[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 45



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 45 dell'8 aprile 2021
 
In questo numero:
1. Silvia Neonato intervista Lidia Beccaria Rolfi (1979)
2. Laura Boella: Leggere Hannah Arendt: un nuovo inizio
3. Annarita Briganti intervsta Laura Boella
 
1. MAESTRE, SILVIA NEONATO INTERVISTA LIDIA BECCARIA ROLFI (1979)
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente testo apparso originariamente su "Letterate magazine" col titolo "Avevamo un nome e un volto"]
 
Nel giugno 1979 andai a Mondovi' a casa di Lidia Beccaria Rolfi, inviata dal settimanale "Noi donne" per guardare con lei in televisione il film americano "Olocausto", che per la prima volta porto' nelle case di milioni di persone le atrocita' dei Lager nazisti. Lidia, staffetta partigiana, era stata deportata a Ravensbrueck come politica. L'anno prima aveva descritto, insieme alla storica Anna Maria Bruzzone, i mesi di prigionia nel Lager: era un libro unico, il primo in Italia dove si narrava la condizione delle prigioniere politiche e quella, ancora peggiore, delle ebree. Lo avevo letto e mi aveva colpita al cuore.
Vi ripropongo quell'incontro 42 anni dopo, Lidia non c'e' piu' dal '96 e io non sono piu' quella ragazza emozionata che passo' con lei due giorni indimenticabili. Mi ha inviato il mio articolo di allora (io non conservo nulla dopo tanti traslochi in varie citta') il figlio di Lidia, Aldo Rolfi, che stava curando la pubblicazione degli archivi materni: e infatti e' appena uscito un nuovo libro di cui vi diro' tra breve. Lo scorso anno qualcuno ha dipinto sulla porta di quella casa di Mondovi' che ricordo bene, con un pennello giallo, la stella di Davide scrivendo Juden hier, ebrei qui, proprio come facevano i nazisti. Lidia Beccaria Rolfi non era ebrea, era socialista e militante dell'Udi: quel giorno del '79 parlammo anche della legge per l'interruzione della gravidanza appena approvata e che lei si impegnava a far applicare nella sua provincia.
Bruno Maida ha appena curato la nuova edizione del libro di Lidia Beccaria Rolfi "L'esile filo della memoria. Ravensbrueck, 1945: un drammatico ritorno alla liberta'" che esce oggi e contiene anche i Taccuini del Lager, vergati dall'autrice durante i mesi di prigionia.
Nel Lager femminile di Ravensbrueck dal 1939 al 1945 passarono circa 110.000 donne. 92.000 di loro non fecero ritorno. Invece Lidia ritorno' e scrisse. Nella nostra conversazione, vedrete, mi disse: "Esistono ancora in alcuni paesi i Lager, la persecuzione dei dissidenti persino nei paesi che si dicono socialisti. Esiste in ciascuno di noi una parte oscura di violenza, il pregiudizio razzista, la cultura sessista dello stupro, dello schiacciare il piu' debole, il diverso. E il diverso e' ancora inferiore, non solo diverso: non lo sappiamo noi donne?".
Ecco la nostra conversazione di allora.
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Mondovi', giugno 1979. Con Lidia Rolfi, deportata a Ravensbrueck, abbiamo visto la prima puntata della miniserie televisiva americana "Olocausto". Le chiedo un commento.
"Nei campi di concentramento nazisti sono morti sei milioni di ebrei e altri cinque milioni di dissenzienti politici, detenuti comuni, omosessuali o comunque "diversi"; e poi gente che per il nazismo era inferiore e quindi da eliminare, come gli zingari e in genere tutti gli schiavi che lavoravano nei lager. Anche in Italia non se ne e' parlato molto, i dati sono spesso inesatti e sommari. Non credo che "Olocausto" sia un capolavoro ne' che possa dire tutta la verita': ma servira' almeno a far conoscere la realta' concentrazionaria? Si dira' che i deportati morti sono almeno 11 milioni e che i campi non erano solo di sterminio ma che, dall'aprile del 1942 in poi, sono diventati campi di lavoro, in cui l'aspetto importante era quello economico e non piu' quello politico e di sicurezza interna?".
Chi parla e' Lidia Beccaria Rolfi. Abita e vive a Mondovi', una cittadina della campagna piemontese. E' nata qui da una famiglia contadina e qui ha insegnato per quasi trent'anni. Nel 1944, aveva 19 anni, e' stata arrestata dai fascisti per ragioni politiche. Il 30 giugno dello stesso anno e' entrata nel lager femminile di Ravensbrueck, da dove e' uscita nell'aprile del 1945. Dieci mesi di campo di concentramento raccontati con lucidita' quasi spietata e con coraggio in un libro pubblicato nel 1978 con la cura di una storica, anche lei di Mondovi', Anna Maria Bruzzone, che della realta' concentrazionaria non ha fatto esperienza.
Nel libro, che si intitola "Le donne di Ravensbrueck" e che e' bellissimo, rigoroso e commosso, unico nel genere in Italia, e' ricostruita la storia del Lager, dalla sua costruzione, nel 1939, sino alla fine, e la storia delle donne che qui sono passate e in maggioranza morte, le ebree, le politiche, le ladre e le zingare di ogni paese d'Europa, attraverso la testimonianza diretta delle quattro deportate italiane che parlano insieme a Lidia Rolfi.
"Ho un figlio grande e un marito, faccio politica, ho i fiori alle finestre e amo ancora la vita", dice Lidia. "Ho una vita normale, di provincia, ma forse sono un'eccezione. Chi di noi e' tornata dai campi di sterminio difficilmente si e' poi inserita nella vita normale, come quella che gli altri vivono. Alcune di noi hanno disperatamente voluto vivere tutti quei mesi per poter tornare e raccontare. Ma al ritorno nessuno voleva sentirne parlare, dicevano "non e' possibile". Dicevano "mi fa troppa impressione, non voglio sapere". Si opponeva un muro di silenzio a tutti i deportati sopravvissuti e alle donne in particolare: ci facevano capire che se fossimo restate buone, a casa, non ci sarebbe successo niente Se non fossi stata una staffetta partigiana i fascisti non mi avrebbero preso e consegnato alla Gestapo... Chi me lo aveva fatto fare?".
Parliamo ancora di "Olocausto", abbiamo visto insieme la prima puntata. Lidia e' tesa. Guardando il film scuote la testa, fa qualche rapido commento. Poi quando si accende la luce e ci rimettiamo a parlare, lei ancora piu' emozionata, io in imbarazzo perche' e' difficile fare domande a chi ha ricordi come questi da portarsi dietro ogni giorno.
Ma Lidia non ha paura di ricordare. Dice: ""Olocausto" e' una finzione, l'interesse che suscita e' spiegabile. Parla di gente qualunque, di una famiglia come le altre: i deportati hanno un nome, una faccia, una storia. Le foto e i documenti veri dei campi mostravano cataste di cadaveri senza volto, gente scheletrita senza nome, dei numeri: e la gente, nel dopoguerra, li ha rifiutati per orrore, perche' era piu' facile farci restare anonimi, senza volto, senza sesso. Poi c'e' la paura di affrontare la bruttura; la paura di accorgersi che alcune ideologie del nazismo sono ancora intorno a noi e non solo nei nazisti rimasti: il razzismo, i metodi di spersonalizzazione piu' efficaci e piu' raffinati di alcune istituzioni totali, come il manicomio e la galera. Esistono ancora in alcuni paesi i Lager, la persecuzione dei dissidenti persino nei paesi che si dicono socialisti. Esiste in ciascuno di noi una parte oscura di violenza, il pregiudizio razzista, la cultura sessista dello stupro, dello schiacciare il piu' debole, il diverso. E il diverso e' ancora inferiore, non solo diverso: non lo sappiamo noi donne?".
Lidia Rolfi si interrompe. "Sapessi che vergogna, al ritorno dal Lager, avevamo noi deportate nel raccontare, quando avvertivamo nella gente una sorta di insinuazione ambigua che rimandava all'idea della violenza sessuale", sussurra. Le racconto che una ex deportata ebrea che e' andata nelle scuole a fare dibattiti, (Liana Millu, autrice del libro "Il fumo di Birkenau"), si e' spesso sentita chiedere dai ragazzi cosa le avevano fatto in quel senso. "Anche a me lo chiedono sempre, perche' vedono i fumetti pornografici con le svastiche e i cartelloni dei film. E' una cosa assurda, perche' noi le SS non le incontravamo quasi mai. Erano gli altri deportati a controllarci, a torturarci: questo facevano i nazisti, come per fingere di essere fuori dalla logica del lager. E sapevano bene che era efficace: metterci gli uni contro gli altri, farci sentire bestie, numeri, mostri degradati: questo era lo scopo delle citta' concentrazionarie. Ma i ragazzi della scuola come fanno a saperlo? Chi li ha informati? I nazisti vivevano fuori del Lager con la loro famigliola, si preoccupavano solo di fare i contratti con gli industriali cui ci vendevano per dodici ore al giorno di lavoro. E ci controllavano quando uscivamo dal lager per andare a lavorare: stavano li', fermi con i cani e le armi a vedere se tutto andava bene. Erano degli imboscati, gli individui peggiori dell'esercito nazista: si facevano mandare li' per non essere al fronte.
Ma dentro il lager vivevamo noi, solo quelli abili e idonei al lavoro; gli altri, i vecchi, i malati, i bambini, venivano sterminati subito come improduttivi: la logica era razionale ed era l'estrema conseguenza di quella capitalistica. I campi di sterminio erano anche questo: dal l942 poi, con la circolare di Oswald Pohl, un generale delle SS, si e' smesso di sterminare e basta. Si sterminava chi non serviva; gli altri venivano venduti come schiavi all'industria, anche gli ebrei. Io e molte altre di Ravensbrueck lavoravamo per la Siemens, per esempio. Ma anche di questo non si e' data informazione: le connivenze tra il potere economico e quello politico erano grandissime e sono continuate anche dopo la guerra: a chi faceva comodo tacere? Cosi' i ragazzini fanno domande spaventose e la gente continua a conoscere solo una parte del sistema concentrazionario. Affrontarne l'aspetto razionale vuol dire fare i conti davvero con il nazismo e smetterla di liquidarlo come un delirio di pochi, che non ci riguarda, che con le nostre societa' (capitalistiche) non c'entra".
Siamo sedute nel suo salotto, Lidia parla, racconta di come si viveva nel lager.
"Si spendevano le poche energie rimaste per trovare un cucchiaio, per non essere costrette a leccare le gamelle come bestie. Ma c'era anche solidarieta' tra di noi: io devo la vita alle donne che a Ravensbrueck mi hanno aiutato, regalato un po' di zuppa, un pettine, costretto a lavarmi per resistere all'annientamento. La' fuori la gente ha paura di sapere che c'era anche solidarieta' tra di noi, che quelle larve umane che si trascinavano in fabbrica tentando di sabotare l'industria bellica nazista potessero non odiarsi tra di loro. Sapessi come eravamo ridotte! Altro che le donne che ho visto in alcune sequenze di "Olocausto", alla televisione: loro sono in carne, pettinate, vestite... Noi eravamo coperte di stracci e di piaghe, ridotte a 30 chili, rasate, con gli occhi deliranti. Come puo', un film, rendere tutto questo? Ciononostante, spero che serva a far discutere, parlare, capire, almeno una parte di quello che e' stato il lager. Pochi di noi ex deportati si ritroveranno in quello che e' descritto. Sono delusa dal film, non posso nasconderlo. Ho combattuto tutta la vita per far conoscere queste cose, perche' se ne parlasse diversamente, per modificare il mondo attuale. Ho cercato di essere tutto cio' che il campo in me avrebbe voluto distruggere: una persona senza barriere ideologiche, senza schemi. Mi sento libera, senza eta', mi piace vivere. Amo la gente, ho visto che anche nel lager si puo' non diventare dei mostri. Ho visto come riescono a reagire le donne, quanta forza e dignita' abbiamo, quanta capacita' di adattarci e modificarci. Ma, per chi nel lager non c'e' stato, e' difficile pensare che io sono normale e che credo ancora che sia possibile cambiare".
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Note
"Noi donne", n. 24, 15 giugno 1979, Sopravvissute e cancellate.
Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane, Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Einaudi Tascabile 2020.
Lidia Beccaria Rolfi, "L'esile filo della memoria. Ravensbrueck, 1945: un drammatico ritorno alla liberta'", a cura di Bruno Maida, Einaudi 2021.
"Olocausto" (Holocaust) e' una miniserie televisiva statunitense del 1978 diretta da Marvin J. Chomsky che racconta l'olocausto attraverso la storia di due famiglie tedesche, una ebrea, i Weiss, ed una, i Dorf, il cui padre di famiglia, spinto dalla disoccupazione, si arruola nelle SS. L'argomento era un'occasione per rappresentare sullo schermo l'atrocita' dei crimini nazisti contro gli ebrei e parlava della creazione dei ghetti e dell'uso delle camere a gas.
Lo sceneggiato fece il giro del mondo (in Italia arrivo' nel 1979), innescando una serie di dibattiti sui Lager nazisti in un periodo in cui non veniva trattato apertamente dall'opinione pubblica. La sua proiezione in Germania fu l'occasione per riparlare e rivedere le responsabilita' del popolo tedesco.
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L'autrice
Silvia Neonato, giornalista, genovese, vive a Genova. Organizzatrice di eventi culturali, e' socia della SIL (Societa' italiana delle letterate), di cui e' stata presidente nel biennio 2012-2013. Ha debuttato su il manifesto, ha diretto il magazine Blue Liguria ed e' nella redazione di Leggendaria. Ha lavorato a Roma per molti anni, nella redazione del giornale dell'Udi Noi donne, a Rai2 (nella trasmissione tv Si dice donna) e Radio3 (a Ora D), per poi tornare a Genova, al Secolo XIX, dove ha anche diretto le pagine della cultura. Fa parte del direttivo di Giulia, rete di giornaliste italiane. Ha partecipato con suoi scritti a diversi libri collettanei.
 
2. MAESTRE. LAURA BOELLA: LEGGERE HANNAH ARENDT: UN NUOVO INIZIO
[Dal sito www.centroeinaudi.it nella Biblioteca della liberta', LIII, settembre-dicembre 2018, n. 223]
 
1. La vita nel pensiero
Nel 1958 esce l'edizione inglese di Human Condition, seguita nel 1960 da quella tedesca con il titolo Vita activa oder vom taetigen Leben. Arendt riteneva che il suo editore avesse "battezzato abbastanza saggiamente" La condizione umana il libro che lei "piu' modestamente" aveva concepito come "un'indagine sulla Vita Activa" (1). Nel passaggio dall'inglese al tedesco vengono aggiunti interi paragrafi e viene effettuata una rielaborazione concettuale in consonanza con la lingua filosofica in cui il pensiero arendtiano si era formato e che ne costituisce il tessuto di fondo. L'edizione italiana, uscita tempestivamente nel 1964, unisce i due titoli, Vita activa. La condizione umana. Il libro e' diventato un classico del Novecento sulla base di letture e traduzioni prevalentemente legate al testo inglese, ma l'arco che si tende tra le due versioni illustra bene il punto in cui si trovano oggi studiosi e lettori della vasta e multiforme opera arendtiana. E' stata avviata da poco la realizzazione di un'edizione critica, che rendera' disponibili testi editi e inediti innanzitutto tenendo conto della natura bilingue del corpus arendtiano (2). I primi due volumi usciti nel 2018 (3) inaugurano in maniera insolita un'impresa attesa da molti anni. Da un lato, viene pubblicato un libro mai realizzato, ossia una serie di materiali risalenti al 1951-1954 e facenti parte di un progetto di resa dei conti con la tradizione del pensiero politico occidentale. Dall'altro, rivede la luce la prima raccolta uscita in Germania nel 1946, mai pubblicata in inglese, sebbene alcuni saggi abbiano trovato una collocazione altrove. Molti sono i motivi per cui l'edizione critica segnera' una svolta radicale nell'approccio al pensiero di Hannah Arendt. Lo stesso si puo' dire per la nuova biografia di Thomas Meyer, prevista in uscita per la fine del 2020, che si affianchera' a quella di Elisabeth Young-Bruehl del 1982 colmando le lacune tuttora esistenti relative a importanti periodi della vita arendtiana.
La realizzazione dell'edizione critica e' sicuramente tardiva, se si pensa a quelle, da tempo disponibili, delle opere complete di autori come Adorno, Benjamin, Horkheimer, Kracauer, Bloch, Heidegger, Jaspers che fecero parte, sia pure in diverso modo, della stessa atmosfera del pensiero arendtiano. Hannah Arendt e' stata considerata soprattutto un'autrice americana, nonostante i suoi frequenti viaggi in Germania nel dopoguerra e una costante presenza editoriale in Europa dopo la caduta del Muro. Il carattere proteiforme di un'opera che annovera testi disparati, biografici, storici, filosofici, politici e letterari l'ha privata di un'identita' disciplinare univoca. Analogo effetto e' stato prodotto dallo stile arendtiano, dal suo approccio ai "maestri" (Husserl, Heidegger e Jaspers) e ai grandi filosofi del passato come Kant, fondato su approfondite letture dirette dei testi (documentate dal diario), ma incuranti della bibliografia specialistica. Autointerpretazioni di per se' ambigue, come quelle relative al suo "congedo dalla filosofia" e alla sua appartenenza all'ambito della "teoria politica" (4), hanno provocato forzature del suo pensiero, il cui effetto e' stato quello di accentuare la sua extraterritorialita' rispetto all'ambito della "filosofia politica" o della "scienza politica". Decisivo in questa vicenda e' in ogni caso il bilinguismo: dagli anni Quaranta tutti i libri i e saggi arendtiani hanno una versione inglese e una tedesca, nelle quali s'incrociano il lavoro di ripulitura dell'inglese fatto da amici e da editor, la traduzione e riscrittura in tedesco di molti testi fatta dall'autrice stessa, quasi sempre ripensando una questione in un'altra lingua. L'andirivieni da una lingua all'altra implica che le prime versioni di uno scritto possano essere in inglese o in tedesco a seconda delle circostanze. Si tratta di un aspetto della produzione teorica arendtiana ancora sostanzialmente inesplorato. Solo di recente si e' iniziato a prestare attenzione alle varianti delle versioni inglese e tedesca di opere fondamentali come Vita activa (5). Effettivamente c'e' da chiedersi perche' Arendt si sia impegnata per molti anni in un quotidiano lavoro di "comprensione" della catastrofe originata dall'evento totalitario impiegando due lingue attraverso le quali peraltro spesso traspaiono riferimenti e citazioni dalla cultura greca e latina, che rappresentavano un serbatoio di significati linguistici essenziali per impostare in modo nuovo una questione filosofica. Si puo' interpretare il plurilinguismo e la pluralita' delle forme di scrittura come la messa in atto della pluralita' affermata come elemento base della condizione umana. Bisogna tuttavia ricordare che il tedesco, la "lingua materna", spalancava la questione del nazismo, anche se Arendt, in una forma che ha fatto discutere, ritenesse che non fosse stata "la lingua tedesca a impazzire" (6). L'inglese era la lingua dell'esilio, seguito al francese negli otto anni (1933-1941) trascorsi a Parigi. Il bilinguismo parla dunque di una connessione vitale tra esperienza vissuta e pensiero, ma anche di una tensione linguistica tra differenti visioni del mondo e eventi storico-politici (basta pensare alla ricostruzione arendtiana delle vicende della rivoluzione francese e di quella americana) (7). Certo, il tedesco preme sull'inglese arendtiano, sul suo ritmo e struttura, ed e' difficile capire se Arendt fosse consapevole del fatto che l'andirivieni tra le due lingue produceva sostanzialmente una mise en abyme della pretesa della teoria di arrivare a risultati definitivi. L'immaginazione teorica plurilingue, la traduzione che probabilmente era messa in atto fin dalla prima genesi di un'idea, l'esistenza di una "lingua materna" intraducibile, un'eccedenza che sta in the back of the mind e segna una perenne distanza rispetto alle altre lingue (8), tutto questo induce a considerare l'uso arendtiano delle diverse lingue il segno piu' evidente del carattere "straniante" del pensiero di una filosofa che inizio' la sua carriera da rifugiata. Un effetto consono a una filosofa che ammirava Brecht, sebbene lo scandalo filosofico provocato da Vita activa e ancor piu' quello etico-politico provocato da libro sul processo Eichmann oggi siano rifluiti nel successo cinematografico e aneddotico di Hannah Arendt.
Dai criteri dell'edizione critica uscira' dunque una nuova lettura dei testi "canonici", arricchita di inediti, frammenti, appunti, fondata in particolare sulla conoscenza del laboratorio del pensiero arendtiano, sui diversi strati e occasioni della sua genesi, sulle fonti (storiche, filosofiche, letterarie) e sul peculiare metodo di composizione, non lineare, ma nemmeno rapsodico, in quanto mosso da intuizioni che progressivamente scavano, perforano, differenziano e complicano la struttura di un problema. Ci si puo' chiedere se un'edizione critica tanto complessa e innovativa (basta pensare alle possibilita' offerte dal formato digitale) sia destinata agli specialisti. Si tratta di un monumento eretto in onore di una filosofa famosa e di cui e' ormai indispensabile fornire un corpus di testi definitivamente attendibili? Il lettore comune sara' privato del piacere della lettura di testi brillanti e non accademici, che a modo loro, con conseguenze non sempre accettabili, lasciavano liberi di farne il proprio uso?
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2. Un pensiero sperimentale
In ogni caso, studiosi e lettori comuni non possono evitare di chiedersi se bisogna ricominciare tutto da capo nell'approccio al pensiero arendtiano, a partire da quello che si presume sara' l'effetto piu' innovativo dell'edizione critica, ossia la presa d'atto di un corpus di scritti e di riflessioni stratificato e magmatico, in costante movimento. La coincidenza tra i sessant'anni dalla pubblicazione di Vita activa e la svolta provocata dall'edizione critica, invita a rivolgere l'attenzione al libro diventato uno dei "canoni" principali dell'interpretazione del pensiero arendtiano. E' chiara la necessita' di rileggere fuori dai cliche' un pensiero di cui molti si sono appropriati, e che oggi deve essere messo alla prova da una sensibilita' storico-politica mutata in seguito alle vicende di fine secolo e all'inizio del nuovo millennio. Il primo effetto di un'auspicabile rilettura sara' rendersi conto che Vita activa e' uno dei libri piu' densi e difficili scritti da Hannah Arendt. Anche quando a esse si e' rivolto uno sguardo critico, le sue categorie (pluralita', spazio pubblico, azione) sono state date per garantite nella loro struttura metodica e concettuale e restano pertanto ampiamente inesplorate. Occorre ricordare che Vita activa fu considerato dalla stessa Arendt "una sorta di prolegomena al libro che adesso intendo scrivere", ossia l'Introduzione alla politica che non sara' mai scritto (9). In questa luce, assume un rilievo particolare il fatto che il libro avrebbe dovuto essere dedicato a Heidegger, cosa che non avvenne. Hannah Arendt motivo' la mancata dedica in termini di "fedelta'/infedelta'" (10), espressione, questa, che si puo' interpretare, evitando di cadere nella trappola della chiacchierata relazione tra i due, nonche' in quella del debito teorico che ha attirato l'attenzione di molti studiosi. La condizione di straniera che vagabonda tra le lingue produce in effetti infedelta' di vario tipo. La "fedelta'/infedelta'" (non solo a Heidegger) e' pertanto il segnale piu' evidente, ma anche piu' complesso da decifrare, della portata del lavoro confluito in Vita activa. Il libro del 1958 deve infatti essere considerato il prodotto di una riflessione che, come documentano lettere, brani del diario e inediti, viene "dai primi tempi di Freiburg", raccoglie le "questioni che mi inquietavano continuamente gia' durante la stesura del libro sul totalitarismo" e continuera' a svilupparsi per i rivoli dei successivi scritti pubblicati tra gli anni Cinquanta e Sessanta (11).
Com'e' nato l'interesse per la politica in una pensatrice che, se veniva da qualche parte, veniva dalla "tradizione della filosofia tedesca" (12)? Questa domanda sembra avere una risposta ormai nota. L'interesse per la politica insorge drammaticamente in Hannah Arendt a partire dall'esperienza della Shoah, dell'esilio e dalla volonta' di "comprendere" e s'innesta su una formazione filosofica avvenuta per molti aspetti all'insegna della rottura con la tradizione. Se si prende sul serio la provocazione (da intendersi alla lettera come un "chiamar fuori" dai binari consolidati) rivolta agli studiosi dalla nuova immagine del movimento del pensiero arendiano quale emerge dall'edizione critica dell'intera opera, occorre mettere a fuoco la duplice operazione che occupa il lavoro arendtiano negli anni che intercorrono tra la pubblicazione di Le origini del totalitarismo (1951) e la stesura di Vita activa. Si tratta di un periodo molto produttivo e denso di progetti che restituisce una centralita' finora riconosciuta solo in modo evasivo o sottilmente perplesso al libro del 1958. Nello stesso anno esce la raccolta di saggi Tra passato e futuro, definiti nell'introduzione "esercizi di pensiero politico" (13). Il rilancio delle questioni fondamentali precipitate nell'abisso della crisi prodotta dall'inedito del fenomeno totalitario (14) avviene nella forma di una trasformazione della filosofia (non semplicemente del "congedo dalla filosofia" (15) in favore della teoria politica) di cui Vita activa rappresenta un esito centrale.
La conferenza tenuta presso l'American Political Science Association nel 1954, intitolata L'interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, e' uno dei documenti che, nella pluralita' di strati che costituiscono la trama di Vita activa, chiarisce come dalla crisi della tradizione nasca la riflessione sulla condizione umana. Arendt parla usando la prima persona plurale, "noi studiosi di politica" (16), e esordisce con la celebre osservazione che il disinteresse per la politica che caratterizza l'intera tradizione occidentale da Platone a Hegel debba essere spiegato, da un lato, con il disprezzo per la sfera degli affari umani e, dall'altro, con la paura che la mutevolezza e imprevedibilita' delle azioni umane turbi le occupazioni professionali del filosofo, dedito a meditare sulle eterne questioni. Le esperienze politiche traumatiche delle due guerre mondiali, del totalitarismo e della minaccia atomica hanno tuttavia cambiato la scena. Il pensiero politico contemporaneo ha riconosciuto che "le vicende umane pongono dei problemi filosofici autentici e che la politica e' un ambito in cui emergono delle questioni filosofiche reali" (17). Il filosofo (viene citato l'influsso di Essere e tempo di Heidegger sul pensiero francese) in altri termini e' sceso dal suo piedestallo e cio' ha consentito di "riesaminare l'intera sfera politica alla luce di esperienze umane elementari", a partire dalla vita quotidiana, ossia di "strutture dell'esistenza umana [...], connaturate alla condizione umana in quanto tale, dalla quale non vi e' fuga alcuna in un'"autenticita'" che sarebbe prerogativa esclusiva dei filosofi" (18). Con molta nettezza Arendt rovescia i termini del disinteresse per la politica della filosofia tradizionale, che riemerge persino nella cornice innovatrice del pensiero di Heidegger (19). Le domande "che cos'e' la politica?", "chi e' l'uomo in quanto essere politico?", "che cos'e' la liberta'?" sono domande eminentemente filosofiche e il "nocciolo della politica" e' "l'uomo come essere che agisce", ossia vive nel mondo insieme ad altri e risponde attivamente al mondo iniziando qualcosa di nuovo e di imprevedibile. Niente di piu' contrastante con la classica idea dell'uomo al singolare o la piu' recente, inaugurata dallo storicismo hegeliano e rimodellata da Heidegger, dell'individuo inserito in tendenze generali (analizzabili dal punto di vista storico o sociologico) come la planetarizzazione, la tecnicizzazione e l'atomizzazione della societa' (20). Quelle che Arendt chiama "esperienze umane elementari", dotate di una valenza filosofica primaria, nascono dunque dal rapporto dell'individuo con il mondo abitato dai suoi simili. Il ridestato interesse per la politica ha dunque una posta in gioco che sovverte le premesse della filosofia ancorata agli assoluti metafisici. In questione e' il valore attribuito alle strutture essenziali della condizione umana e della sua costitutiva pluralita', la cui esplicitazione risulta dalla discussione con gli esponenti del pensiero politico cattolico in area francese e tedesca (21), e in particolare con gli esistenzialisti francesi. Malraux e Camus, Sartre e Merleau-Ponty hanno messo la politica al centro con tanto radicalismo da farne un'ancora di salvezza della filosofia e da proporre l'azione rivoluzionaria come una fuga dai dilemmi irrisolti della teoria. L'argomento principale di Arendt contro l'idea di politica di questi filosofi, che pure hanno rifiutato la filosofia accademica e hanno abbandonato l'atteggiamento contemplativo, e' la sfida portata alla condizione umana: "Il coraggio, secondo Malraux, sfida la condizione umana della mortalita', la liberta', per Sartre, sfida la condizione umana dell'essere gettati nel mondo (una nozione che egli riprende da Heidegger), e la ragione, secondo Camus, sfida la condizione umana di dover vivere nell'assurdita'" (22). Essi non farebbero che riproporre la vecchia idea di una natura umana capace di creare le condizioni stesse del proprio esistere sottraendosi in questo modo alle "condizioni" della condizione umana. Progetto, questo, che ha inquietanti somiglianze con i tentativi dei regimi totalitari, ma anche della scienza e della politica moderna, aggiunge Arendt, di "trasformare la natura umana attraverso un cambiamento radicale delle condizioni tradizionali" (23). Queste osservazioni richiamano direttamente le pagine introduttive di Vita activa, in cui si chiarisce che la condizione umana e' la messa in atto del proprio essere al mondo e del proprio molteplice rapporto con il mondo. Questo e' il senso (e non l'affermazione del primato della prassi sulla teoria) della sua descrizione in termini di attivita': azione, opera, lavoro, pensiero, volonta', giudizio sono tutte attivita' che si svolgono concretamente in un tempo e in uno spazio specifico, in corrispondenza a esperienze e interpretazioni storicamente differenziate del mondo (24).
La descrizione della condizione umana in termini di impegno e coinvolgimento costante nel mondo implica che l'esperienza storico-politica non sia un ambito specifico (collettivo vs individuale, contingente vs eterno), ma il modo in cui l'essere del mondo e non solo nel mondo di ogni individuo concretamente viene messo in atto (o impedito, mortificato) e incide su cio' che essenzialmente lo definisce: il potere di iniziativa e la vulnerabilita', ossia la finitezza dell'esistenza umana tesa tra la vita e la morte, la fragilita' dell'esposizione al mondo degli altri e delle loro azioni e gli sforzi di controllarla e dominarla. Quando parla di condizione umana Arendt si riferisce alle "condizioni" della "condizione umana" (vita, mondo, pluralità) che non sono quindi condizionamenti esterni, ma vengono esperite attraverso molteplici attivita', vitali e materiali (lavoro, opera, azione), temporalita' e spazi diversi (pubblico, privato) che attualizzano le "condizioni" della "condizione umana". Non c'e' essenza o "natura" umana al di fuori delle sue condizioni di esistenza.
Uno dei tanti fili intessuti nella complessa trama di Vita activa mette dunque in evidenza l'entita' del sommovimento di pensiero che sta alla base dell'opera arendtiana. Gli "esercizi di pensiero politico" presentati in Tra passato e futuro hanno infatti come presupposto l'idea che "il pensiero [nasce] dai fatti dell'esperienza viva (incidents of living experience) e debba rimanervi legato come gli unici segni indicatori validi per la propria ispirazione" (25). L'atteggiamento a un tempo critico e sperimentale che ne deriva e' la chiave per addentrarsi nel laboratorio arendtiano, disseminato di "gusci vuoti", i relitti della tradizione, al fondo dei quali giace l'immensa varieta' e novita' dell'esperienza umana. E' questo il programma, il metodo e l'impegnativa eredita' non ancora liquidata di Hannah Arendt.
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Note
Questo scritto prende lo spunto dai sessant'anni dalla pubblicazione di Vita activa ed e' direttamente collegato al saggio "Ripensare la condizione umana", Studium, vol. 114, n. 6, pp. 20-39.
1. Arendt 1987, 86.
2. Il piano dell'opera prevede 16 volumi che usciranno presso le edizioni Wallstein (Goettingen) e successivamente in formato digitale open access (http://www.arendteditionprojekt.de/Editionsplan/index.html).
3. Arendt 2018a, 2018b.
4. Arendt 1964, 35-36: "Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione, se si puo' considerarla tale, e' la teoria politica".
5. Le Ny 2013; Loidolt 2018; Ferrie' 2008, 235-266.
6. Arendt 2001, 47-48; Derrida 2014.
7. Arendt 1963.
8. Arendt 2001, p. 48.
9. Arendt 1959. Un estratto di questo progetto e' stato pubblicato in Arendt 1993, 200.
10. Arendt e Heidegger 2001, 114 (lettera di Arendt a Heidegger del 28 ottobre 1960), e 237, nota 1, dove si riporta il testo di un foglietto di appunti, conservato nel lascito arendtiano. "De Vita activa. Ho tralasciato la dedica di questo libro. Come faccio a dedicarlo a te, l'intimo amico, cui sono e non sono rimasta fedele, sempre per amore".
11. Ivi, 114; 110-111 (lettera a Heidegger dell'8 maggio 1954). Vedi anche Ludz 1993, Arendt 1993, 148, che ricostruisce e documenta il cantiere di lavoro arendtiano tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
12. Vedi la lettera a Gershom Scholem del 4 luglio 1963, in Arendt 1986, 221.
13. Arendt 1991, 38 (tr. modificata dall'Autrice).
14. Cfr. Arendt 1993, 442, dove, abbozzando uno schema del libro che avrebbe dovuto intitolarsi Amor Mundi (i capitoli sul lavoro confluiranno in Vita activa), pone come introduzione "il filo spezzato della tradizione come una sorta di giustificazione dell'intera impresa".
15. Arendt 2001, 36.
16. Arendt 1954, 199-219, in particolare 199 e 200.
17. Ivi, 200-201.
18. Ivi, 203-204.
19. Nelle varianti del testo serpeggia una discussione critica con Heidegger e la sua apoliticita'.
20. Ivi, 204-205.
21. Ivi, 205-208, dove vengono presi in considerazione Maritain, Gilson, Guardini e Pieper.
22. Ivi, 211.
23. Ivi, 212.
24. Arendt 1989, 5 e cap. VI.
25. Ivi, 38.
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Bibliografia
- Arendt H. (1954), "L'interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo", in Archivio Arendt 2. 1950-1954, tr. it. a cura di S. Forti, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 199-219.
– Eadem (1959), "Description of Proposal for the Rockfeller Foundation", Washington D.C., Library of Congress, The Papers of Hannah Arendt, Cont.23, 013872.
– Eadem (1986), Ebraismo e modernita', tr. it. a cura di G. Bettini, Milano, Unicopli.
– Eadem (1987), La vita della mente, tr. it. a cura di A. Dal Lago, Bologna, il Mulino.
– Eadem (1989), Vita activa. La condizione umana, tr. it. a cura di A. Dal Lago, Milano, Bompiani.
– Eadem (1991), "Premessa: la lacuna tra passato e futuro", in Tra passato e futuro, tr. it. a cura di A. Dal Lago, Milano, Bompiani.
– Eadem (1993), Was ist Politik? Fragmente aus dem Nachlass, a cura di U. Ludz, Muenchen-Leipzig, Piper.
– Eadem (2001), "'Che cosa resta? Resta la lingua'. Una conversazione con Guenter Gaus" [1964], in Archivio Arendt 1. 1930-1948, tr. it. a cura di S. Forti, Milano, Feltrinelli.
– Eadem (2009), Sulla rivoluzione [1963], tr. it. a cura di M. Magrini, Torino, Einaudi.
– Eadem (2018a), The Challenge to Tradition. Fragmente eines Buchs, Kritische Gesamtausgabe, Bd. 6, a cura di B. Hahn e J. McFarland, Goettingen, Wallstein.
– Eadem (2018b), Sechs Essays. Die verborgene Tradition, Kritische Gesamtausgabe, Bd. 3, a cura di B. Hahn, Goettingen, Wallstein.
- Arendt H., Heidegger M. (2001), Lettere 1925-1975, tr. it. a cura di M. Bonola, Torino, Edizioni di Comunita'.
- Derrida J. (2014), Storia della menzogna, Roma, Castelvecchi.
- Ferrie' C. (2008), "Une politique de lecture: Arendt en allemand", Tumultes, vol. 1, n. 30, pp. 235-266.
- Le Ny M. (2013), Hannah Arendt: Le temps politique des hommes, Paris, L'Harmattan.
- Loidolt S. (2018), Phenomenology of Plurality: Hannal Arendt on Political Intersubjectivity, Routledge, New York-London.
- Ludz U. (1993), "Zweiter Teil. Kommentar der Herausgeberin", in H. Arendt, Was ist Politik? Fragmente aus dem Nachlass, a cura di U. Ludz, Muenchen-Leipzig, Piper.
 
3. MAESTRE. ANNARITA BRIGANTI INTERVISTA LAURA BOELLA
[Dal sito www.repubblica.it riprendiamo la seguente intervista del 23 dicembre 2020 col titolo "Laura Boella: Le mie filosofe guerriere controcorrente"]
 
Prendiamola con filosofia rileggendo/scoprendo le cinque grandi pensatrici scelte da Laura Boella per altrettante lezioni raccolte nel suo nuovo volume, rinnovato e riproposto, dopo una edizione precedente, per affrontare i nostri tempi difficili. Cuori pensanti, il nuovo pamphlet della filosofa, che ha insegnato Filosofia Morale all'Universita' Statale di Milano, pubblicato dalla milanese Chiarelettere, parla di Hannah Arendt, Simone Weil, Etty Hillesum, Edith Stein e Maria Zambrano, protagoniste di quel Novecento fecondo dal punto di vista culturale, ma caratterizzato dall'orrore della Storia. Stein e Hillesum sono morte ad Auschwitz. La prima aveva cinquant'anni, e da filosofa era diventata una monaca Carmelitana, la seconda ventinove, e il suo desiderio piu' grande era fare la scrittrice.
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- Annarita Briganti: Il titolo del libro viene da una delle sue lezioni piu' belle, quella su Etty Hillesum.
- Laura Boella: Nel campo di concentramento Hillesum sentiva tante persone dire: "Non voglio pensare", per non impazzire. Invece, lei voleva essere il "cuore pensante" di quella "baracca", come diceva. Nel suo diario aveva scritto: "Non penso piu' a fare progetti e a correre rischi, andra' come andra' e sara' per il meglio". Volle ospitare dentro di se' i problemi del suo tempo per non rendere ancora piu' inospitale il mondo, aggiungendogli un solo atomo di odio. Era una giovane donna alla ricerca del suo equilibrio nel mezzo della persecuzione antiebraica in Olanda.
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- Annarita Briganti: Chi e' la sua preferita?
- Laura Boella: Hannah Arendt, sempre elegante, bella, fotografata con i tacchi pure a duemila metri di altezza, donna di mondo, l'ho sempre sentita affine, mentre, per esempio, l'ascetismo e il rifiuto del corpo di Simone Weil m'intimidiscono. Ma anche Hillesum, piu' rileggo i suoi diari e le sue lettere, piu' mi accorgo che senza di lei tante cose non saremmo riusciti a pensarle.
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- Annarita Briganti: Cosa c'insegnano queste cinque intellettuali?
- Laura Boella: I filosofi uomini elaborano da lontano per risolvere i problemi dell'umanita'. Questi "cuori pensanti", che c'ispirano con il loro coraggio e con la loro forza di andare controcorrente, sono guerriere sempre al centro del loro tempo. Pensiamo a Weil, per cui tutto partiva dall'esperienza. La filosofa francese ha lavorato in fabbrica e in campagna, ha insegnato filosofia in un liceo, ha partecipato alla Guerra di Spagna, e' andata in Germania mentre Hitler prendeva il potere, e ha letto, ha studiato, ha scritto.
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- Annarita Briganti: A cosa "serve" la filosofia nel contesto attuale?
- Laura Boella: E' una finestra che si spalanca e dalla quale si guarda fuori, si immagina, si riaprono i giochi con se' stessi e con la realta'. Non la tratto come una disciplina, ma come la capacita' di pensare, che appartiene a tutti, non solo ai filosofi. Se per filosofia intendiamo la capacita' di pensare di cui tutti siamo dotati, allora possiamo pensare alle parole che usiamo, spingere lo sguardo oltre i numeri dei bollettini, ampliare la mente e il cuore. I filosofi dovrebbero fare questo: allargare mente e cuore.
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- Annarita Briganti: Qual e' il suo augurio per il 2021?
- Laura Boella: Che si possa tornare a una maggiore libertà di movimento, di contatto e di relazioni. Quante volte, oggi, cambiamo strada, se incrociamo un’altra persona? Dovremo reimparare a stare insieme, nelle scuole, nelle aule, ma anche sul marciapiede, in ogni settore della vita.
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 45 dell'8 aprile 2021
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