Archivi. 188
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- Date: Sat, 4 May 2013 07:00:10 +0200 (CEST)
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XIV)
Numero 188 del 4 maggio 2013
In questo numero:
1. Alcuni testi del mese di agosto 2001 (parte quinta)
2. Per una cultura antimafia: Renate Siebert
3. Per una cultura della pace: Giuliano Pontara
1. MATERIALI. ALCUNI TESTI DEL MESE DI AGOSTO 2001 (PARTE QUINTA)
Riproponiamo qui alcuni testi apparsi sul nostro foglio nel mese di agosto 2001.
2. PER UNA CULTURA ANTIMAFIA: RENATE SIEBERT
[Le seguenti schede su tre libri di Renate Siebert, con alcuni brevi estratti da essi, abbiamo ripreso da una delle nostre schede "Per una cultura antimafia" che abbiamo redatto e diffuso un anno fa.
Renate Siebert sociologa di origine tedesca, nata a Kassel nel 1942, allieva di Theodor W. Adorno, vive e lavora nell'Italia meridionale, dove insegna Sociologia del mutamento presso l'Universita' di Calabria. Opere di Renate Siebert: oltre a Frantz Fanon e la teoria dei rapporti tra colonialismo e alienazione, Feltrinelli, Milano 1970, e ad Interferenze, Feltrinelli, Milano 1979 (in collaborazione con Laura Balbo), tra le opere recenti segnaliamo: E' femmina pero' e' bella, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano 1994 (poi Est, 1997); La mafia, la morte e il ricordo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; Mafia e quotidianita', Il Saggiatore, Milano 1996; Andare ancora al cuore delle ferite, La Tartaruga, Milano 1997 (intervista ad Assia Djebar); Cenerentola non abita piu' qui, Rosenberg & Sellier, Torino 1999; (a cura di), Relazioni pericolose, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000]
Renate Siebert, Le donne, la mafia
Questo testo (Renate Siebert, Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano 1994, ristampato nella Est, 1997) costituisce una vasta ricerca di grande valore.
L'autrice, sociologa di origine tedesca, gia' allieva di Adorno, intellettuale impegnata, che insegna presso l'Università della Calabria, vi e' mossa "da un bisogno molto intimo, privato, personale. Quello di capire in che mondo vivo giorno per giorno e quali siano i confini, i lembi estremi di cio' di cui la mia coscienza possa farsi carico"; ma si leggano tutte le pp. 9-12, che evidenziano la forza (e l'urgenza interiore) dell'impegno, e la lucidita' (ed il coinvolgimento profondo) dell'analisi.
Del resto l'autrice ha lavorato con donne e uomini protagonisti del movimento antimafia - quello piu' intenso e di base, piu' limpido e militante (si veda l'elenco dei ringraziamenti alla pp. 21-22), e le decine di pagine conclusive dedicate alle esperienze organizzate di lotta contro la mafia documentano con efficacia come l'autrice sia ad esse legata ed interna, non solo osservatrice partecipante, ma militante che condivide.
"Voglio comprendere a partire da un punto di vista di donna e voglio dare voce alle donne che per un motivo o per l'altro si sono trovate invischiate in faccende di mafia. Cerco di unire l'ascolto dell'esperienza soggettiva della mafia con un'analisi teorica. Si tratta quindi di una interpretazione che e' intessuta anche della mia soggettivita', oltre che di quella delle donne e degli uomini che sono entrati a far parte di questo libro. In un certo senso non mi sento sola in questa impresa: il modo di osservare e molte delle categorie di analisi di cui mi sono servita sono patrimonio del movimento delle donne a cui devo molta parte della mia formazione teorica", scrive programmaticamente (pp. 17-18), e ci pare che il libro raggiunga lo scopo enunciato.
Il libro si articola in tre parti.
La prima, che indaga "La mafia attraverso il prisma di genere", si articola in cinque capitoli: 1. Una societa' di soli uomini (I riti di iniziazione; Caccia e banchetti; Violenza rupestre; Un gruppo esoterico?); 2. La famiglia (L'uso strumentale delle reti parentali; Apparire ed essere; Onore, vergogna, vendetta; La trasmissione); 3. La donna (Mito e realta'; Amore e sessualita'; Diffidenza; Donne o madri?); 4. La morte (Il potere; La coazione a uccidere; La "banalità del male"; Il prezzo della vita); 5. Eros contro Thanatos (La qualita' della vita; Ripartire da se'; Rita Atria: non dimenticare; Rosetta Cerminara: una storia esemplare).
La seconda parte, "Le donne con la mafia", dipana l'analisi in tre capitoli: 1. Emancipazione? (Estraneita' e complicita'; Imprenditrici, prestanomi, intermediarie; Mafiosa? no, solo moglie); 2. Subordinazione e sfruttamento (Le corriere della droga; Le madri spacciatrici; Donne e bambini assassinati); 3. Complicita' palesi ("Nonna eroina"; Le donne dei boss; Il fascino discreto della violenza).
La terza e piu' ampia parte, che conclude il libro, e' su "Le donne contro la mafia", e si sviluppa lungo altri cinque capitoli: 1. Le emozioni come risorsa (Le parole sono pietre; Troppo sangue, non c'e' amore qui; "Familismo morale"); 2. Madri, sorelle e vedove in lutto: donne sole (La mafia "in casa mia"; Emarginate nel proprio ambiente; Abbandonate dalle istituzioni); 3. Donne di "uomini contro la mafia" (Vite blindate; Vite tra un "prima" e un "dopo"; Il lascito dell'etica professionale); 4. Donne e sequestri (La vita come moneta di scambio; Il coraggio di Angela Casella; Contro la ragion di stato); 5 "Tra uccidere e morire c'e' una terza via, vivere" (I Centri e le Associazioni; Il Pensiero materno in piazza: i lenzuoli...; ... e il digiuno).
E' un libro che raccomandiamo caldamente.
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Renate Siebert, La mafia, la morte e il ricordo
Questo prezioso libriccino di una cinquantina di pagine di piccolo formato di Renate Siebert (La mafia, la morte e il ricordo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995, con una postfazione di Anna Rossi-Doria) costituisce un denso contributo ad una riflessione ineludibile. l'autrice vi mette a frutto e per cosi' dire vi condensa alcuni temi continuamente riemergenti dalla sua vasta ricerca edita nel 1994.
"Ricordare persone scomparse, elaborare il lutto della loro perdita, rievoca inevitabilmente le circostanze della loro vita, le cause della loro morte. La memoria di morti violente, in particolare, costringe al confronto con la possibilita' che esse avrebbero potuto essere evitate. Il ricordo del sacrificio di queste vite pone questioni di responsabilita', offre parametri di giudizio sul corso degli eventi e insinua il dubbio che cio' che e' avvenuto avrebbe potuto anche svolgersi diversamente" (p. 7). E segue una citazione di Marcuse: "Ricordare e' un modo di dissociarsi dai fatti come sono"; ricordare e' una forma di lotta contro la violenza. La memoria contro l'oblio, l'umano che si batte contro l'inumano, il vivo contro l'inerte; la memoria come resistenza: su cui hanno scritto pagine indimenticabili Primo Levi ed Elias Canetti.
Citiamo qualche passo (ma tutto il libro si legge d'un fiato ed a procedere per excerpta ci par di straziarlo).
"Ai vivi, nei confronti dei morti, rimane il lascito del dolore, della memoria e dell'elaborazione del lutto. Tradizionalmente, e in particolare nel Meridione, sono innanzitutto le donne che intrattengono una relazione vitale con i morti" (p. 17).
"Il potere mafioso, per definizione, e' totalitario: annullando diritti individuali e collettivi, cancellando la separazione tra pubblico e privato, la mafia controlla e domina attraverso il terrore e la paura. Prima di uccidere i corpi, la strategia mafiosa mira ad uccidere l'anima degli individui. Attraverso l'angoscia la mafia mina l'integrita' della persona, corrode identita' individuali e collettive basate su diritti e doveri ben delimitati e garantiti" (pp. 19-20).
"La presunzione mafiosa di esercitare un potere totale, oltre il presente, investe il passato, la memoria. L'analogia con un regime a carattere totalitario colpisce: la mafia tende a riscrivere la storia, ogniqualvolta l'assetto di potere al suo interno muta. E parimenti la memoria delle vittime viene denigrata, cancellata. l'accanimento della mafia contro lapidi e segni commemorativi ne e' segno, ma svela anche un'intima debolezza dei carnefici" (pp. 24-25).
Cosicche': "Il lavoro del lutto, da elaborazione intima e personale, in questo contesto tende a farsi politico, diventa anche ricostruzione di memoria sociale" (pp. 25-26).
Ma "Cosi' come non dimenticare rappresenta un imperativo etico delle vittime, le istituzioni - insieme a molti cittadini indifferenti - appaiono, al contrario, interessate all'oblio" (p. 27)
"Una pietra miliare del dominio mafioso e dell'ideologia che esso ha prodotto, e' l'omerta', la qualita' del silenzio che s'identifica con la vera "omineita'" (...): la negazione della comunicazione". "E' significativo che la presa di parola - la trasgressione della legge dell'omerta'" da parte delle donne "rappresenti un punto di svolta decisivo". "E' stata una lotta comune di donne contro la mafia che in questi anni ha reso possibile che lo choc della morte violenta si sia potuto trasformare in esperienza. Prendere la parola, vincere riservatezza e pudore - ma anche l'opportunismo dell'ambiente sociale - mobilita le forze di Eros [l'amore] contro Thanatos [la morte]" (pp. 34-35).
Evidenti in questo caldo e denso saggio la meditazione di Hannah Arendt, la riflessione psicoanalitica (riletta anche attraverso gli esiti francofortesi, e quelli piu' militanti: Marcuse), e il lavoro comune col Centro Impastato, ed in particolare le coordinate di Umberto Santino, le ricerche di Anna Puglisi.
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Renate Siebert, Mafia e quotidianita'
Il libro fa parte di una collana divulgativa dal titolo "Due punti", che in volumetti agili ma non meramente giornalistici, propone "un saggio per riflettere" e "un manuale per capire" (non e' questa la sede per discutere dell'efficacia della formula).
Nella misura della collana, il volumetto di Renate Siebert (Mafia e quotidianita', Il Saggiatore, Milano 1996) in 128 pagine offre una serie di riflessioni, di strumenti analitici, di percorsi di approfondimento, in una scrittura tersa, controllata, che convoca il lettore all'attenzione e ad interrogarsi su cio' che lui stesso possa e debba fare.
Il tema, col taglio che ad esso da' l'autrice, e' tuttora dei meno esplorati in questo ambito di ricerche: non che manchino ricerche sociologiche ormai classiche, come (Blok, gli Schneider, ad esempio), ne' mancano ricostruzioni di tipo cronistico e testimoniale (ad esempio Lodato, ma molti altri autori sarebbero da citare, e tra essi Nando dalla Chiesa in alcuni suoi libri finissimi), ed infine vi sono lavori omogenei alla ricerca della Siebert (come quelli condotti - insieme alla Siebert, anche - dal Centro Impastato); eppure questo libriccino introduttivo si raccomanda per chiarezza e semplicita', nel suo genere e' nitido e perspicuo.
Del resto la Siebert dispone di una strumentazione di prim'ordine: la formazione francofortese, l'impegno con e l'analisi dei movimenti di lotta dei colonizzati (ed in particolare la riflessione di Fanon, e la straordinaria lucidita' delle donne della rivoluzione algerina e dell'opposizione all'integralismo), l'esperienza del femminismo e del pensiero delle donne, ed una serie di riferimenti impliciti ma presenti da Hannah Arendt a certe grandi scuole e suggestioni novecentesche fino alle esperienze che una docente dell'Universita' di Calabria non puo' ignorare e che chiameremo per semplificare demartiniane (intendendo cosi' quella prassi scientifica che e' ad un tempo azione politica e scelta di classe, scelta di lotta per il riscatto di chi subisce oppressione accogliendo criticamente il suo punto di vista perche' ermeneuticamente fecondo e condividendo il suo destino ed il suo impegno perche' alla violenza giugulatrice tu devi resistere, e anche da te, dal piu' semplice dei tuoi gesti, dipende difendere e salvare l'umanita' tutta).
3. PER UNA CULTURA DELLA PACE: GIULIANO PONTARA
[Riproponiamo qui (riprendendo una nostra scheda gia' diffusa un anno fa) una serie di stralci e riassunti da vari testi di Giuliano Pontara, uno dei piu' grandi studiosi della nonviolenza.
Giuliano Pontara e' nato a Cles (Trento) nel 1932, antimilitarista, rifiuto' il servizio militare e preferi' emigrare, vivendo e lavorando in Svezia dal 1953; docente di filosofia all'Universita' di Stoccolma, impegnato nella peace research e nei movimenti nonviolenti, tra i massimi studiosi di etica, da anni anima anche l'esperienza dell'Universita' per la pace a Rovereto. Opere di Giuliano Pontara: Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974; Il satyagraha, Movimento Nonviolento, Perugia 1983; Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995; La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica quotidiana, Pratiche, Milano 1998. Ha curato (premettendovi un importante saggio introduttivo) l'antologia di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino (nel 1996 ne e' apparsa una nuova edizione in una collana economica)...]
Da Giuliano Pontara, Nonviolenza (per la critica radicale della violenza)
Elenchiamo alcune ragioni essenziali per cui occorre essere rigidamente contro la violenza. Citiamo da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA.VV., Dizionario di politica, Tea, Torino 1992:
1. il primo argomento "mette in risalto il processo di escalation storica della violenza. Secondo questo argomento, l'uso della violenza (...) ha sempre portato a nuove e piu' vaste forme di violenza in una spirale che ha condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella distruzione dell'intero genere umano";
2. il secondo argomento "mette in risalto le tendenze disumanizzanti e brutalizzanti connesse con la violenza" per cui chi ne fa uso diventa progressivamente sempre piu' insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di vite che provoca;
3. il terzo argomento "concerne il depauperamento del fine cui l'impiego di essa puo' condurre (...). I mezzi violenti corrompono il fine, anche quello piu' buono";
4. il quarto argomento "sottolinea come la violenza organizzata favorisca l'emergere e l'insediamento in posti sempre piu' importanti della societa', di individui e gruppi autoritari (...). L'impiego della violenza organizzata conduce prima o poi sempre al militarismo";
5. il quinto argomento "mette in evidenza il processo per cui le istituzioni necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l'uso organizzato della violenza, tendono a diventare componenti stabili e integrali del movimento o della societa' che ricorre ad essa (...). "La scienza della guerra porta alla dittatura" (Gandhi)".
A questi argomenti ne vorremmo aggiungere altri due:
6. un argomento, per cosi' dire, di tipo epistemologico: siamo contro la violenza perche' siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei nostri giudizi e nelle nostre decisioni, e quindi e' preferibile non esercitare violenza per imporre fini che potremmo successivamente scoprire essere sbagliati;
7. soprattutto siamo contro la violenza perche' il male fatto e' irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati).
Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo decisivo ragionamento: "I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti che ogni condanna della violenza come strumento di lotta politica rischia di diventare un esercizio di sterile moralismo se non e' accompagnata da una seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro proposta dell'alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in base alla duplice tesi a) della sua praticabilita' anche a livello di massa e in situazioni conflittuali acute, e b) della sua efficacia come strumento di lotta" per la realizzazione di una societa' fondata sulla dignita' della persona, il benessere di tutti, la salvaguardia dell'ambiente.
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Da Giuliano Pontara, Gandhismo (definizione del satyagraha)
Di Giuliano Pontara sunteggiamo qui alcuni passaggi essenziali della voce Gandhismo da lui scritta per il Dizionario di politica curato da Bobbio, Matteucci e Pasquino, Utet, Torino, poi Tea, Milano. Nello stesso volume Pontara ha steso altresi' le voci Nonviolenza, Ricerca scientifica sulla pace, Utilitarismo. Segnaliamo che Pontara e' il curatore della fondamentale antologia di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, cui ha premesso una vasta ed approfondita introduzione.
La voce di dizionario di cui qui citeremo e riassumeremo alcuni punti essenziali esordisce ricordando che Gandhi insistette sempre nell'affermare che "non esiste qualcosa come il gandhismo", cosi' rimarcando il carattere aperto e sperimentale delle sue concezioni etiche, sociali e politiche, ed il suo rifiuto di ogni forma di settarismo che si richiamasse al suo nome (come e' noto, non altrimenti Marx affermava di non essere marxista). Gandhi non scrisse alcun trattato sistematico sulla sua concezione della nonviolenza, la sua opera letteraria e' fondamentalmente costituita di migliaia di articoli giornalistici, lettere, appelli, sempre stesi con un fine immediato ed interlocutori specifici; del resto la sua autobiografia conferma questo carattere sperimentale della sua riflessione ed azione, recando fin nel titolo esplicitamente l'espressione esplicativa di Storia dei miei esperimenti con la verita'.
Ovviamente dal complesso dell'opera gandhiana, palesemente asistematica (e Pontara sottolinea una somiglianza in questo con l'opera gramsciana), e' possibile ricavare alcuni elementi teorici originali, persistenti e coerenti che grosso modo possiamo considerare particolarmente caratteristici dell'elaborazione teorica e della proposta pratica gandhiana. Pontara sottolinea particolarmente:
"a) la critica all'industrialismo in quanto tale, e non soltanto alla variante capitalistica di esso;
b) la concezione di uno "stato nonviolento";
c) le idee sull'educazione fondata sulla partecipazione al lavoro produttivo, soprattutto a quello manuale;
d) la sua filosofia dei conflitti di gruppo;
e) la sua concezione dei rapporti tra etica e politica;
f) la sua dottrina del satyagraha come modalita' del tutto particolare della lotta politica".
La parte piu' perspicua del testo e' ovviamente la caratterizzazione della specifica modalita' di lotta nonviolenta che Gandhi definisce satyagraha, "termine coniato da Gandhi che significa, all'incirca, modalita' di lotta caratterizzata dalla fermezza nella verita'. Siffatta modalita' di lotta e' definita da sei principi fondamentali. In tutta brevita' essi sono i seguenti.
1) In una situazione conflittuale non si debbono porre obiettivi incompatibili con la concezione etica che soggiace alla dottrina nonviolenta: "E' impossibile praticare il satyagraha al servizio di una causa ingiusta".
2) In una situazione conflittuale si deve impostare sin dall'inizio la lotta in modo tale da non minacciare l'avversario nei suoi interessi vitali (la vita, l'integrita' fisica e psichica), scegliendo tecniche di lotta deliberatamente volte a minimizzare le sofferenze che il conflitto può comportare per la parte avversaria.
3) In una situazione conflittuale bisogna essere disposti a sobbarcarsi di sacrifici che possono essere anche assai notevoli (...).
4) Il quarto principio del satyagraha prescrive di attenersi in ogni fase del conflitto alla massima obiettivita' e imparzialita', di appellarsi alla ragione cercando di comprendere i motivi e gli argomenti della parte avversaria, di non operare nella clandestinita'.
5) Un requisito fondamentale del satyagraha e' quello di un impegno continuo e costante in un programma costruttivo fondato in parte sulla individuazione di fini sovraordinati, ossia tali che la loro realizzazione e' nell'interesse delle parti in conflitto ed e' possibile soltanto merce' una certa collaborazione tra di esse. Cio' serve a creare quel minimo di comunicazione senza la quale una lotta di tipo satyagraha non e' possibile (...).
6) Un ultimo principio fondamentale della lotta satyagraha e' quello che Gandhi chiamava "la legge di progressione dei mezzi": si puo' ricorrere a forme piu' radicali di lotta nonviolenta soltanto dopo che quelle piu' blande si sono mostrate chiaramente inefficaci.
Gandhi riteneva che i suoi "esperimenti" di lotta satyagraha in Sud Africa e in India avessero dimostrato la validita' delle tre seguenti ipotesi:
a) che con una dovuta preparazione e organizzazione e' possibile portare delle vaste masse a praticare forme di lotta che soddisfano in misura notevole i requisiti del satyagraha;
b) che il metodo satyagraha costituisce una concreta ed efficace alternativa alla violenza armata nella lotta per delle cause giuste;
c) che il satyagraha tende a bloccare, in forza di fattori morali, psicologici e politici, la reazione violenta dell'oppositore, a condurre a soluzioni accettate e costruttive dei conflitti, e di conseguenza ad una riduzione massima della violenza nel mondo".
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Da Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta
Nel secondo capitolo che ha lo stesso titolo dell'intero volume: La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, Giuliano Pontara evidenzia dieci qualita' di quella che definisce la "personalita' nonviolenta" (contrapposta alla "personalita' autoritaria"), qualita' che cosi' elenca e descrive:
1. Il ripudio della violenza (su cui svolge un'analisi molto fine ed articolata che qui non possiamo adeguatamente riassumere ma alla quale rinviamo anche perche' e' assai caratteristica del modo di argomentare dell'autore);
2. La capacita' di identificare la violenza (ovvero di riconoscerla anche laddove si presenti mascherata o cronicizzata; "la capacita' di individuare la violenza a tutti i livelli, da quello personale a quello istituzionale, da quello individuale a quello strutturale, da quello internazionale a quello intergenerazionale. Altrettanto importante e' la capacita' di individuarla in tutte le forme che essa puo' assumere, e non soltanto in quelle piu' appariscenti della violenza armata");
3. La capacita' di empatia (ovvero di identificazione con gli altri e in primo luogo con quelli che soffrono di piu');
4. Il rifiuto dell'autorita' ("una persona nonviolenta ritiene che la responsabilita' per quello che fa non può essere addossata ad altri... fa dunque propria la massima di don Milani: l'obbedienza, in quanto tale, non e' una virtu'");
5. La fiducia negli altri (che si contrappone alla logica militare: "Uno dei principi fondamentali della nonviolenza prescrive di impostare la conduzione di un conflitto in modo tale da fare appello ai lati migliori di coloro che ci si trova di fronte come oppositori, usando tecniche di lotta volte ad ingenerare in un numero sempre maggiore degli individui che costituiscono il gruppo oppositore una crescente fiducia nei confronti del gruppo nonviolento. Si tratta di un continuo tentativo di sostituire la spirale della sfiducia, propria della logica della violenza, con la spirale della fiducia);
6. La capacita' di dialogare, ovvero la disposizione al dialogo (qui Pontara svolge una efficace perorazione in favore del principio fallibilista, di cui riportiamo ampi stralci: "Un assunto che soggiace alla disposizione al dialogo e' l'accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio ci dice che siamo tutti esseri mortali con poteri di conoscenza limitati onde nessuno puo' mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede essere vero, in effetti sia tale: puo' benissimo darsi che sia falso. Il fallibilismo vale in primo luogo nel campo della scienza. Ma vale ugualmente nel campo delle credenze etiche. I nostri giudizi morali possono infatti essere distorti dai nostri piccoli interessi egoistici, o fondati su ipotesi empiriche false o su informazioni incomplete. Possono anche essere fondati su assunti di valore che non abbiamo visitato criticamente o tali per cui se esaminati criticamente saremmo stati disposti ad abbandonare. (...) Il fallibilismo in etica e' profondamente compatibile con l'avere delle profonde convinzioni morali (...). Un individuo fornito di una personalita' nonviolenta... non vorra' escludere a priori la possibilita' di aver lui torto e l'avversario ragione. Per questo egli rifiuta metodi di conduzione dei conflitti che comportano la distruzione dell'avversario (...). Il fallibilismo abbraccia anche le credenze religiose ed essere fallibilista in religione e' pur sempre compatibile con l'avere una profonda fede religiosa (...). L'interiorizzazione del principio del fallibilismo e' dunque uno dei migliori vaccini contro tutte le forme di fanatismo...; e' altresi' fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche e costituisce un grande incentivo alla tolleranza (...). Il fallibilismo vale nei confronti di tutti i giudizi, anche quelli in cui si articola il fallibilismo stesso: non possiamo escludere che la credenza stessa per cui siamo tutti fallibili in effetti sia falsa. Ben poco pero' induce a credere che tale essa sia. Il contrario del fallibilismo è il dogmatismo");
7. La mitezza (che ovviamente si armonizzi con le altre qualita' indicate);
8. Il coraggio;
9. L'abnegazione;
10. La pazienza.
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Da Giuliano Pontara, Etica e generazioni future
Pontara e' autore di un bel libro introduttivo, chiaro ed essenziale, su Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995. Il libro muove dalla consapevolezza che "le possibilita' che l'attuale generazione di adulti e quelle immediatamente successive hanno di influire, nel bene e nel male, e a livello globale, sulle generazioni future, anche su quelle che esisteranno in un futuro remoto, parrebbero essere enormemente maggiori di quelle che ogni altra generazione precedente abbia mai avute. Questo comporta che il problema della nostra responsabilita' nei confronti dei posteri assume un'importanza molto maggiore che non quella che ragionevolmente poteva avere per generazioni precedenti" (p. 6).
Pontara delinea tre possibilita' di incidere sulle generazioni future, anche di un futuro remoto:
"a) e' possibile incidere su quanti individui esisteranno in futuro - con lo zero come limite inferiore, caso che si verificherebbe, ad esempio, in seguito allo scoppio (magari per errore) di una guerra termonucleare che ponesse fine all'umanita';
b) e' possibile incidere su quali individui esisteranno in futuro: cio' non soltanto in seguito agli sviluppi della scienza biomedica e dell'ingegneria genetica, bensi' anche in quanto (e come si vedra' meglio in seguito) le scelte di certe linee di politica energetica, economica, sociale, demografica, militare, ecc., hanno effetti tali per cui nessuno degli individui che esisteranno tre-quattro secoli dopo che una certa linea politica e' stata scelta sarebbe esistito ove fosse stata mandata ad effetto una qualche linea politica alternativa;
c) e' possibile incidere sul tenore e la qualita' della vita di vaste masse di individui che esisteranno in futuro" (p. 15).
Stante questa situazione, si pone il problema della nostra responsabilita' morale verso le generazioni future, che Pontara articola cosi':
"1. Vi sono obblighi o doveri morali di natura generale che soggetti, individuali o collettivi, esistenti in un qualsiasi periodo di tempo hanno nei confronti di generazioni di individui i quali rispetto ad essi vivranno nel futuro? (...)
2. Quali sono piu' precisamente gli obblighi generali cui si soggiace, e possono essi trovare una spiegazione plausibile, vale a dire un fondamento in una teoria etica sostenibile? (...)
3. Quali obblighi piu' specifici si possono dedurre da quelli generali per quanto riguarda la nostra responsabilita' verso le generazioni a noi future? (...)
4. Quali sono le misure educative, sociali, giuridiche, politiche - sia a livello locale sia a livello globale, sia a livello di singoli stati sia a livello internazionale - necessarie al fine di far rispettare gli obblighi morali verso le generazioni future?" (pp. 15-16).
Al termine di una vasta, approfondita e problematica disamina di tutti i nodi considerati, Pontara giunge alla formulazione di un approccio che propone "alcune norme di morale intergenerazionale tra le quali vorrei mettere in rilievo almeno le quattro seguenti:
1. Non fare scelte che abbiano effetti irreversibili, o comunque la cui reversibilita' e' molto difficile ed estremamente costosa;
2. Massimizzare il tenore di vita sostenibile;
3. Salvaguardare la biodiversita';
4. Salvaguardare il patrimonio artistico, scientifico, culturale.
Il rispetto generale di queste norme parrebbe essere condizione necessaria affinche' alle generazioni future siano almeno lasciate aperte opzioni non minori di quelle che hanno le generazioni oggi esistenti" (p. 160).
Il filosofo pone anche il problema delle misure giuridiche e politiche necessarie affinche' queste norme siano rispettate, ed evidenzia come ad esempio la Costituzione italiana "non soltanto non contiene alcun accenno a diritti di generazioni future, ma non contiene nemmeno alcun accenno a obblighi di salvaguardia dell'ambiente" (p. 161); ed esaminando il contesto e le relazioni internazionali evidenzia la necessita' di una svolta profonda.
"Chiudo con due osservazioni che sono ovvie, ma che vale la pena ribadire. La prima e' che bisogna stare in guardia contro l'errore di ritenere che ogni stato, come oggi esiste, abbia obblighi soltanto o particolarmente forti nei confronti delle generazioni future di propri cittadini. Infatti, come la storia, anche piu' recente, ci insegna, gli stati sono istituzioni che nascono, si modificano, spariscono. Non ha quindi molto senso parlare di obblighi che lo stato ha soltanto nei confronti delle generazioni di propri futuri cittadini. Il problema della responsabilita' verso le generazioni future e' un problema globale, non nazionale.
La seconda osservazione che va ribadita e' che una politica responsabile (improntata, tra l'altro, alla osservanza dei dettami delle quattro norme sopra messe in rilievo) nei confronti delle generazioni future e' necessariamente connessa con una politica responsabile nei confronti delle generazioni oggi viventi nei paesi del Terzo mondo.
(...) E' quindi della massima importanza che i rapporti tra Nord e Sud siano radicalmente ridimensionati: di questo ridimensionamento fa certamente parte la cancellazione regolata dell'enorme debito del Terzo mondo che si aggira sull'astronomica somma di 1.400 miliardi di dollari. E' una delle misure necessarie per salvaguardare vitali interessi di generazioni future" (pp. 165-166).
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XIV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 188 del 4 maggio 2013
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