[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 46



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 46 del 9 aprile 2021
 
In questo numero:
1. Laura Boella: Hannah Arendt. Ripensare la condizione umana
2. Lucetta Scaraffia: Asimmetrici e filosofici amori
 
1. MAESTRE. LAURA BOELLA: HANNAH ARENDT. RIPENSARE LA CONDIZIONE UMANA
[Dal sito http://romatrepress.uniroma3.it riprendiamo il seguente testo apparso su "Il tema di Babel" col titolo "Hannah Arendt a contrappelo. Ripensare la condizione umana"]
 
Ripensare la condizione umana (1)
Come ci ha insegnato Ernst Bloch, nessuna eredita' e' mai fino in fondo liquidata, riscattata. Rimane sempre una parte del lascito che forse non e' stata oggetto di testamento oppure e' stata rapinata, acquisita senza titolo. Si eredita in fondo non il passato imbalsamato, ma sempre il presente con la sua porzione di passato che non passa e di apertura su un futuro ignoto e incerto, si eredita il presente in quella forma aspra e difficile che un debito non stipulato, che non si potra' mai ripagare e che ci pone costantemente di fronte a noi stessi, a cio' che nel presente pensiamo e facciamo.
Questo e' l'unico modo in cui si puo' parlare di eredita' di Hannah Arendt. In fondo, alcuni dei debiti che sentiamo di avere nei suoi confronti la troverebbero probabilmente non estranea, ma ironicamente sorpresa, perche' legati a qualcosa che giace molto nell'ombra del suo pensiero. Tipico e' l'esempio del debito che il pensiero femminile dichiara di avere verso una pensatrice programmaticamente antifemminista oppure degli spunti di biopolitica che alcuni studiosi hanno riscontrato nella lettura arendtiana del progetto totalitario. In realta', la sua opera e' un work in progress, non ha alcun aspetto di compiutezza e sistematicita', semmai procede per linee di scorrimento ed e' rimasta sostanzialmente aperta: scritti molto noti come Le origini del totalitarismo o Vita activa affiorano come punte di un iceberg da un materiale a piu' strati in evoluzione, che subisce progressivi spostamenti e sommovimenti. Questo materiale, che sta venendo alla luce nei suoi strati piu' sotterranei – i numerosi epistolari, il Denktagebuch, l'inizio di una ricostruzione critica della tessitura-montaggio di citazioni e di letture che costituisce l'architettura nascosta dei suoi scritti – fa dell'eredita' di Hannah Arendt qualcosa che non si puo' gestire in maniera convenzionale e tanto meno frettolosa.
Un pensiero come il suo, destato dall'urto con le catastrofi storico-politiche del '900, non ci mette innanzitutto di fronte a un presente, un ritmo, una velocita' e molti imprevisti che ci separano dalle domande e dai problemi che lei stessa ha costruito? Forse sono i temi o lo stile del pensiero arendtiano che resistono a essere liquidati, tradotti e trasmessi in altre mani, come si fa appunto con le eredita'? Ma che cosa significa propriamente questa resistenza? Una lontananza oppure il richiamo a un uso non strumentale di un pensiero che molti si sentono in dovere di celebrare?
Il primo momento di fedelta' a Hannah Arendt puo' essere proprio fare i conti con l'imprevisto, con l'inevitabile novita' apportata da un tempo che non e' piu' il suo. Riprendiamo allora dal cuore della sua opera, ma anche dal suo programma tanto esplicito da essere affidato ai titoli degli scritti piu' famosi, la domanda che sta dietro la sua ostinata volonta' di comprendere. Il pensiero arendtiano nel suo complesso ripropone infatti la questione dell'umano in tempi di distruzione di innumerevoli esseri umani e di catastrofe dell'eredita' culturale e filosofica europea fondata sul valore o sul postulato dell'umanita'. "Umanizzare l'inumano": questo e' il significato della politica per Hannah Arendt, della sua fede nella capacita' umana di iniziare, della sua utopia luxemburghiana e consiliare della comunita' politica (innanzitutto antifascista) in cui l'azione e' direttamente liberta', innovazione. Sta a noi aprire questo programma di vita e di pensiero, le cui risonanze rinviano onde tematiche che sembrano incessanti variazioni su questioni ancora sempre da pensare. Sta a noi tradurre e modulare la straordinaria forza ricostruttiva dell'opera arendtiana, disfacendo alcune delle sue tesi e reimpostandole in ordine alla configurazione che oggi noi diamo delle lacerazioni e tensioni del presente.
Hannah Arendt e' l'autrice di un libro intitolato The Human Condition (1958): nell'edizione tedesca questa espressione sara' preceduta da Vita activa. La lettera sull'umanismo (1949) di Heidegger fu per lei sicuramente un testo di riferimento, anche se la cito' raramente, ma, quando lo fece, per esempio in una lettera a Jaspers, ne parlo' come della "cosa migliore che Heidegger abbia scritto da un po' di tempo a questa parte". Il tema dell'humanitas, nella sua accezione antica e illuministica – tra Cicerone e Lessing – appare in scritti centrali: La crisi della cultura (1960) e L'umanita' in tempi bui (1960). I toni che lo accompagnano – la pluralita' di inizi della storia legata alla natalita', l'amicizia politica, la cultura animi, nonche' le ultime indicazioni sulla moralita' del pensiero fondata su una coerenza con se stessi che ha i suoi modelli in Socrate e in Kant – sembrano proiettare il pensiero arendtiano in un orizzonte umanistico classico.
Occorre notare subito che il lessico arendtiano della "condizione umana" ricorda un momento specifico della filosofia dell'esistenza in particolare francese. E' difficile capire per quali vie – ironia crudele nella quale si esercitava con maestria la coppia Arendt-Bluecher? – il titolo del libro del 1958 replichi quello del controverso, ma in ogni caso famoso romanzo dell'ex-rivoluzionario romantico e ex-trotzkista Andre' Malraux, La condition humaine (1933). Resta il fatto che nella Francia dell'immediato dopoguerra la questione dell'umano era stata ripresa a partire da un'aspra interrogazione sulla violenza nella storia, sulla tragedia politica scaturita dalla sostituzione delle antiche ontologie e metafisiche con il progetto rivoluzionario di una societa' in cui si sarebbe plasmato "l'uomo nuovo". Basta pensare a Umanesimo e terrore (1947) di Merleau-Ponty. Nella Lettera sull'umanismo, Heidegger a sua volta discuteva le tesi espresse da Sartre in L'esistenzialismo e' un umanismo e segnalava la dismisura tra il destino epocale della tecnica e l'immagine filosofica tradizionale dell'uomo.
Con questo dibattito (che coinvolgeva anche il personalismo cattolico) Hannah Arendt si confronto' collocandosi gia' altrove, non solo perche' lo vedeva da New York, ma anche perche' all'inizio degli anni '50 aveva gia' chiaro in mente che la sfera della prassi e della politica non poteva funzionare come ancora di salvezza dai problemi insoluti della filosofia. Occorreva invece ripensare integralmente l'ontologia e la metafisica alla luce dello scenario storico-politico devastato da entrambi i totalitarismi, quello nazista e quello stalinista.
Anche se "gli otto anni abbastanza felici passati in Francia" (1933-1941) costituiscono uno dei periodi meno documentati e meno studiati del percorso arendtiano, non e' certo solo questione di ricostruire la prima fase dell'esilio che la porto' negli Stati Uniti. Furono anni sicuramente decisivi in cui Hannah Arendt fu in contatto, forse indirettamente, ma certo attraverso importanti mediazioni, prima fra tutte quella di Walter Benjamin, con i seminari di Kojeve, il College de Sociologie di Bataille e il College de Philosophie di Jean Wahl. E' noto che qui germineranno le letture di Husserl e di Heidegger proposte da Levinas, da Merleau-Ponty e da Sartre nell'immediato dopoguerra e che nutriranno il pensiero di Derrida, Deleuze, Lyotard.
"Vista da New York" la nuova stagione della filosofia francese poteva apparire all'esiliata che stava ripartendo da zero un episodio intellettuale le cui promesse e contraddizioni erano ancora gravate dal marchio della tradizione. Non le sfuggiva tuttavia la posta in gioco. Le due matrici del pensiero arendtiano: la formazione esistenzialistica e heideggeriana e l'esperienza dell'ebraismo convergono infatti in un punto di tensione, mai di conciliazione. Hannah Arendt trae le piu' amare e demolitrici conclusioni dalla catastrofe della tradizione occidentale culminata nel totalitarismo e insieme pensa che la partita dell'umanita' degli esseri umani non sia definitivamente perduta.
L'intera opera arendtiana e' percorsa da una doppia vibrazione che non si saprebbe esprimere se non come un difficile umanesimo e universalismo al cospetto delle rovine della storia. Qualcuno potrebbe obiettare che con questa formula si confeziona elegantemente il pensiero di Hannah Arendt in prodotto da esporre negli scaffali dei dipartimenti di filosofia (magari tra Heidegger e Benjamin). Eppure bisogna stare nella distanza e ammettere che questo e' il centro della sua eredita' e dei problemi che puo' suscitare: utopia impossibile di una politica dell'essere-insieme, "malinconia protettiva" che si difende da una visione tragica della storia con l'idea di una pluralita' di inizi, di un infinito rinnovarsi del miracolo della nascita? Ci si puo' infatti chiedere perche' le letture piu' aggiornate del pensiero arendtiano tornino quasi sempre alle tesi sul totalitarismo e lascino a una lettura canonica e a volte elusiva La condizione umana. Arendt avrebbe espresso il suo pensiero piu' radicale e soprattutto capace di anticipare le nuove forme della politica nel mondo transnazionale dei migranti, delle "non persone" e delle vittime inermi di guerre supertecnologiche e attentati terroristici, quando ha interpretato il progetto totalitario come finalizzato alla riduzione di gran parte dell'umanita' a "esseri superflui", a corpi sofferenti, sospesi tra la vita e la morte. In questa cornice, La condizione umana sarebbe il libro della "sopravvivenza", in cui dai "buchi d'oblio" e dalle tenebre dei campi sembra uscire l'utopia della luce della vita pubblica.
Se e' vero che la sopravvivenza, come ha notato anche Julia Kristeva, e' la cifra che va al cuore dell'opera arendtiana, occorre aggiungere che essa va dritta al suo cuore pensante e al suo cuore di tenebra. Non si tratta di una sopravvivenza intesa in senso letterale, sebbene il coraggio, la vitalita' e la determinazione di Hannah Arendt nel tormentato percorso dell'esilio siano noti a tutti. Si tratta piuttosto del movimento alla base della sua teoria politica, dell'idea che la dignita' della condizione umana si giochi quando ne va di qualcosa di piu' della vita, ne va dell'amore del mondo, della preservazione dello spazio dell'essere-insieme. Ancora una volta, e' una doppia vibrazione quella che percorre il pensiero arendtiano e metterne in ombra un aspetto significa costringerla in stereotipi, per quanto celebrati, come quelli dell'ontologia della Shoah, della nostalgia della polis, dell'esistenzialista conservatrice o della radical leftist.
In un non dimenticato saggio del 1988, Le survivant, Jean-François Lyotard disegna un ritratto critico di Hannah Arendt proprio alla luce dell'idea di sopravvivenza. Per Lyotard sopravvivere e' qualcosa di ambiguo, non si sa se si sopravvive alla vita o alla morte e se cio' a cui si sopravvive vada perduto oppure resti. Ambigua condizione di chi vive un "dopo", essa rappresenta il polo di una dialettica negativa in cui l'inumano rimbalza, ammonisce, insegue costantemente l'umano come suo rovescio e resto inestricabile. La sopravvivenza per Lyotard ci pone di fronte all'enigma del presente, alla relazione di cio' che e', che accade con il non essere. Proprio in questo luogo, nella lacuna del presente, sospeso tra non piu' e non ancora, noi sappiamo che si e' posta Hannah Arendt, tenacemente ostile a ogni escatologia o teleologia storica. In questo luogo stanno la nascita e il potere innovatore dell'azione, la pluralita' di inizi della storia e la singolarita' non condivisibile di ogni essere che agisce, ma da quel punto parte anche la ricerca del significato, in cui memoria, pensiero e immaginazione concorrono a rendere duraturi i fragili atti della liberta' umana. Difficile condividere la tesi di Lyotard che al fondo della sopravvivenza ci sia un umanesimo consolatorio e protettivo. Piuttosto, c'e' il cuore di tenebra dell'opera arendtiana, il suo aspro e discusso regime di distinzioni tra privato e pubblico, economia-societa'-politica, etica e politica e i suoi ambigui silenzi sul contesto prepolitico della politica (classe, razza, inconscio, differenza sessuale, comunita', gruppi, associazioni, morale, trascendenza religiosa).
Occorre dunque guardare frontalmente l'impresa arendtiana, senza arbitrarie cesure, cercando di tenere insieme i fili della sua grandezza e originalita' e dei problemi che ha lasciato aperti e che, in un tempo tanto diverso dal suo, si pongono a noi.
Torniamo dunque a interrogare il modo in cui Hannah Arendt rimette in gioco la questione dell'umano dal suo punto zero, portandola fuori dalle tenebre dei campi e soprattutto dal possibile compimento del progetto totalitario di sostituzione di un mondo non piu' umano a quello umano. Da questo punto di vista, Le origini del totalitarismo e La condizione umana non sono semplicemente due facce della stessa medaglia – la "nuda vita" come riduzione all'essenza della tradizione politica occidentale e la proposta di una nuova ontologia politica – ma tra di essi c'e' il progredire di un pensiero che cerca il punto in cui possa avvenire un'interruzione etico-politica dei processi naturali, sociali e ideologici che hanno dato il ritmo alla catastrofe totalitaria.
Dove va a cercare questa interruzione chi pensa nel segno della "sopravvivenza"? Non certo nell'umano come residuo preservato o verita' a venire, bensi' nel punto zero o nel "niente" che e' il luogo atroce in cui la vita dei singoli viene trafitta dagli avvenimenti storici, in cui essi vengono ridotti a fragili corpi sofferenti oppure schiacciati sulla razza, sul dato biologico-culturale, sulla "nascita infame"(Rahel). E' questo il punto crudele dell'anonimato, con cui la pensatrice, celebre per la sua esaltazione dell'apparizione di ognuno come essere unico sulla scena del mondo, risponde alla domanda "chi sei?": "sono un'ebrea" (cfr. L'umanita' in tempi bui, 1960). Siamo nel contesto della persecuzione, Arendt parla, come raramente fece, in prima persona e dice che questo tipo di individuazione, in quel contesto, se voleva essere politica, doveva essere un anonimato. Unica possibilita' di rimanere debitori nei confronti del mondo, ancorati alla realta' per gli espulsi, gli imprevisti. Accettare una nominazione anonima, quella dell'appartenenza di razza, quindi della massima esposizione agli eventi di un'epoca distruttiva, diventa l'unico modo per esistere, per essere vivi, presenti. Nessuna solidarieta' di gruppo, nessuna comunita' compassionevole, nessuna viva umanita' dei sentimenti di aiuto reciproco ha la forza di interruzione etico-politica di quell'anonimato.
Nel quadro di un accadere come interruzione, evento, si colloca infatti la ricerca dei passaggi che consentono agli individui esposti a forze ingovernabili di recuperare una misura di liberta' e di significato sulla scena del mondo. Qui sta il nucleo piu' attuale e a noi affidato del pensiero arendtiano.
Sappiamo che sullo sfondo della ricostruzione del progetto totalitario in termini di trasformazione della natura umana e di riduzione di interi gruppi e popolazioni a "esseri superflui", l'idea di umanita' compare in un contesto rovesciato rispetto all'epoca dei Lumi: nel vuoto che ci separa da essa, nelle tenebre dei tempi bui. Allo stesso modo, il mito del progresso si disintegra nelle macerie prodotte da un mito ancora piu' fatale, quello della Storia e del processo. Dal punto di vista dell'esito totalitario, la questione del rapporto con l'eredita' umanistica europea, con l'Illuminismo, con la rivoluzione francese e i suoi ideali e con il marxismo, poteva restare semplicemente in un cono d'ombra. Al contrario, Hannah Arendt continuera' a porsi e a riporsi la questione dell'eredita' umanistica: il completamento dello studio sul totalitarismo avrebbe dovuto riguardare le fonti della sua versione stalinista. Per quanto in maniera frammentaria, stigmatizzo' pertanto con molta chiarezza il modo in cui gli ideali di egalite'-liberte'-fraternite' vennero integrati nella prassi rivoluzionaria nella qualita' di mezzi per realizzare un fine (spesso contrastante). Affondarono cosi' nella corrente impetuosa del processo storico, perdendo il radicamento in un'altra prassi, quella dell'individuo che non "realizza" la liberta' o la giustizia, ma e' liberta' vivente e operante che si sente obbligato verso un mondo giusto, libero, a venire, mai garantito. Hannah Arendt tornava in questo modo a un'altra linea dell'Illuminismo, quella di Lessing e di Kant, il Kant di Che cos'e' l'Illuminismo? e della Critica del giudizio, anticipando la feconda ambivalenza di Foucault, ma soprattutto di Derrida e di Lyotard nei confronti del pensiero kantiano e dell'Illuminismo critico.
Per veder affiorare questa linea del tutto originale, d'altra parte, non bisognava aspettare le ultime riflessioni sulla filosofia politica di Kant, ma bastava leggere con attenzione scritti considerati a torto "letterari", dal libro dedicato a Rahel Varnhagen (1930-1938) ai saggi raccolti in Men in dark Times (1968). In queste prove molto ardite di scrittura biografica-autobiografica, e' all'opera l'idea che non esiste ne' la Storia, ne' l'Uomo, ma solo storie potenzialmente infinite di esseri unici. Sappiamo quanto Hannah Arendt fu interessata all'anonimato dei protagonisti dei racconti e romanzi di Kafka. Il "niente" di esseri umani invisibili al loro tempo puo' essere la fragilita' e contingenza, spesso non solo fisica, ma anche morale, di coloro che esistono solo in virtu' della loro esposizione all'evento (cfr. lettera a Jaspers del 1930). C'e' dunque qualcosa all'incrocio delle forze storico-naturali, dei processi burocratici e ideologici e delle teorie della razza: il residuo, il resto, il niente di umanita' che e' dato a determinati esseri. Quel resto, che spesso e' meno di niente, interrompe e quindi resiste solo per il fatto di esistere: e' passivita', ma anche attivita', ovviamente a partire da zero, ma solo che venga vista come un arresto delle logiche che la portano a rilevare unicamente sotto il profilo della vita offesa e umiliata e magari della compassione corrispondente o magari ancora della rivolta in nome di un sovvertimento futuro. E' attivita' se viene inserita in un altro ordine di significati, nel linguaggio arendtiano, da fatto privato diventa pubblico, politico: e' questo tipo di esistenza, di un singolo unico esposto all'accadere, che in Hannah Arendt fa nascere l'idea del coraggio di agire, dell'urgenza di capire, del parlare quando gli altri tacciono, dell'affrontare il rischio della vita pubblica.
Bisogna sempre ricordare che il pensiero politico arendtiano nasce nel libro sul totalitarismo con l'intuizione che la creazione di una massa di apolidi, di displaced persons, private di diritti civili e umani rappresenta il "fenomeno politico" del XX secolo. Molto c'e' da riflettere, nel mondo dei migranti e dei sans papiers, sulla scoperta di questi inediti soggetti politici (contro ogni consuetudine delle scienze sociali di ieri e di oggi), il cui profilo politico, disegnato solo in negativo, per deficit, inclassificabilita' e invisibilita', interrompe i saperi e le pratiche per il solo fatto di stare di fronte al singolare e all’inclassificabile. La semplice percezione degli innumerevoli "niente" in cui si incarna l'umano e' politica perche' fa di una linea di tendenza (sociologica, economica) una crisi, un salto, un passaggio di qualita'. Le dure polemiche arendtiane sull'appartenenza al popolo ebraico, il rifiuto di leggere il mutamento storico nella prospettiva di una filosofia della storia o di valori universali come la giustizia o l'uguaglianza trovano una ragione nel suo assunto radicale: l'umano si disegna solo nell'esposizione totale all'alterita', che si profila come vita nuda e indifesa, vita infame senza linguaggio e senza appartenenza a codici, vita espulsa o relegata in un'invisibilita' e immobilita' sociale e culturale. Il fatto che i suoi esempi siano attinti dalla vicenda dell'ebraismo o da una generazione di intellettuali, filosofi, poeti e scrittori illusi e delusi, con le loro abiure, tradimenti, mondi di sogno e incapacita' di fare i conti con la realta', non rende certo meno incisiva questa posizione. La pietas e la delicatezza che nutrono spesso l'amicizia di Hannah Arendt verso gli uomini e le donne di cui racconta la storia non gettano nessun velo consolatorio sui loro tragici destini. L'umano deve essere catturato nel suo opposto, l'inumano, qualunque faccia esso ci mostri, quella del totalitarismo cosi' come quella del "cielo" di Brecht o della "malasorte" che perseguitava Walter Benjamin.
La condizione umana e l'aspro regime di distinzioni che fonda la proposta di riattivazione dell'azione politica contro il predominio della prassi tecnico-strumentale nella modernita' devono ancora essere letti alla luce della domanda che risuona nella affermazione che "[...] il mondo non e' umano perche' e' fatto da esseri umani, e non diventa umano solo perche' la voce umana risuona in esso, ma solo quando e' diventato oggetto di discorso" (2). Una formulazione folgorante, ma anche molto laconica e soprattutto molto piu' radicale di quanto sembri: essa dice infatti il "mondo comune rimane "inumano" in un senso del tutto letterale finche' delle persone non ne fanno costantemente argomento di discorso tra loro" (3) e insieme che ci sono cose che non possono diventare oggetto di dialogo – il sublime, l'orribile, il perturbante – che possono risuonare nel mondo attraverso una voce umana, ma non sono propriamente umane. C'e' dunque un inumano proprio del mondo comune e un inumano che oltrepassa l'umano, che e' esperienza privata, interiore e assoluta, cioe' sciolta da vincoli con il mondo umano, anche quando assume voce umana. Questo tipo di inumano corrisponde per Hannah Arendt alla Verita', alla Bellezza, a Dio, al tremendum, a tutto quanto oltrepassa la sfera di cio' che accade nella realta' umana plurale.
Appare chiaro che la questione dell'umano non e' una questione di definizione o di confini, bensi' di un orizzonte che sta tra due forme di inumano. Di carattere umano si puo' parlare propriamente solo in riferimento al mondo considerato orizzonte dell'originaria socialita' umana, delle pratiche di relazione e di scambio intersoggettivo, economico, sociale e culturale. Ricordiamo che, quando parla di "discorso" o di dialogo, Hannah Arendt si riferisce all'incessante interrogazione sul presente di cui parla in Le difficolta' del comprendere, definendolo lo sforzo infinito di essere contemporanei (siamo contemporanei fin dove arriva la nostra comprensione) anche a patto di andare d'accordo con il secolo della Shoah e del totalitarismo.
L'ambito specifico dell'umano che puo' diventare oggetto di discorso e' pertanto sempre a rischio di "naturalizzazione" (anche quando si configura come Storia o come idea dello sviluppo), di diventare movimento o processo impersonale e automatico. L'umano e' abitato costitutivamente da forze in bilico tra umanita' e disumanita', tra natura e cultura: la forza incontrollabile della natura, l'assolutismo degli affetti e delle fedi, il vincolo di sangue e di appartenenza etnica e culturale, l'"ombra" proiettata su noi stessi dalla singolarita' incarnata che ci fa, a nostra insaputa, agire e parlare con uno stile personale che dice fino in fondo le nostre provenienze e appartenenze, i nostri tabu' e pregiudizi, i nostri amori e dolori. Una realta', dunque, tanto intensa quanto straniante, che dice la tensione e spesso la paralisi moderna e contemporanea del rapporto dell'individuo con la storia, ma che sarebbe distruttivo scambiare con quella che ci porta ad assumere la responsabilita' di agire e parlare sulla scena del mondo.
C'e' dunque un profilo dell'umano – sia individuale sia collettivo – che non e' da considerarsi "non umano", in quanto estraneo o opposto a una presunta "umanita'" compiuta, il cui divenir umano e', piuttosto, ancora sempre in gioco, e quindi in pericolo, se non trova nel "discorso" la possibilita' di un passaggio di piano, di un aggancio alla pratica umana della relazione intesa come percezione dell'esistenza degli altri e di altro, scoperta che il mondo e' intreccio di sguardi, di gesti e di parole, che la realta' non sono solo le cose e le relazioni che entrano nella logica mezzo-fine (prassi tecnico-strumentale, sapere e conoscenza obiettiva), ma e' responsabilita' e quindi significato.
La condizione umana non e' un dato biologico o antropologico o un'essenza postulata, bensi' si istituisce, nasce, si fonda sempre di nuovo nell'azione politica, nell'agire che trae la sua specificita' non dalla produzione di oggetti o dalla realizzazione di scopi, bensi' dalla sempre rinnovata messa in atto della condizione umana come condizione di pluralita'. La politica e' dunque un dispositivo di umanizzazione, mai garantito, sempre arrischiato con coraggio. L'umanizzazione non si gioca in relazione a uno stadio di sviluppo o di involuzione dell'umano, bensi' in relazione alla possibilita' di aprire le svariate manifestazioni dell'umano a un passaggio di piano, alla capacita' di assottigliare il muro tra umano e inumano, di individuare porosita' e filtri, mettendo in opera dispositivi di risistemazione dei pezzi per riagganciare i piani.
E' questo il punto in cui il percorso arendtiano deve essere passato a contrappelo nel senso che Benjamin proponeva per la storia vista come progresso: occorre probabilmente disfare il percorso arendtiano e soprattutto il suo regime di distinzioni (privato/pubblico, zoe'/bios, visibile/invisibile, passivita'/attivita'), la sua idea di scienza, di economia e di inconscio. L'inumano in cui talora si inabissa la condizione umana non puo' probabilmente piu' essere definito come "natura" o come vita biologica o anche psiche o inconscio, ma deve essere riconosciuto come l'alterita' inconfessabile e invisibile che sta in fondo al linguaggio e al pensiero e soprattutto, nella pluralita' che arendtianamente abita la Terra, crea la tensione tra i soggetti e la tensione interna al soggetto medesimo.
Una volta disfatte le famigerate distinzioni, il dispositivo di umanizzazione puo' forse apparire in una luce nuova.
Soprattutto facendo riferimento a pensatrici come Judith Butler o Martha Nussbaum che hanno riattualizzato per vie molto diverse la questione dell'umano al cospetto delle sue recenti catastrofi – l'attentato alle due torri, le guerre umanitarie, il riemergere prepotente della religione come risposta ai problemi di assoluto, la questione della vita alla luce delle biotecnologie, le politiche e i diritti umani nei cosiddetti paesi in via di sviluppo – appare chiaro che il dispositivo di umanizzazione arendtiano e in particolare la sua politicita' oggi puo' benissimo (anzi deve) chiamare in causa un'altra scena della soggettivita' (p. es. quella psicoanalitica) e un discorso, come quello poetico-letterario, che apre molteplici possibilita' alternative dell'umano. Analogamente, la tesi che c'e' dell'inumano anche in cio' che oltrepassa la condizione umana, per esempio negli assoluti (e anche nel sacro e nel trascendente) quando si prendono alla lettera,
cioe' si considerano privi di vincoli nei confronti del mondo, puo' entrare in un discorso attento alla necessita' di un supplemento di trascendenza religiosa per metterci in relazione con l'ospite e lo straniero nell'universo multiculturale.
Decisiva e' la forza politica del dispositivo di umanizzazione che segnala che ogni agire e patire umano ha in se' una contingenza e quindi un margine di irriducibilita', di alterita' che rischia di "naturalizzarsi" o di "essenzializzarsi", di essere preso alla lettera o manipolato e usato se non viene ripreso e rigiocato ogni volta da soggetti che rilanciano cio' che e' dato (e anche conosciuto, fatto secondo i canoni dei saperi e delle pratiche convenzionali con i loro limiti e le loro impotenze) in termini di responsabilita' personale nei confronti del mondo. Una responsabilita' che e' attenzione e osservazione scrupolosa dei particolari della realta', rispetto e accettazione di cio' che e' e insieme messa in movimento, messa in parola e prospettiva, scambio infinito di esperienza. L'umanizzazione vista in questa luce istituisce sempre di nuovo la condizione umana e rappresenta in fondo un potente dispositivo di risignificazione di cio' che e' sempre sull'orlo del non-senso. E' allora un dispositivo neutro, che filtra e seleziona, in un certo senso razionalizza gli elementi disparati di cui e' fatta la condizione umana? Qualcosa va perduto in questo complesso regime di passaggi, viene lasciato nell'oscuro e nell'impensabile? E soprattutto e' in grado non solo di permetterci di scorgere nel totalitarismo un esito sempre aperto della politica, ma anche di affrontare l'altro come terrorista e kamikaze in nome di una fede?
Hannah Arendt ha lavorato molto sullo schema di La condizione umana, offrendosi alle impennate e alle interruzioni del presente vivente, innanzitutto al processo Eichmann e ad altri imprevisti. Il suo sforzo di tradurre in forme di relazione civile e politica quella parte di inumano senza la quale la condizione umana non sarebbe propriamente tale e' rimasto forse frammentario, ma in ogni caso ha sgombrato la strada dagli ambiziosi progetti delle fenomenologie e delle filosofie dell'esistenza, lasciandola aperta soprattutto al nostro confronto con le potenze in cui si gioca l'umano: la scienza e la tecnica, la noia, l'identita' personale.
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Note
1 Questo non e' un saggio (mancano le note), ma un programma di lavoro. Esso e' anche legato a occasioni di prendere la parola in pubblico, come nel convegno di Roma Tre per celebrare il centenario della nascita di Hannah Arendt, di cui quasi desidero conservare l'intensita' offrendo un testo che ha l'andamento sinuoso e forse anche divagante del riferimento diretto a un pubblico e insieme il coraggio del dire, che spesso si spegne nello scrivere (Laura Boella).
2 H. Arendt, L'umanita' in tempi bui. Riflessioni su Lessing, in Ead., Antologia, Feltrinelli, Milano 2006, p. 228.
3 Ibidem.
 
2. LIBRI. LUCETTA SCARAFFIA: ASIMMETRICI E FILOSOFICI AMORI
[Dal sito www.donzelli.it riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Il Sole 24 ore" il 14 ottobre 2012]
 
In genere sono solo le donne capaci di ricordare, dopo cinquant'anni, un momento felice vissuto con il loro grande amore, e di scriverne: invece in questo caso e' un uomo, un intellettuale tedesco del calibro di Gunther Anders, che e' stato sposato, per pochi anni, con Hannah Arendt, e l'ha poi amata tutta la vita. Egli ha preso la penna per scrivere questo piccolo dialogo filosofico ambientato nei primi tempi del loro matrimonio solo dopo la morte di Hannah, forse prima non ne avrebbe avuto il coraggio. Hannah non aveva mai dato segno di ricordare con simpatia la loro storia d'amore: "Mi sono sposata giusto per sposarmi". Il dialogo si svolge sul piccolo balcone della loro stanza in affitto a Drewitz, mentre snocciolano ciliegie nere per farne una marmellata. La discussione filosofica e' tesa e di alto livello, del tutto degna dei due interlocutori benche' giovanissimi, ma con gli occhi di Anders noi vediamo anche la bellezza di Hannah: "Quello stupefatto sguardo da ghetto sottolineato dai suoi occhi verdi" o "i capelli ondeggiarono amabilmente intorno al volto" mentre si risistemava con le mani sporche di succo di ciliegia. Si', il giovane marito non sa se la ragazza con cui discute sul balcone e' piu' bella o intelligente. Totalmente preso da lei, si imbarca in un dialogo impervio sulla disgregazione monodica del mondo, sulle monadi e il loro reciproco essere incomprese, la cui vera posta in gioco pero' e' altra: in primo luogo, la competizione con il padre-maestro Heidegger, che e' anche l'uomo amato da Hannah, la quale ancora un anno dopo il matrimonio gli scrive sulla "continuita' del nostro – per favore lasciamelo dire – amore". Tutto il lucido argomentare di Anders e' una sottile polemica con il maestro di entrambi, un tentativo di superare il rivale. Ma c'e' anche un altro argomento sotteso al discorso, come rivela lo stesso Anders, ed e' l'atteggiamento di Hannah verso Dio. Il filosofo se lo domandava da quando la giovane aveva studiato con impegno la teologia cristiana per scrivere la sua brillante e approfondita dissertazione di laurea su Agostino: "In che misura condividesse davvero qualcosa di quello che cosi' ingegnosamente aveva meditato e ponderato, o se fosse semplicemente affascinata dalla esistenza delle religioni o dal tipo di argomentazione teologica, non mi era dato saperlo, ne' allora ne' oggi: e non mi era dato sapere neppure se avrebbe potuto fornire una risposta precisa a questo quesito". Il dialogo lascia intendere che Hannah avesse a questo proposito convinzioni diverse da quelle assolutamente atee del giovane marito, ma la certezza egli la pote' avere solo molti anni dopo, dal loro comune amico dei tempi dell'universita' Hans Jonas, anch'egli ebreo, che nell'orazione funebre per la Arendt aveva ricordato come "fosse stata sempre affascinata dal mistero o dall'enigma dell'esistenza ebrea", arrivando a raccontare un episodio accaduto poco tempo prima, in occasione di un incontro a cui era presente anche Mary McCarthy, l'amica cattolica di Hannah. Alla domanda se credeva in Dio lei aveva risposto risolutamente si'. Jonas riprende la questione in una lettera indirizzata ad Anders, in cui ricorda come, in un successivo incontro, Hannah avesse dichiarato: "Ho sempre creduto in Dio e non ho mai dubitato della sua esistenza – forse l'unica cosa della mia vita che abbia sempre rappresentato per me un punto fisso". Questo breve teso inedito e' stato pubblicato dai due curatori - Christian Dries e Gerhard Oberschlick – con l'intento di far luce sugli intrecci, in gran parte inconsapevoli, che hanno agito nel pensiero dei due filosofi, i quali avevano condiviso la stessa preparazione e confrontato il loro pensiero in anni decisivi per la loro formazione intellettuale. Si tratta certo di un obiettivo importante per la storia del pensiero filosofico, ma questo piccolo libro ci dice anche molto altro: restituisce un'immagine umana e complessa della grande filosofa, e ha il coraggio di porre un problema fondamentale, sul quale spesso i suoi interpreti scivolano via, cioe' la questione del suo rapporto con Dio.
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 46 del 9 aprile 2021
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