fine e i mezzi costituisca un punto debole del suo pensiero. Egli certo non ignora i pericoli e i rischi inerenti al principio della giustificazione dei mezzi con il fine, ma, secondo noi, la maniera un po' sbrigativa con cui difende e legittima quel principio non offre alcuna possibilita' di premunirsi effettivamente contro quei pericoli e rischi. Se, infatti, e' necessario per lui che il fine sia giusto perche' lo siano anche i mezzi, cio' non e' per niente sufficiente. Il fine non giustifica qualunque genere di mezzi. La storia stessa ci mostra che mezzi cattivi pervertono il fine in nome del quale sono impiegati. Esiste, nella realta' dei fatti, una coerenza, una omogeneita' tra la natura dei mezzi messi all'opera e la natura del fine a cui si arriva. L'esigenza di usare dei mezzi coerenti al fine ricercato non e' soltanto una questione di moralita', ma anche, e indissolubilmente, una questione di efficacia. Eric Weil non ci sembra prestare sufficiente attenzione a questo legame organico tra il fine e i mezzi. Egli non si sofferma abbastanza a mettere in luce l'atto di violenza che giudica necessario per contenere la violenza dell'uomo irragionevole, ne' ad esaminare tutte le sue conseguenze, tanto per chi lo commette quanto per chi lo subisce. Cio' lo dispensa dal constatare che questo atto di violenza e' anch'esso uno scacco della ragione.
*
La violenza puo' essere l'antidoto della violenza?
Eric Weil ragiona costantemente a partire dal postulato secondo il quale l'azione contro la violenza – che si tratti della violenza della delinquenza, dell'ingiustizia, dell'oppressione o dell'aggressione; del resto egli non fa generalmente distinzione tra queste differenti violenze – e' necessariamente violenta, e cio' senza che quel postulato sia veramente discusso. Nel leggerlo, troviamo che egli tiene questo postulato come indiscutibile. Ora, proprio questo postulato ci sembra del tutto discutibile. Vorremmo dunque discuterlo continuando il dialogo con Eric Weil.
Tra i mezzi che possono ricondurre alla ragione l'uomo irragionevole, Eric Weil non vede altro che la persuasione e la violenza. Ma, affinche' la persuasione possa arrivare allo scopo, bisognerebbe che l'individuo che ha scelto la violenza decida liberamente di rinunciarvi, opti per la ragione e accetti la discussione. Questo non e' impossibile, perche' l'uomo violento resta ancora radicalmente capace di ragione, ma non e' la cosa piu' probabile. E, dal momento in cui la persuasione ha fallito nel convincere colui che ha optato per la violenza, Eric Weil afferma che l'uomo ragionevole non ha piu' alcuna altra possibilita' se non scegliere lui stesso la violenza per costringerlo, dato che gli argomenti duri della violenza sarebbero i soli che quello puo' comprendere. Ma quelli che credono che la violenza e' il solo linguaggio che possa essere compreso dai loro avversari e che possa far loro intendere la ragione, necessariamente non imparano e non sanno effettivamente parlare che quel linguaggio. Cosi', si chiudono essi stessi nella fatalita' della violenza.
Eric Weil non lascia alcuno spazio ad una costrizione che non sia violenta, cioe' che faccia valere altri argomenti da quelli della ragione, senza entrare nella logica inumana e disumanizzante della violenza. La nozione di costrizione nonviolenta e' del tutto assente dal campo di riflessione di Eric Weil. Per lui, la nonviolenza non puo' essere messa in atto che nel dialogo e nella discussione, non puo' essere altro che la nonviolenza del discorso. Egli non conosce la nonviolenza dell'azione. Egli ignora tutto dell'azione nonviolenta, che puo' obbligare l'individuo irragionevole ad accettare la discussione esercitando contro di lui una forza che non e' una violenza, cioe' che non viola la sua umanita'.
Secondo Eric Weil, ogni azione nella storia e' necessariamente violenta e colui che rinuncia alla violenza rinuncia all'azione nella storia col pretesto di salvaguardare la purezza della sua volonta'. Bisogna riconoscere che questa tesi non e' fondata. Ci sembra che il suo errore decisivo stia nel non avere posto una distinzione tra forza e violenza. Egli parla sempre della violenza in una maniera generica e ingloba in questo solo termine tutte le forme di costrizione. Percio', egli non lascia alcuno spazio per una forza nonviolenta fondata non soltanto sulla forza della ragione, ma anche sulla forza dell'azione; non lascia alcuno spazio ad una azione nonviolenta che metta in atto una reale forza di costrizione tale che non debba nulla alla logica distruttrice e omicida della violenza.
"Mi sembra abbastanza chiaro – scrive Patrice Canivez – che Weil ha in vista un intervento del filosofo nella storia il cui risultato sarebbe far generare alla storia una versione nonviolenta dell'azione, cioe', in un senso preciso del termine, una versione propriamente politica dell'azione. (...) Questo punto e' evidentemente da mettere in rapporto con l'atteggiamento socratico del filosofo, cioe' col suo rifiuto della violenza attiva" (2). Ma, affermando questo, Patrice Canivez effettua un superamento del pensiero di Eric Weil. Certo, questo superamento e' interno alla logica della sua filosofia e, in questo senso, e' fedele al suo pensiero, ma non e' stato esplicitamente formulato da lui. E' vero che tutta la riflessione filosofica di Eric Weil invoca con tutta la sua speranza una "versione nonviolenta dell'azione", ma lui stesso non ha mai percepito chiaramente la possibilita' di una tale azione. E' per questo che egli ha sempre mantenuto la necessita' dell'azione violenta. Patrice Canivez precisa che Eric Weil ha lui stesso considerato delle situazioni nelle quali l'azione puo' diventare nonviolenta: "Questo e' vero, egli nota, per il governo, poiche' esso agisce mediante la discussione" (3). Ma, in realta', in questo caso, il governo discute piu' che agire e mira soltanto a persuadere degli interlocutori che non hanno scelto la violenza. Ora, l'azione che fa problema, tanto al filosofo quanto all'uomo politico, e' quella che agisce contro la violenza. In definitiva, la ricerca effettiva delle possibilita' dell'azione nonviolenta realizza il compimento della filosofia di Eric Weil, ma lo realizza al di la' della sua propria visione. Per poter affermare quello che scrive Patrice Canivez, bisogna mettersi sulle spalle di Eric Weil, cio' che permette di scoprire un orizzonte che lui non ha scoperto...
*
La violenza non riconosce alcun limite
Certamente, riconoscendo la necessita' della violenza, Eric Weil vorrebbe limitarne l'impiego allo stretto necessario. Ma, in forza della sua propria logica, tutta meccanica, la violenza non riconosce alcun limite. Dal momento in cui le si fa spazio, essa vuole occupare tutto lo spazio. Eric Weil coglie questo pericolo, ma ci sembra che non vi dedichi la riflessione che si dovrebbe dedicargli per circoscriverlo e per tentare di premunirsi contro di esso.
Benche' pensi di dover affermare la necessita' della violenza, Eric Weil vuole credere che l'umanita' arrivera' ad eliminare questa necessita'. Ma una tale attesa rischia fortemente di essere vana, poiche' postula che tutti gli uomini abbiano liberamente deciso di scegliere la ragione contro la violenza. Eric Weil puo' ben esigere che l'uomo ragionevole, quando usa la violenza per vincere la violenza dei malvagi, abbia la ferma intenzione, anzi, di piu', che abbia la volonta' tenace di non farlo se non per creare un mondo in cui non sara' piu' necessario farlo, ma, contrariamente a quanto egli afferma, cio' non e' decisivo. Questo, infatti, non dipende dall'uomo ragionevole. Dipende dagli uomini irragionevoli e dalla loro disposizione a optare per la ragione. Ora, Eric Weil non ignora che da uomini abbandonati alle loro passioni si puo' ben esigere, ma non ci si puo' aspettare che siano ragionevoli.
Affermare che l'azione dell'uomo ragionevole deve mirare anche all'eliminazione della violenza che lotta contro la violenza ingiusta, e', se ci si attiene strettamente al "sistema" di Eric Weil, postulare in realta' una storia liberata dalla violenza ingiusta, il che implica che la storia sia liberata dall'uomo ingiusto. Inoltre, e' postulare una u-topia che non si realizzera' mai da nessuna parte. Bisogna convenire qui che il sistema di Eric Weil si trova prigioniero di una contraddizione irriducibile e che, in definitiva, esso non funziona.
Quando egli tenta di fare un bilancio della storia, e piu' particolarmente il bilancio dell'azione della violenza nella storia, ci sembra dar prova di un ottimismo che non e' confermato dai fatti stessi. Le conclusioni a cui perviene fanno conto su un progresso della nonviolenza nella storia che ci lascia un po' scettici. Come minimo, questo progresso non e' lineare. Ogni avanzata e' pagata cara e nessuna e' definitivamente acquisita. E, soprattutto, le ricadute indietro sono cosi' numerose e profonde che abbiamo molta esitazione a pensare che il bilancio d'insieme sia positivo. Se la regola e' vincere la violenza con la violenza e ridurre cosi' il numero delle sue vittime, le eccezioni alla regola – che fanno vedere che la violenza accresce la violenza e aumenta il numero delle sue vittime – sono troppo numerose, troppo ripetute e troppo gravi per non essere altro che eccezioni. Esse vengono a contraddire la regola a tal punto che la aboliscono.
In realta', ci saranno sempre tra noi degli uomini irragionevoli che non si lasceranno convincere dalla forza della ragione e bisognera' bene costringerli con la violenza se, come afferma Eric Weil, non c'e' altra possibilita' di metterli in condizioni di non nuocere. Per questo, nonostante l'estrema scommessa sulla ragione che egli vuol fare per riaffermare che la nonviolenza e' proprio il senso e il fine della storia, la logica della sua filosofia non permette di intravedere una storia che esca dalla logica della violenza. Ha lui stesso accordato troppo credito alla violenza per lasciare sperare che gli uomini arrivino a liberare la storia dalla sua presa. Certo, egli non chiude la storia nella fatalita' della violenza, come fanno gli ideologi della violenza. Egli mantiene fino alla fine della sua riflessione la possibilita' di una storia nonviolenta, poiche' non e' fatale che gli uomini scelgano la violenza. Essi lo fanno liberamente. Del resto, non lo fanno tutti, e Eric Weil pensa che siano sempre meno numerosi quelli che lo fanno. Ma, se e' vero che basta che alcuni tra loro scelgano la violenza per far si' che quanti hanno scelto la ragione si trovino nella necessita' di ricorrere essi stessi alla violenza per neutralizzarli, allora la storia e' bell'e chiusa nella necessita' della violenza. Certo, e' vano accusare gli dei o qualche destino: la colpa e' degli uomini irragionevoli. Ma bisogna porre la questione che Eric Weil non pone: non e' anche colpa degli uomini ragionevoli il non aver saputo inventare altri mezzi diversi dalla violenza per vincere la malvagita' degli uomini irragionevoli?
*
Emmanuel Levinas: la critica etica dello Stato
Emmanuel Levinas si riferisce in particolare all'opera di Eric Weil quando riconosce la necessita' dello Stato (4). Ma rimane piu' vigilante di lui per tentare di scongiurare i pericoli inerenti alla gestione statale della societa'.
La relazione tra gli uomini non si limita al faccia a faccia dell'uno con l'altro. Dal momento che sopravviene un terzo, bisogna organizzare la giustizia e questa ha bisogno di leggi e di istituzioni, cioe' dello Stato. Levinas non disconosce che l'obbligo di rendere giustizia necessita di "una certa violenza" (5). L'uomo violento che minaccia il prossimo "chiama la violenza" (6). Percio', secondo Levinas, "non si puo' dire che non ci sia alcuna violenza legittima" (7). Tuttavia, egli e' sempre consapevole che in ogni violenza ce' una parte irriducibile di ingiustizia.
Le regole e le leggi universali secondo le quali lo Stato giudica i cittadini non possono produrre che una giustizia imperfetta, la quale, in definitiva, non rende giustizia alla persona giudicata: questa persona e' unica, ma non e' riconosciuta come tale. Lo Stato "non scioglie i nodi, ma li taglia" (8) e la giustizia repressiva si mantiene sempre "sul ciglio della ingiustizia possibile" (9). Troppo spesso l'azione dello Stato si ritorce contro il bene che esso ha ritenuto di cercare: "La guerra e l'amministrazione, cioe' la gerarchia mediante le quali si instaura e si mantiene lo Stato, alienano il Medesimo [cioe' il soggetto Io; n. d. tr.] che esse dovevano mantenere nella sua purezza; per sopprimere la violenza bisogna ricorrere alla violenza" (10). Secondo Levinas, "la politica lasciata a se stessa porta in se' una tirannia" (11). Importa dunque che lo Stato non sia consegnato alle "sue proprie necessita'" (12). Per questo, "la politica deve sempre poter essere controllata e criticata a partire dall'etica" (13).
Lo Stato che rifiuta di lasciarsi trascinare dalla propria logica – Levinas lo chiama "lo Stato liberale" - deve essere "sempre inquieto per il proprio ritardo sull'esigenza del volto di Altri" (14). Lo Stato deve avere cattiva coscienza per il fatto che non e' mai abbastanza giusto. Deve sempre avere il rimorso delle proprie durezze. La necessita' di una giustizia resa sotto la copertura delle leggi dello Stato non dispensa l'uomo dalla sua responsabilita' verso l'altro uomo. "Nello Stato in cui le leggi funzionano nella loro generalita', in cui le sentenze sono pronunciate con la preoccupazione dell'universalita', una volta dichiarata la giustizia, c'e' ancora per la persona in quanto unica e responsabile, la possibilita' o l'appello a trovare qualche cosa che revisionera' questo rigore della giustizia sempre rigorosa. Addolcire questa giustizia, ascoltare questo appello personale, e' il compito di ciascuno" (15).
Per Levinas, ogni stabilimento di un ordine sociale fondato sulla gerarchia non puo' produrre che una giustizia imperfetta: "Per me – egli afferma – l'elemento negativo, l'elemento di violenza nello Stato, nella gerarchia, appare anche quando la gerarchia funziona perfettamente, anche quando tutti si inchinano alle idee universali. Ci sono delle crudelta' che sono terribili perche' provengono precisamente dall'Ordine ragionevole. Ci sono delle lacrime che un funzionario non puo' vedere: le lacrime di Altri. (...) Solo il Me puo' accorgersi delle "lacrime segrete" di Altri che il funzionamento anche razionale della gerarchia fa sgorgare. La soggettivita', di conseguenza, e' indispensabile per assicurare quella stessa nonviolenza che lo Stato (...) pure ricerca" (16). Analizzando le condizioni di possibilita' di un ordine politico nel pensiero di Emmanuel Levinas, Vincent Tsongo Luutu scrive: "Mostrando quanto la politica non assicuri sempre, come deve, i nobili obiettivi che si prefigge, e incitandola ad una cattiva coscienza terapeutica, l'etica risveglia, con una specie di azione profetica, l'umano nel seno della politica. (...) L'umano, basamento della filosofia di Levinas, e' questa capacita' di dire no all'inumano che e' proprio della totalita' trionfante" (17).
*
Gandhi ignorato
Cosi', Emmanuel Levinas fa una critica dello Stato che non si ritrova nell'opera di Eric Weil. Tutto sommato, lo Stato di Eric Weil ha buona coscienza. Ma neppure Levinas si domanda se sarebbe possibile opporsi alla violenza che minaccia l'altro con dei metodi diversi da quelli della violenza omicida. Ne' l'uno ne' l'altro fanno alcun riferimento a Gandhi. In definitiva, quando tutto e' stato detto, appare che il torto di Eric Weil e' di avere ignorato Gandhi e di non avere imparato nulla da lui. Qui nasce una domanda che non sembra poter avere risposta: come e' potuto avvenire che Eric Weil non abbia prestato alcuna attenzione al pensiero e all'azione di Gandhi? Come spiegare che, in tutta la sua opera, egli non ci dica una sola parola su Gandhi? Come e' potuto avvenire che il filosofo che ha riflettuto per tutta la sua vita sulla violenza e la nonviolenza non si sia trovato, in un momento o l'altro, in risonanza con colui che, dalla fine degli anni trenta del Novecento, la storia aveva gia' consacrato come "l'apostolo della nonviolenza"? Evidentemente, infatti, Eric Weil non pote' non sentir parlare dell'azione nonviolenta intrapresa da Gandhi per liberare il suo popolo dalla violenza dell'oppressione coloniale britannica. Come dunque pote' avvenire che la testimonianza di Gandhi, di cui Albert Einstein ha detto che era "il piu' grande genio politico della nostra civilta'" (18), non sia stata presa in considerazione da Eric Weil, non abbia mai alimentato la sua riflessione? Certo, Gandhi non era propriamente parlando un filosofo. Ma era piu' che un filosofo, era un saggio e, agli occhi stessi di Eric Weil, la saggezza e' il compimento della filosofia. Era anche un uomo politico, Gandhi, e, come tale, divenne, in un momento decisivo della storia del suo popolo, l'artefice principale della sua liberazione. Eric Weil, per parte sua, seguendo Hegel, non ha mai cessato di riflettere sulla storia, che costituiva in qualche modo il principale oggetto della sua riflessione. Cosi', ha molto riflettuto su Machiavelli, al quale ha voluto render giustizia contro accuse che giudicava fallaci. Perche' dunque non ha riflettuto su Gandhi?
Ci si intenda bene: il nostro intento non e' rimpiangere che Eric Weil non abbia aderito ai princìpi e alle tesi enunciate da Gandhi sulla nonviolenza. Il nostro rincrescimento e' soltanto che egli non le abbia prese in considerazione e non le abbia discusse, che non abbia confrontato i principi e le tesi della propria filosofia col pensiero e l'azione di Gandhi. Senza voler pregiudicare le conclusioni a cui sarebbe pervenuto Eric Weil, ci sembra che un tale confronto sarebbe stato di una grande fecondita'.
Cio' che Gandhi ha provato e' che, contrariamente alle affermazioni di Eric Weil, era possibile rinunciare ad ogni impiego della violenza e restare presenti e agire nella storia della propria comunita'. Molto presto, l'attenzione di numerosi filosofi fu attirata da cio' che aveva di eccezionale l'impresa del leader indiano. Fin dal 1927, Jacques Maritain scrive in Primato dello spirituale: "L'esempio di Gandhi e' quello adatto a farci vergognare" (19). Nel 1933, in uno studio intitolato La purificazione dei mezzi, Maritain esamina lungamente "la testimonianza portata da Gandhi". Certo, egli esprime delle riserve e delle critiche sulla dottrina gandhiana alla quale rimprovera di condannare in linea di principio e in modo assoluto ogni ricorso ai mezzi della violenza. Tuttavia, si domanda se "la tecnica di Gandhi", una volta rettificata e riadattata, "non potrebbe, come lo stesso Gandhi ha spesso dichiarato, essere applicata in Occidente come in Oriente, e rinnovarvi le lotte temporali per la persona umana e per la liberta'" (20).
*
Il campo inesplorato dei metodi nonviolenti
Per parte sua, Emmanuel Mounier si mette all'ascolto di Gandhi fin dal 1933 e presta la piu' grande attenzione ai mezzi d'azione nonviolenti che Gandhi preconizza per liberare il suo popolo. "Non c'e' alcun dubbio per nessuno tra noi – egli scrive – che la violenza e' sempre una impurita' e che un ideale pratico di nonviolenza deve essere il limite a cui dobbiamo cercare incessantemente di avvicinarci". In questa prospettiva, Mounier afferma la sua decisione "di studiare e di sperimentare tutto il campo ancora inesplorato dei metodi nonviolenti, senza mai perdere di vista la loro efficacia e cercando di riguadagnare il tempo perduto per non far poggiare sul vuoto la nostra azione". Certo, Mounier non scarta in modo assoluto la necessita' di usare mezzi violenti, ma vi pone molte condizioni, la prima delle quali e' questa: "Che noi abbiamo prima sperimentato eroicamente, in quanto li avremo maturati e armati di efficacia, tutti i mezzi nonviolenti che sono a nostra disposizione, e che non accetteremo la violenza che come ultimo ripiego" (21).
Nel febbraio 1949, Paul Ricoeur pubblica nella rivista Esprit un articolo intitolato "L'uomo nonviolento e la sua presenza alla storia" (22). Anche lui prende in considerazione l'apporto di Gandhi alla storia: "Per quanto egli sia inimitabile – scrive -, per quanto limitata sia la sua opera, Gandhi rappresenta nel nostro tempo piu' che una speranza, una dimostrazione. (...) Gandhi non e' stato meno terribilmente presente all'India che Lenin alla Russia". Cio' che soprattutto sembra a Ricoeur esemplare nelle campagne d'azione intraprese da Gandhi, e' che esse realizzano la riconciliazione dei fini e dei mezzi. "Il nonviolento dunque – egli afferma – lungi dall'esiliare i fini fuori dalla storia e dal disertare il piano dei mezzi, che abbandonerebbe alla loro impurita', si esercita a congiungere fini e mezzi in una azione che sarebbe intimamente una spiritualita' e una tecnica". Egli riconosce che gli Occidentali ignorano tutto di questa tecnica d'azione e di questo metodo di resistenza e che hanno torto a non studiarli.
E' difficile non pensare che se Eric Weil avesse anche lui prestato attenzione all'opera di Gandhi, sarebbe stato condotto a correggere certe sue espressioni per riconoscere la possibilita' di un'azione nonviolenta nella storia.
*
Note
1. Gilbert Krischer, Figures de la violence et de la modernite'. Essai sur la philosophie d'Eric Weil, Lille, Presses Universitaires de Lille, 1992, p. 123-124.
2. Patrice Canivez, "La revolution, l'Etat, la discussion", in Discours, violence et langage: un socratisme d'Eric Weil, Le Cahier du College international de philosophie, Paris, Editions Osiris, 1990, p. 43.
3. Ibidem, p. 60.
4. Cfr Emmanuel Levinas, Cahier de l'Herne, Paris, Le Livre di Poche, 1993, Biblio-Essais, p. 64.
5. Ibidem, p. 124.
6. Ibidem, p. 123.
7. Ibidem, p. 124. (Cioe', c'e' qualche violenza legittima; n.d.t.).
8. Emmanuel Levinas, Autrement qu'etre, op. cit., p. 264; tr. it. cit.
9. Ibidem.
10. Emmanuel Levinas, Cahier de l'Herne, op. cit., p. 55.
11. Emmanuel Levinas, Totalite' et Infini, op. cit., p. 334-335; tr. it. cit.
12. Emmanuel Levinas, Autrement qu'etre, op. cit., p. 248; tr. it. cit.
13. Emmanuel Levinas, Ethique et Infini, op. cit., p. 75; tr. it. cit.
14. Emmanuel Levinas, Entre nous, op. cit., pp. 238-239.
15. Emmanuel Levinas, in François Poirie', Emmanuel Levinas, op. cit., p. 108.
16. Emmanuel Levinas, Cahier de l'Herne, op. cit., p. 63-64.
17. Vincent Tsongo Luutu, Penser le socio-politique avec Emmanuel Levinas, Lyon, Profac, 1993, p. 131-132.
18. Albert Einstein, Comment je vois le monde, Paris, Flammarion, 1979, coll Champs, p. 52.
19. Jacques Maritain, Primaute' du spirituel, Paris, Plon, 1927, p. 131; tr. it. ediz. Logos, Roma 1980.
20. Jacques Maritain, Du regime temporel de la liberte', Paris, Desclee de Brouwer, 1933, p. 198-201; tr. it. cit.
21. Emmanuel Mounier, "Revolution personnaliste et communautaire", Oeuvres, tome I, 1931-1939, Paris, Le Seuil, 1961, p. 325-326; tr. it. Rivoluzione personalista e comunitaria, Edizioni di Comunita', Milano 1955.
22. Questo articolo e' stato pubblicato nel libro di Paul Ricoeur, Histoire et verite', Paris, Le Seuil, 1955, p. 223-233; tr. it Storia e verita', Marco editore, Lungro di Cosenza 1995.
3. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Letture
- Concetto Marchesi, Perche' sono comunista, Sellerio, Palermo 2021, pp. 112, euro 12.
*
Maestre
- Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Torino, Bollati Boringhieri, 2018, pp. 192, euro 15.
4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
5. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4119 del 29 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
*
Nuova informativa sulla privacy
Alla luce delle nuove normative europee in materia di trattamento di elaborazione dei dati personali e' nostro desiderio informare tutti i lettori del notiziario "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile consultare la nuova informativa sulla privacy: https://www.peacelink.it/peacelink/informativa-privacy-nonviolenza
Per non ricevere piu' il notiziario e' sufficiente recarsi in questa pagina: https://lists.peacelink.it/sympa/signoff/nonviolenza
Per iscriversi al notiziario, invece, l'indirizzo e' https://lists.peacelink.it/sympa/subscribe/nonviolenza
*
L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e' centropacevt at gmail.com
- Prev by Date: [Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 95
- Next by Date: [Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 96
- Previous by thread: [Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 95
- Next by thread: [Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 96
- Indice: