La domenica della nonviolenza. 246



 

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100

Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 246 dell'8 maggio 2011

 

In questo numero:

1. Anna Minazzato: Tina Merlin

2. Alcuni estratti da "Il bello del relativismo" a cura di Elisabetta Ambrosi

3. Francesca Sanzo e Giorgia Vezzoli: Un decalogo per una comunicazione a zero stereotipi

4. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento

 

1. PROFILI. ANNA MINAZZATO: TINA MERLIN

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it

Anna Minazzato "e' nata a Feltre (Bl) il 27 settembre 1982, si e' laureata in Lettere moderne all'Universita' degli Studi di Ferrara con una tesi in storia contemporanea dal titolo L'emancipazione in Veneto nell'eta' contemporanea, in attesa di pubblicazione; master in promozione della cultura di genere e delle pari opportunita'. Vive a Sovramonte (Bl) dove collabora con il quotidiano locale 'Corriere delle Alpi'"]

 

Tina Merlin (Trichiana (Belluno) 1926 - Belluno 1991).

Chi legga La casa sulla Marteniga, l'autobiografia di Clementina (Tina) Merlin, pubblicata postuma nel 1993 e si addentri nella piccola proprieta' di Santa Tecla "a meta' di una larga vallata nel mezzo di un anfiteatro di colline e montagne" (T. Merlin, La casa sulla Marteniga, seconda ristampa, Sommacampagna (Ve), Cierre Edizioni, 2008, p. 9) sa che quel mondo e' cambiato. La guerra ha portato miseria e lutti, orrori per una bambina, piu' tardi adolescente, difficilmente dimenticabili.

Nata a Trichiana, provincia di Belluno, nel 1926, da Cesare, muratore ed emigrante, e Rosa Dal Magro, contadina, Tina Merlin e' la piu' giovane di otto fratelli. E' una bambina sveglia e nel pomeriggio oltre che andare a servizio a casa delle famiglie benestanti del paese svolge alcuni lavori nei campi. "Per 'lavorare' s'intendeva tutto cio' che non riguardava l'interno della casa, il bucato, le pulizie, i pasti. Queste erano occupazioni normali per le donne; 'lavorare' era il resto: pascolare la mucca, barellare il letame dalla concimaia al campo, rastrellare il fieno, zappare, vendemmiare e pestare con i piedi nudi l'uva nei tini" (T. Merlin, op. cit., p. 54).

Ha soltanto dodici anni quando si trasferisce a Milano con la sorella Ida, che gia' conosce quella realta', per lavorare come domestica e bambinaia. "Da piccola ho molto desiderato essere un maschio per venire maggiormente considerata dai miei genitori e dalla gente. Rimuginavo spesso tra me, su queste differenze che ci attribuivano costringendoci a farci sentire, noi ragazze, inferiori ai fratelli" (T. Merlin, op. cit., p. 54). Non ci sono soltanto le ingiustizie e le umiliazioni da parte dei padroni, a Milano cominciano i bombardamenti. E le morti non sono solo tra i soldati. Cosi' Tina fa ritorno a casa.

Quando nell'autunno del 1943 le truppe tedesche occuparono la provincia, Tina Merlin aveva diciassette anni. Le ragioni che la portarono a entrare nella Resistenza furono diverse: l'istintiva coscienza di classe, ad esempio, e, naturalmente, una serie di richiami a principi cristiani con cui e' cresciuta come l'aspirazione alla pace, al lavoro, alla giustizia e a una maggiore dignita' nello Stato. Nel luglio del 1944 segue l'esempio del fratello Toni, che dopo l'8 settembre organizza la resistenza insieme ad altri giovani del paese. Come l'amica Wilma, Tina Merlin e' staffetta partigiana nella brigata VII Alpini e consumera' la propria bicicletta girando da un avamposto all'altro. E' subito dopo la guerra di liberazione che Tina (chiamata Joe nella clandestinita') scopre l'amore con il compagno partigiano Aldo Sirena (Nerone) che sposa nel 1949 e dal quale avra' un figlio, Toni, nel 1951.

Negli stessi anni comincia l'attivita' giornalistica, a dispetto della madre, dopo aver vinto il secondo premio ad un concorso indetto da "l'Unita'". Tanto ama scrivere che esordisce nel 1957 anche come scrittrice traducendo l'esperienza resistenziale in Menica. Negli anni '60 la sua penna giornalistica si lega indissolubilmente alla tragedia del Vajont. Per i suoi articoli di denuncia della situazione pericolosa connessa all'avanzare dei lavori di costruzione della diga gia' nel 1959 viene processata e poi assolta dal Tribunale di Milano per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico". La firma giornalistica di Tina Merlin fa il giro del mondo. Tenta di impedire il consumarsi della tragedia, come puo' e sa, ma lo sforzo e' vano. Il suo libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, pubblicato finalmente nel 1983 dopo aver cercato per anni un editore interessato, ricostruisce l'intera vicenda.

Dal 1964 al 1970 (con un anno d'interruzione) e' eletta consigliere provinciale per il Pci. L'attivita' politica era cominciata subito dopo la fine della guerra quando, iscritta al Pci, comincio' la propaganda tra le ragazze. Fin da giovane sostenitrice della parita' tra uomo e donna, Tina Merlin presta la propria attivita' anche nel gruppo Udi. "Il mondo che sognavo da bambina, quand'ero a servire, mi s'e' aperto, esiste, io esisto col mondo".

Dopo una breve esperienza nel 1967 in Ungheria, a Radio Budapest in lingua italiana, la giornalista riprende la collaborazione con "l'Unita'" da Vicenza. Nel '71 si trasferisce alla redazione di Milano e, da qui, nel 1974 a Venezia dove dirige fino al 1982 le pagine regionali del Veneto. Durante l'attivita' giornalistica collabora a varie riviste, tra cui "Patria Indipendente", "Vie Nuove" e "Protagonisti", la rivista dell'Istituto Storico Bellunese della Resistenza, del quale e' stata socia fondatrice nel 1965 e per lungo tempo membro del direttivo.

Nel 1992, poco dopo la sua scomparsa, e' stata fondata l'associazione culturale che ne porta il nome e che vuole continuare la ricerca e l'impegno di Tina Merlin sui temi dei diritti civili, della giustizia sociale e della condizione femminile.

Nel 2004 e' stata pubblicata una raccolta di articoli giornalistici dal titolo La rabbia e la speranza.

Fonti, risorse bibliografiche, siti: T. Sirena (a cura di), La rabbia e la speranza. La montagna, l'emigrazione e il Vajont, Sommacampagna (Vr), Cierre Edizioni 2004; M. T. Sega (a cura di), Tina Merlin: partigiana, giornalista, scrittrice, Portogruaro, Nuova Dimensione 2005. Sito dell'associazione culturale Tina Merlin: www.tinamerlin.it

 

2. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "IL BELLO DEL RELATIVISMO" A CURA DI ELISABETTA AMBROSI

[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dall'introduzione del libro di Elisabetta Ambrosi (a cura di), Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, Marsilio, Venezia, 2005, I libri di Reset (con testi di Maurizio Ferraris, Ingrid Salvatore, Alessandro Ferrara, Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti, Salvatore Veca, Stefano Petrucciani, Enzo Di Nuoscio, Richard Rorty, Franca D'Agostini, Martha C. Nussbaum, Judith Butler, Roberta De Monticelli).

Elisabetta Ambrosi (1975) e' una giornalista romana; dopo una laurea e un dottorato in Filosofia politica, ha lavorato a lungo come caporedattrice della rivista "Reset"; ha scritto per "La Repubblica", "L'Unita'", "Il Riformista", "A" e attualmente collabora con "Il Fatto", "Europa", "Italianieuropei", "Vanity Fair". Tra le opere di Elisabetta Ambrosi: (a cura di), Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, Marsilio, 2005; Non e' un paese per giovani. L'anomalia italiana: una generazione senza voce, Marsilio, 2009; Inconscio Ladro! Malefatte degli psicanalisti, La Lepre, 2010]

 

Da pagina 7

Introduzione. La filosofia dopo l'11 settembre, di Elisabetta Ambrosi

"Il post-modernismo e' morto, definitivamente distrutto dopo anni di agonia a causa delle ferite mortali ricevute l'11 settembre 2001. In quel giorno, il 'mondo reale' ha messo il suo segno sulla coscienza collettiva dell'Occidente. Ha dimostrato cio' che era stato precedentemente argomentato dai critici del post-modernismo: che negare l'esistenza di una realta' oggettiva e celebrare quella negazione e' politicamente pericoloso e intellettualmente infingardo".

Cosi' scriveva, nel settembre 2002, Julian Baggini, il giovane direttore della rivista "Philosopher's magazine". Su questa provocazione, che ipotizzerebbe un legame tra un evento scioccante di portata globale e la crisi definitiva del pensiero debole, "Reset" ha aperto una discussione a cui hanno preso parte significative voci del dibattito filosofico italiano e anglo-americano; e lo ha fatto non tanto per prendere tout court le difese di un'argomentazione che appare agli occhi degli addetti ai lavori piuttosto sbrigativa, ne' per rispolverare vecchie discussioni tra moderni e post-moderni, al centro del dibattito filosofico italiano degli anni Ottanta e ben prima nel contesto francese. Diverse sono le motivazioni che ci hanno spinto a far circolare una simile tesi: in primo luogo, il tentativo di capire se la provocazione un po' rozza che stabiliva un nesso tra 11 settembre e fine del debolismo racchiudesse almeno un'intuizione su cui valesse la pena riflettere; questa intuizione e' a parer nostro riscontrabile nell'idea secondo cui nel mondo globalizzato e attraversato da nuove tensioni e conflitti ci sia piu' utile una filosofia normativa, seppure non in senso forte, che non un approccio scettico, che rinunci a dire in che modo la realta' in cui viviamo potrebbe essere migliore.

La seconda ragione, legata alla prima, ma di segno opposto, e' invece costituita dal desiderio di analizzare le critiche al relativismo post-modernista in maniera attenta, per denunciarne la parziale infondatezza teorica: cio' infatti ci ha consentito indirettamente di rispondere a una serie di polemiche nostrane, non certo piu' raffinate di quelle di Baggini, che vedono nel relativismo la causa della decadenza dei nostri tempi e si fanno fautrici di una strana commistione di conservatorismo politico e realismo cristianeggiante, assai poco attrezzato filosoficamente e pure tanto in voga tra i politici di casa nostra, in cerca di argomentazioni "pret-a'-porter" con cui ammantare operazioni strumentali volte spesso al consenso del mondo cattolico.

Il volume e' diviso in cinque sezioni: nella prima, sono raggruppate le posizioni piu' critiche verso le filosofie deboliste; nella seconda, piu' "popolata", prendono la parola gli autori che difendono le intuizioni centrali del pensiero post-moderno; la terza e' dedicata, a partire da un saggio di Rorty, al tema specifico del rapporto tra filosofia e politica, che costituisce una declinazione del tema della "sostenibilita'" delle filosofie deboli oggi; nella quarta, appaiono due interventi di segno contrario di due tra le piu' note filosofe statunitensi, Martha C. Nussbaum e Judith Butler: l'una, seppure in maniera assai peculiare, "paladina" dell'universalismo, la seconda attestata su posizioni foucaultiane e decostruttiviste; nella quinta, infine, troverete un intervento della filosofa Roberta De Monticelli con il quale abbiamo deciso di concludere il volume. Qui l'autrice ricorda la novella di Boccaccio su Nathan il saggio e i tre anelli, che a parer nostro contiene una delle immagini piu' felicemente in grado di esprimere come si possa mantenere la passione nelle proprie convinzioni, rispettando al tempo stesso quelle, diverse, altrui. [...]

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La discussione pubblica sul relativismo

Nelle polemiche sul rapporto tra filosofie deboli e terrorismo, il punto centrale e' comunque, in maniera non sorprendente, quello - antico - del rapporto tra verita' e interpretazione, riletto sullo sfondo dei nuovi scenari mondiali. Le diverse posizioni sono ormai note da tempo: da una parte, coloro che si inscrivono nella tradizione post-moderna, o, come vedremo, semplicemente ermeneutica, rivendicano l'impossibilita' di isolare una realta' "esterna" e oggettiva, valorialmente neutra, e nella difesa del carattere situato e relativo di ogni verita' trovano l'argomentazione per criticare ogni forma di crociata culturale.

Dall'altra, i realisti, o forse sarebbe piu' corretto dire gli "oggettivisti", o ancora meglio, "naturalisti", se usiamo la celebre immagine di Rorty della filosofia come specchio della natura, si appellano a una realta' che sarebbe non solo indipendente dalle nostre interpretazioni ma che anzi costituirebbe il criterio di verita' attraverso cui giudicare la correttezza e la bonta' di azioni individuali e collettive.

Di questa antica disputa, sulla quale molto, forse fin troppo, si e' gia' detto, esiste anzitutto oggi una lettura tutta politica, contingente. Si tratta di una battaglia strumentale, legata ad un preciso momento della scena politica che ben poco ha a che fare con le riflessioni filosofiche. La descrive efficacemente Ingrid Salvatore in apertura del suo articolo: "E' da un po' che circola la tesi secondo cui - trovandoci di fronte a una sfida che mette in discussione i fondamenti stessi del nostro stile di vita liberale - non possiamo piu' permetterci alcun lusso teorico. Che si ponga fine, dunque, alle incertezze sulla Ragione, alla tolleranza di coloro che sono con noi intolleranti, alle mollezze sul pluralismo, alla proliferazione di identita' che sfidano la compattezza dei nostri valori: religiose, sessuali, estetiche. Non ci possiamo piu' permettere questa decadenza".

Il sentimento di impasse che deriva da questo tipo di argomentazione e' ben spiegato da Rovatti nell'intervento che pubblichiamo, in cui il filosofo triestino denuncia come la stigmatizzazione del relativismo e l'esaltazione di un pensiero del fondamento "ci facciano piu' che altro girare a vuoto e ci spostino all'indietro, in una scena gia' molto usata, come se nulla fosse accaduto in filosofia e nel pensiero in generale durante gli ultimi due decenni". In realta', prosegue Rovatti, "forze, per dir cosi', allo stato puro, bloccano con tutta evidenza la possibilita' di comprendere le cose. Le battaglie per il realismo o per le ontologie oggettive sono chiaramente indizi di un grande disagio e anche di un certo smarrimento. Basta un minimo di criticita' debole per rendersi conto che sono battaglie reattive". [...]

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Post-modernista, una caricatura troppo semplice?

Lasciando in secondo piano la polemica politica, e' possibile rivolgersi alle critiche piu' strettamente filosofiche rivolte al pensiero debole, che sono di due tipi, l'una legata all'altra. La prima riguarda il relativismo paralizzante delle filosofie di derivazione post-modernista, che scaturisce dalla rinuncia all'idea di verita' che il rifiuto di una qualche forma di fondazione normativa porterebbe con se'. La seconda ha a che fare con le conseguenze di tale rinuncia nello spazio pubblico, che genererebbe l'impossibilita' di una critica sociale e politica e pertanto la visualizzazione di un mondo migliore, idea regolativa attraverso cui migliorare l'esistente.

Il relativismo, dunque, appare come attributo negativo del pensiero post-moderno (anche se, come vedremo, quest'ultimo non sta esattamente al realismo naturalista come il relativismo sta all'universalismo). "Fuori di metafore sataniche, una volta che si e' detto che tutto, ma proprio tutto, compresa la luna e le stelle, e' relativo, frutto di volonta' di potenza, che la ragione e' violenta e la filosofia nel migliore dei casi futile, allora il filosofo post-modernista non sa proprio piu' cosa fare o, per restare in tema, non sa a che santo votarsi", scrive Maurizio Ferraris nell'intervento qui pubblicato.

Altrettanto caricaturale e' la descrizione che del relativista fa, nel volumetto Contro il relativismo, Giovanni Jervis, che tende a presentare il relativista come uno scettico radicale, fautore di un grottesco antirealismo, contrario ad emettere qualsiasi giudizio di valore sulle culture, sofisticato parolaio, svalutatore di ogni statistica ed esperimento, infine detrattore di "tutto cio' che si presenta con pretese di oggettivita' e universalita'"; al contrario, il realista empirista viene descritto da Jervis come un individuo di buon senso, convinto che alcune societa' siano migliori di altre, per cui - aggiunge l'autore in maniera un poco curiosa - "ritiene che il liberalismo in economia, l'indipendenza della magistratura, la democrazia parlamentare, una netta separazione fra lo Stato e le Chiese e la promozione delle scienze garantiscano, nell'insieme, assetti sociali superiori a tutti gli altri finora escogitati dall'uomo" (come e' facile vedere, occorrerebbe anche intendersi sui termini. In effetti, ciascuno tende a dipingere il relativista e il suo contrario a seconda delle proprie convinzioni!).

L'immagine caricaturale del relativista non e' tuttavia forse di quelle che piu' aiutano alla comprensione delle reali opposizioni in campo. Leggendo gli interventi di Ferrara, Petrucciani, D'Agostini e altri, e' facile vedere come l'ironico sostenitore di una incommensurabilita' radicale venga comunque stigmatizzato perche' di fatto considerato una figura concettualmente ed esistenzialmente impossibile. Ha scritto in proposito Seyla Benhabib, la quale mette pure in guardia i fautori della commensurabilita' totale: "Quelli di incommensurabilita' e intraducibilita' radicale sono concetti incoerenti, perche' per poter individuare un modello di pensiero, un linguaggio - e, si potrebbe aggiungere, una cultura - in quanto complessi e significanti sistemi umani di azione e significazione, quali in realta' sono, occorre prima di tutto che si sia almeno riconosciuto che concetti, parole, rituali e simboli di sistemi diversi hanno significati e riferimenti che e' possibile selezionare e descrivere in modo intelligibile".

Le fa eco Di Nuoscio, che nell'intervento qui pubblicato sostiene che "parlare di linguaggi intraducibili e' un po' come parlare di colori invisibili".

Contro una immagine grottesca del relativista si scaglia anche Gianni Vattimo, che nei suoi volumi ha spesso ricordato come l'ermeneutica, per non rischiare di essere "accettabile, urbana, innocua", ma anche soprattutto per non riproporsi come una "metafisica" delle culture, debba riconoscersi essa stessa radicalmente storica e contingente: "Il passo ulteriore che si tratta di compiere e' quello di domandarsi se tale metateoria non debba riconoscere piu' radicalmente la propria storicita', il proprio statuto di interpretazione, eliminando l'ultimo equivoco metafisico che la minaccia e che tende a farne una pura filosofia relativistica della molteplicita' delle culture". Nelle parole del filosofo Giacomo Marramao, occorre evitare di sostituire "alla metafisica dell'Uno quella del Molteplice".

Altrettanto duro con un'immagine paradossale del relativismo e' anche un post-modernista sui generis come Massimo Cacciari che - in un'intervista rilasciata a "la Repubblica" nel giugno 2005 - dava un'accezione inedita e suggestiva del termine: "Relativismo non vuol dire di per se' essere indifferente ai valori. Il relativismo non ha nessun significato di semplice equivalenza o equidistanza rispetto alle diverse posizioni. Relativismo vuol dire che tutte le diverse posizioni stanno in relazione, [...] che i valori sono tali soltanto nella misura in cui si riconoscono in relazione". E aggiungeva, riferendosi alle critiche provenienti dalla Chiesa cattolica: "Fin tanto che si parlera' della cultura contemporanea in questa chiave relativistica la Chiesa si condanna a non comprendere l'essenza alta, anche nobile, certamente tragica, della cultura contemporanea". [...]

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Le ragioni dell'ermeneutica

Queste riflessioni ci permettono di arrivare all'aspetto centrale della discussione del volume, che scaturisce dalla riflessione sul relativismo. Infatti, oltre a un problema di "tono" (ironico), il vero punto debole degli attacchi ai risvolti relativisti dell'ermeneutica debole consiste nel fatto che talvolta i loro critici dimenticano, piu' o meno volutamente, che la tesi relativistica non e' che una delle conseguenze di un paradigma teorico piu' ampio, quello ermeneutico, definibile secondo Vattimo come "la filosofia che si sviluppa lungo l'asse Heidegger-Gadamer".

Nelle riflessioni ermeneutiche di Heidegger (almeno dell'Heidegger "di sinistra", come lo definisce Vattimo), Gadamer, Wittgenstein, Pareyson, Ricoeur, il relativismo - mai assoluto perche', come gia' detto, un tale relativismo a detta di tutti si auto-confuterebbe - appare soprattutto come il risultato di una analitica dell'esistenza umana, da cui secondariamente scaturisce la tesi sulla natura interpretativa e opaca della verita'. Questa analitica, di cui il paradigma si trova in Essere e tempo di Heidegger, rivendica la tesi per cui "la constatazione della secondarieta' della verita' come corrispondenza" cosi' come il "riconoscimento [...] della finitezza - e cioe' storicita', eventualita' - della verita' primaria" sono corollari del fatto che "il soggetto non e' il portatore dell'apriori kantiano, ma l'erede di un linguaggio storico-finito che rende possibile e condiziona il suo accesso a se stesso e al mondo". Come sottolinea con forza Zygmunt Bauman, "data la struttura originaria dell'essere-insieme umano, una morale non ambivalente e' impossibile sul piano esistenziale".

In questa prospettiva, la rivendicazione del pluralismo interpretativo appare non come un pregiudizio anti-scientifico (che pure ha caratterizzato alcuni autori del filone ermeneutico) ne' come un vezzo immotivato, quanto come una conseguenza non aggirabile di una descrizione dell'esistenza. Quest'ultima, "all'ideale di scientificita' inteso come giustificazione ultima, oppone l'esperienza prima di appartenenza del soggetto conoscente, agente e sofferente, ad un mondo, di cui prova la presenza in primo luogo in maniera passiva e recettiva". E, parallelamente, "all'esigenza husserliana del ritorno all'intuizione, oppone la necessita' per ogni comprensione di essere mediata da una interpretazione che ne esibisce la insormontabile plurivocita'".

A loro volta, il carattere intrinsecamente linguistico, e dunque storico, di ogni asserzione, l'impossibilita' di fornire una dimostrazione conclusiva delle teorie filosofiche (di cui si continua a difendere, seppure in forme nuove, la diversita' rispetto alle verita' scientifiche), la fuoriuscita da logiche ideologiche o da filosofie della storia deterministiche, l'accettazione del ruolo della contingenza nella vita morale, sono tutti elementi che appaiono agli occhi degli autori della seconda parte del volume come un'eredita' filosofica complessa, che nasce da una riflessione sulla crisi delle certezze metafisiche, epistemologiche ed etiche che ha origine tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

Questa eredita' fa si' che, come sottolinea Petrucciani, il post-modernismo sia, volenti o nolenti, tuttora "in salute" perche' "viviamo ancora in un mondo che potremmo definire post-nietzschiano", per uscire dal quale occorrono operazioni filosofiche piu' complesse di quelle messe in atto attraverso facili caricature di Vattimo, Rorty o Lyotard. La vera posta in gioco e' un'altra, ed e' illustrata in un efficace crescendo retorico da Alessandro Ferrara: "Avete voi un modo per affermare, contro Wittgenstein, che possiamo pensare il mondo, con un qualche grado di differenziazione e non solo con reazioni a stimoli elementari, fuori dai quadri semantici di un linguaggio? Avete voi modo di riaffermare, contro Wittgenstein, che stabilire se una regola sia stata seguita e' indipendente dal riferirsi a una prassi a sua volta inclusa in una forma di vita? Avete voi modo, contro Quine, di ri-tracciare con precisione la linea che separa cio' che e' vero in virtu' di uno stato del mondo e cio' che e' vero in virtu' del significato dei termini? Avete voi modo, contro Weber, di negare che ogni operazione conoscitiva comporti un momento di selezione in cui si isola cio' che riteniamo importante conoscere in un oggetto, e che tale attribuzione di importanza conoscitiva dipende da valori spesso rivali non riconducibili a una gerarchia unica e incontestabile? Non avete risposta esauriente e conclusiva a queste domande? E allora l'orizzonte post-moderno e' ancora tutto davanti a voi, insuperato". [...]

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Politica, basta la decostruzione del potere?

Prima di arrivare alla conclusione, e' opportuno introdurre una seconda declinazione della critica sul rapporto fondazione e normativita' nel pensiero debole, spiegata in maniera ironica da Maurizio Ferraris nel suo intervento: "La tolleranza non basta, ci vuole la realta', anche per i filosofi, e la fuga nello spirito, come sempre avviene, e' il ripiego di filosofi magari anche grandi (Plotino lo era), ma rassegnati a stare sotto il tacco di qualche grande potere imperiale".

In altre parole, questa critica ammette che la ricerca della verita' possa anche apparire come sofferta e mai definita ricerca interiore, ma sottolinea come tale immagine della ricerca filosofica debba restare confinata al piano privato, perche' l'urgenza dei problemi scaturiti dalla convivenza umana e dalle diversita' culturali richiede invece un universalismo che non receda ne' transiga, ad esempio, sulla difesa dei diritti umani. In questa prospettiva, il relativismo debole viene accusato di essere fiancheggiatore delle tirannie, poiche' privo di un bagaglio teorico-normativo per criticare le violazioni dei diritti umani, e la tolleranza di essere un biglietto da visita delle democrazie liberali insufficiente e, sovente, comodo nascondiglio ad un inattivismo colpevole.

Si tratta certamente dell'accusa piu' ricorrente nel dibattito pubblico odierno, che nel rifiuto di argomentare un dover essere forte da parte delle filosofie post-moderne associa una supina accettazione delle pratiche e delle modalita' di governo esistenti, anche le piu' efferate o in cui fioriscono attivita' terroristiche. "Ogni atteggiamento intellettuale 'relativistico' o 'post' viene considerato un punto debole nella battaglia contro il terrorismo, se non addirittura suo complice", scrive la filosofa statunitense Judith Butler.

Per rispondere all'accusa che associa debolismo e difesa dell'autoritarismo, gli autori di provenienza ermeneutica hanno, per la verita', una significativa cartuccia a disposizione: esse risiede, com'e' noto, soprattutto nell'argomentazione che assegna alla rivendicazione del carattere interpretativo-relativo di ogni verita' non solo una valenza di tipo teorico, ma anche e soprattutto etico-pratico. Lo spiega con chiarezza Vattimo: "Che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni (Nietzsche) non e' una tesi descrittivo-metafisica che pretenda di essere piu' vera; e' solo, a propria volta, una interpretazione che si raccomanda come piu' ragionevole, in fondo piu' per motivi etici che con ragioni descrittive". La difesa del carattere ermeneutico della verita' ha conseguenze politiche cruciali, e certamente non in direzione della conservazione, nella misura in cui porta con se' una critica costante ad ogni forma di autoritarismo derivante dal connubio, analizzato con chiarezza da Foucault, tra sapere e potere; connubio che consente a chi rivendica il possesso di un'oggettivita' ultima di auspicare misure paternalistico-coercitive per convincere chi non condivide il carattere oggettivo di quella verita'.

Inoltre, proprio l'idea debolista del confronto, del negoziato, del dialogo tra posizioni diverse e' quella che piu' sembrerebbe avvicinarsi ai principi strutturali della democrazia, piuttosto che a forme di governo tiranniche, come ricorda sempre Vattimo: "Si tratta di ri-fondare, nei limiti e con i mezzi a disposizione, e in modi da non contraddire allo scopo finale, tutte le regole della vita collettiva sul principio della negoziazione e del consenso".

Il pensiero debole, sottolinea a sua volta Rovatti, presuppone un'attivita' di continuo indebolimento dell'alleanza tra verita' e potere, che implica una continua vigilanza e che possiede un carattere emancipativo forte. In questo percorso, ci ricorda Rovatti, Derrida puo' essere un utile alleato: "Alleandosi con Derrida qualunque pratica indebolente del pensiero guadagna un prezioso tratto decostruttivo con cui si possono trivellare le metafisiche e scoprire la trama di paradossi in cui siamo e che abbiamo il compito di portare dalla nostra parte". [...]

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Veri dilemmi e nuovi percorsi

Ed e' in conclusione, allora, che arriviamo a focalizzare qual e' il vero ambito problematico che impegna la filosofia da qualche decennio a questa parte, e che le attuali dispute politiche sul relativismo dimenticano. La situazione complessiva viene illustrata da Alessandro Ferrara in un libro di qualche anno fa, in cui l'autore, parlando della nostra situazione come di quella di una "carovana ferma in mezzo ad un guado", ricorda come essa assomigli "al periodo tra il Rinascimento e l'Illuminismo, quando la concezione ontologica classica della validita' era gia' screditata ma non esisteva la consapevolezza compiuta dell'operare in un nuovo paradigma. [...] Le sponde sicure della concezione primo-moderna della validita', che la collegava alla nozione di soggettivita' autonoma e razionale, sono ormai alle nostre spalle, ma non siamo ancora approdati all'altra sponda, dove ci attende un nuovo modo di giustificare la validita' di norme e affermazioni". Al tempo stesso, ricorda Ferrara, occorre evitare le seduzioni di coloro che vorrebbero farci tornare indietro verso la sponda della ragione "formato Large", coloro secondo cui non avremmo mai dovuto abbandonare "le grandi pianure del Logos".

In questa prospettiva, la sfida e' quella di mostrare come le riflessioni teoriche uscite dal paradigma moderno non solo siano coerentemente coniugabili con una forma di liberalismo tollerante e aperto alle diversita', ma sappiano anche argomentare e difendere una filosofia politica intransigente sulla difesa illuministica dei diritti umani, capace di garantire la convivenza politica pacifica a livello mondiale e infine - valore oggi negletto piu' di altri - di costruire societa' piu' giuste ("Esiste un modo di concepire cio' che intendiamo per giustizia che sia coerente con le intuizioni pluraliste collegate alla svolta linguistica e che tuttavia continui ad essere caratterizzato da quella portata universalistica che di solito associamo alla giustizia?").

Cosi', garantire universalmente diritti umani (liberta') e pari opportunita' (giustizia) per ogni individuo, in un'epoca post-metafisica, appaiono le due grandi questioni su cui la filosofia contemporanea si interroga, singolarmente su ciascuna, come sul loro legame. E si tratta, non a caso, anche delle due grandi questioni sullo sfondo delle quali campeggia la figura del filosofo statunitense John Rawls. E' con le sue parole allora che possiamo esprimere il dilemma centrale con cui ci tocca confrontarci: "Come e' possibile che esista e duri nel tempo una societa' stabile e giusta di cittadini liberi e uguali e profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili, benche' ragionevoli?".

E' questo, certamente, il perimetro concettuale, problematico, all'interno del quale si muovono le posizioni del dibattito filosofico contemporaneo. Una versione simile del dilemma e' espressa efficacemente da Seyla Benhabib, la quale si chiede come si possa "separare l'universalismo giuridico dall'essenzialismo, nel tentativo di dimostrare come l'universalismo, al pari della giustizia, possa essere politico senza essere metafisico".

Le risposte a questi interrogativi, molti dei quali proprio nelle riflessioni rawlsiane trovano una via d'uscita, sono tante, ed e' impossibile richiamarle tutte. [...]

Coniugare finitezza e normativita', come gia' sottolineato in precedenza, e' anche il tentativo al centro della riflessione di Salvatore Veca, il quale esplicitamente ammette che "il riconoscimento della contingenza va anche insieme all'inevitabilita' di certi impegni". Per Veca la convergenza tra visioni diverse del mondo e' possibile in virtu' del fatto che si rinuncia a una esplicita visione comune del bene, focalizzandosi sulla rimozione di cio' che e' male, sulla cui definizione l'accordo e' piu' agevolmente raggiungibile.

Sul piano politico, questo tentativo si traduce nel tenere insieme realismo politico e prospettiva cosmopolitica: "Sostengo che il realismo politico ha l'importante funzione intellettuale di fissare i vincoli, entro cui sono per noi via via accessibili mondi possibili. Non prendere sul serio tali vincoli sarebbe solo segno di irresponsabilita' intellettuale". Cosi', riconoscere che l'eredita' illuministica e' contingente non significa rifiutarne la validita'. Il nucleo dell'Illuminismo dovrebbe valere per "un noi che includa chiunque, quale che sia la contingente vicenda che e' alle sue spalle, quali che siano la sua immagine di se' e il suo autoritratto, quali che siano le migrazioni di idee che modellano contingentemente il suo sguardo sul mondo. E' questa risposta che chiama in causa l'impegno all'universalismo o, se si vuole, al cosmopolitismo della Lumiere, in tempi tanto mutati e difficili".

Rilanciare l'universalismo illuminista, che si rivolge alla rimozione del male, all'interno di una visione di razionalita' debole e di riconoscimento della contingenza, come possibile strada da percorrere? Oppure riproporre una eudaimonia universalistica post-metafisica, sulla scia della teoria delle capacita' di Nussbaum e Sen? Come gia' detto, le risposte sono molteplici e in questo libro abbiamo tentato di tracciarne lo sfondo complessivo, senza entrare nel merito delle singole risposte.

Ma questo volume sara' stato tuttavia di una certa utilita' nella misura in cui avra' contribuito a indebolire vecchie e inutili dicotomie, come quella tra relativisti e universalisti, moderni e post-moderni, mostrando come le contrapposizioni iperboliche che il dibattito politico, spesso ideologico e riduttivista, ci presenta, si attenuino nella profondita' dell'analisi filosofica.

 

3. RIFLESSIONE. FRANCESCA SANZO E GIORGIA VEZZOLI: UN DECALOGO PER UNA COMUNICAZIONE A ZERO STEREOTIPI

[Dal sito www.zerostereotipi.it

Francesca Sanzo "dal 2001 si occupa di web. Ha fatto gavetta come "Accatiemmellista" (html e css), si e' occupata di accessibilita' e usabilita' dei siti web istituzionali e di redazione contenuti e da 5 anni e' blogger. Ha scritto uno spettacolo teatrale: La rivincita del calzino spaiato, pensieri di una mamma post-moderna (La rivincita del calzino spaiato) che sta facendo il giro del Nord Italia. Ha fondato l'Associazione di promozione sociale Donne Pensanti per promuovere modelli non stereotipati di femminile e ha creato una community molto attiva. Con Donne Pensanti ha vinto il Premio Buone Prassi per Donna e' Web 2011. Grazie alla credibilita' acquisita con i suoi progetti personali (Panzallaria, Donne Pensanti) ha cominciato a lavorare come Professional Blogger e Digital P.R. e collabora con Agenzie di comunicazione e Magazine. Gestisce community, blog aziendali e progetti web. Scrive anche favole e racconti e ha appena dato vita a Fabularia, favole per aria che fa parte del Network Crea-attivo di Panzallaria. Insieme a Studio Lost con cui collabora, si occupa del gruppo Sana e robusta comunicazione su Facebook per promuovere un approccio di qualita' alla comunicazione on line di cui i digest sono disponibili sul sito del progetto".

Giorgia Vezzoli "si occupa di comunicazione dal 1999. Ha lavorato per alcune importanti agenzie di relazioni pubbliche a Milano in qualita' di pr account e copywriter dove si e' occupata della comunicazione di multinazionali e di grandi imprese, in particolare dei loro progetti sul web. Ha poi curato la comunicazione sociale di associazioni (Associazione Finanza Etica, Botteghe del Mondo), campagne (Onu Millennium Campaign, Forum mondiale dell'acqua), comuni (Roma) e universita' (Firenze) insieme ad un'agenzia di Firenze. Attualmente e' consulente di comunicazione indipendente. Collabora con agenzie e clienti in particolare per quanto riguarda le strategie di comunicazione digitale. E' copy/ghost/seo writer, web editor e pr strategist, specializzata sia nelle digital relations che nella comunicazione di tematiche sostenibili. Da 2 anni gestisce il blog sulla comunicazione di genere Vita da streghe, uno dei "nodi" del movimento delle donne in Rete. Scrive poesie: e' autrice per la casa editrice Il Foglio di Livorno ed e' l'ideatrice del progetto on line Poetry Attack"]

 

Decalogo per una comunicazione a zero stereotipi

1. La donna e' una persona, non un oggetto. Se stai usando donne nella tua comunicazione, chiediti se la loro immagine potrebbe indurre a pensare il contrario.

2. Non basta "coprire" le donne per essere gender friendly. Occorre prima di tutto non svilirle con atteggiamenti, parole e ogni altra forma di comunicazione che le squalifichino o ne rimandino una visione stereotipata, svilente e maschilista.

3. Il corpo delle donne, anche scoperto, non e' mai volgare e non e' qualcosa di cui vergognarsi o da censurare. Semmai, lo e' la sua mercificazione e il modo in cui esso viene usato. Sfruttare il corpo di una donna (o peggio, di una sua parte) e usarlo come specchietto per le allodole per vendere e' sempre discutibile.

4. Una comunicazione dalla parte delle donne dovrebbe proporre modelli estetici che non siano eccessivamente finti e irraggiungibili, ma che tengano conto della conformazione naturale delle donne e, ove possibile, della loro diversita'. Far sentire le donne inadeguate perche' non corrispondenti a un modello unico di bellezza (giovane, magra, provocante) non e' esattamente un modo per stare dalla loro parte.

5. Evita gli stereotipi: la donna-oggetto sessuale e' solo uno dei tanti stereotipi che creano pregiudizi. Anche la donna-mamma-chioccia-angelo del focolare o la donna in carriera fredda e scontrosa, ad esempio, lo sono. Anche per le bambine e i prodotti a loro destinati e' lo stesso (la bimba che pensa alla bellezza, che e' gia' una mammina casalinga o - cosa sempre piu' inquietante - che viene messa in pose ammiccanti, piuttosto che il bimbo dedito all'avventura o alla guerra sono uno dei tanti esempi). Evita di usare gli stereotipi sia femminili che maschili nella tua comunicazione, a meno che l'intento di critica nei loro confronti non sia piu' che evidente, oppure affida questi ruoli a entrambe i sessi.

6. Degradare gli uomini al posto delle (o insieme alle) donne non significa essere gender friendly, ma promuovere un finto paritarismo al ribasso che svilisce tutti, di cui le donne non hanno bisogno.

7. La sensualita' e la sessualita' sono cose bellissime, ma c'entrano con il prodotto e servizio che stai comunicando?

8. Ok, la sensualita' c'entra con cio' che stai comunicando. Ricordati pero' che le donne non sono persone a disposizione di chi le guarda. Non indurre i destinatari della tua comunicazione a pensare che lo siano, dipingendole con atteggiamenti di eccessiva disponibilita' sessuale.

9. Quando la comunicazione propone un'immagine d'amore (in tutte le sue forme) e le persone come soggetti e non come oggetti non significa che sia volgare. Ma se la tua comunicazione e' rivolta agli adulti, assicurati che i circuiti nei quali la diffonderai non giungano agli sguardi dei piu' piccoli.

10. Sii coerente. Essere dalla parte delle donne vuol dire ragionare e comportarsi in termini paritari. E' inutile essere gender friendly nella comunicazione se non lo si e' nella vita di tutti i giorni, nel proprio lavoro e nelle proprie relazioni. Il rischio e' l'ipocrisia.

 

4. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO

[Riproponiamo il seguente appello]

 

Giova ripetere le cose che e' giusto fare.

Tra le cose sicuramente ragionevoli e buone che una persona onesta che paga le tasse in Italia puo' fare, c'e' la scelta di destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.

"Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli". Cosi' recita la "carta programmatica" del movimento fondato da Aldo Capitini.

Sostenere il Movimento Nonviolento e' un modo semplice e chiaro, esplicito e netto, per opporsi alla guerra e al razzismo, per opporsi alle stragi e alle persecuzioni.

Per destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' sufficiente apporre la propria firma nell'apposito spazio del modulo per la dichiarazione dei redditi e scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione: 93100500235.

Per contattare il Movimento Nonviolento, per saperne di piu' e contribuire ad esso anche in altri modi (ad esempio aderendovi): via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org

 

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"

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Numero 246 dell'8 maggio 2011

 

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