La domenica della nonviolenza. 243
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- Date: Sun, 17 Apr 2011 06:52:19 +0200 (CEST)
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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 243 del 17 aprile 2011
In questo numero:
1. Delitti
2. Il nucleare e' un crimine contro l'umanita'
3. Giovanna Bertelli: Diane Arbus
4. Giovanna Bertelli: Margaret Bourke-White
5. Giovanna Bertelli: Julia Margaret Cameron
6. Giovanna Bertelli: Lee Miller
7. Giovanna Bertelli: Gerda Taro
8. Giovanna Bertelli: Wanda Wulz
1. EDITORIALE. DELITTI
Fuggire dalla fame, le dittature, le guerre, non e' un delitto.
La persecuzione razzista e' un delitto.
Volere la liberta', la dignita', la giustizia, non e' un delitto.
Bombardare, mutilare, trucidare esseri umani e' un delitto.
2. REPETITA IUVANT. IL NUCLEARE E' UN CRIMINE CONTRO L'UMANITA'
[Riproponiamo ancora il seguente testo piu' volte apparso sul nostro foglio]
Ogni persona ragionevole sa che la produzione nucleare militare e' un crimine contro l'umanita'.
Ed ogni persona ragionevole sa anche che il nucleare cosiddetto civile e' strettamente legato al nucleare militare.
E sa anche quali e quanto gravi siano le implicazioni ulteriori del nucleare civile: dalla necessaria militarizzazione del territorio e della societa' per prevenire attentati alle centrali, alla questione irrisolta perche' irrisolvibile delle scorie, alle conseguenze potenzialmente apocalittiche finanche del piu' banale incidente, all'inquinamento patogeno che l'utilizzo di tale tecnologia inevitabilmente provoca.
*
L'alternativa necessaria alla guerra e alle armi e' la scelta della nonviolenza.
L'alternativa necessaria alle fonti energetiche fossili altamente inquinanti ed in via di esaurimento e' la scelta delle fonti pulite e rinnovabili: il solare innanzitutto.
Il nucleare, militare e civile, e' un crimine contro l'umanita'.
3. PROFILI. GIOVANNA BERTELLI: DIANE ARBUS
[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it
Giovanna Bertelli, "storica della fotografia e photoeditor. Ha lavorato per Electa, l'agenzia Grazia Neri, Fratelli Alinari, archivi del Touring Club Italiano, dell'Istituto Luce, dell'Ansaldo. Gia' docente a contratto (Storia della fotografia) presso l'Accademia di costume e moda di Roma, la Libera Universita' Maria SS. Assunta (Palermo), le Accademie di Belle Arti di Napoli, Palermo, Brera, oggi insegna Storia della fotografia presso l'Istituto Europeo di Design (Roma), e all'Universita' di Bari. Ha curato mostre fotografiche e libri su Tazio Secchiaroli, Federico Garolla, Federico Fellini"]
Diane Arbus (New York 1923 - 1971).
"La cosa che preferisco e' andare dove non sono mai stata".
Diane Nemerov Arbus e' tra le fotografe piu' significative e conosciute del XX secolo. La sua vita attraversa le grandi trasformazioni della societa' occidentale avvenute fra la seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta. Padre e madre, David Nemerov e Gertrude Russek, erano di origini russe e avevano un noto ed elegante negozio di abbigliamento femminile e pellicce sulla Fifth Avenue, Russek's, a pochi passi dalla boutique dei coniugi Avedon, anch'essi genitori di un talento della fotografia.
Diane cresce in una famiglia agiata, cosi' benestante da non risentire neppure della gravissima crisi del 1929. Per Diane e i suoi fratelli, il futuro poeta Howard e la futura artista Renee, i genitori scelgono le migliori scuole di New York in modo che possano sviluppare i loro interessi e la loro indole. Diane andra' alla Ethical Culture School scoprendosi sin da bambina interessata alla letteratura e alle arti visive; e' apprezzata dagli insegnanti per la sua intelligenza e dai compagni per la sua simpatia. Cresce dunque in una realta' progressista e ovattata, protetta da tutto cio' che di inquietante riserva una citta' come New York. Terminata la Ethical Culture School prosegue gli studi presso la Fieldstone School, impostata anch'essa su metodi innovativi, e li' si diploma nel 1940. Durante gli anni scolastici si appassiona alla pittura europea dell'Otto e del Novecento: conosce l'amara ironia di Grosz, le denunce di Goya, l'astrattismo di Paul Klee; i suoi genitori la incoraggiano e Diane frequenta lezioni di pittura e disegno.
E' decisamente una ragazzina sveglia e molto promettente; nel 1937 conosce Allan Arbus, figlio di un dipendente del Russek. Allan ha quattro anni piu' di lei, che ne ha solo 14, e i genitori non vedono di buon occhio lo stretto legame che si viene a creare tra i due, per motivi di eta', certo, ma anche per il dislivello sociale che li divide. Malgrado questo, spinti anche dai tanti interessi comuni e incuranti delle proteste, i due ragazzi iniziano una relazione che verra' sancita, un solo mese dopo il compimento dei 18 anni di Diane, dal matrimonio.
A quest'epoca Diane ha gia' avuto qualche esperienza depressiva, ma lei e Allan sono una coppia giovane e appassionata, anche di fotografia. Diane aveva preso lezioni da Berenice Abbott, e i due accettano di fare scatti pubblicitari per il negozio di famiglia. Organizzano la camera oscura nel bagno del loro appartamento e iniziano quello che per molti anni sara' il loro lavoro comune. Durante la seconda guerra mondiale Allan e' assegnato al reparto fotografico dell'esercito e Diane nel 1945 mette al mondo la loro prima figlia: Doon. Nel dopoguerra l'attivita' si amplia: affittano uno spazio e lo studio Diane e Allan Arbus diventa noto per la precisione e meticolosita' degli scatti; alcuni criticano questo perfezionismo, soprattutto i budget assai alti richiesti per le realizzazioni dei set, altri l'eccessiva lentezza per la consegna di un lavoro, ma la produzione dello studio e' unanimemente apprezzata e comincia a comparire su periodici importanti come "Glamour", "Vogue" o "Seventeen", e ad essere richiesta da agenzie pubblicitarie. Nel 1947 "Glamour" dedica un servizio alla celebre coppia fotografica e ne determina la notorieta' oltre la cerchia delle redazioni e degli addetti ai lavori.
Generalmente Allan e' il fotografo e Diana la stylist. La sua meticolosita' nella ricerca e nella creazione del set la rendera' nota e l'aiutera' nel futuro, quando iniziera' a fotografare da sola abbandonando la fotografia di moda e il lavoro in coppia.
Diane, in contrasto col mondo patinato che crea, si lascia libera di non rispettare i canoni di bellezza ed eleganza imposti dal glamour: porta spesso lo stesso abito, sostituisce la borsetta con gli shopper, non si cura del trucco ne' molto del proprio aspetto; talvolta le vengono assegnati dei servizi che realizza da sola, generalmente ritratti; inizia a formarsi un suo stile nella ripresa che non si ferma alla superficie di un volto.
Sono anni di grandi cambiamenti nella vita di Diane: nascera' la sua seconda figlia, Amy, nel 1954, e nel 1955 morira' la madre; nel frattempo Diane si accorgera' di non avere piu' alcun interesse per la fotografia di moda. Nel 1956 inizia a catalogare il proprio lavoro e a scattare da sola quello che vede intorno a se', soprattutto il mondo della cultura alternativa che comincia a frequentare: happening, vernissage, letture, incontri.
Abbandona completamente la moda e lo studio di Allan e si iscrive ad un corso della fotografa Lisette Model. Questo incontro e' il fulcro del cambiamento della sua vita e della sua fotografia. Lisette Model le apre una finestra su realta' per lei completamente nuove, la invita a guardare un mondo diverso e a guardarlo con i propri occhi. Per Diane e' una rivelazione. E' come se tutto si fosse capovolto. Il suo obiettivo non riesce a distogliersi da quello da cui la gente generalmente allontana lo sguardo: il diverso, l'imbarazzante, lo sgradevole, il brutto.
La sua fotografia cambia radicalmente e non solo per i soggetti. Abbandona la luce naturale e soffusa preferendole forti contrasti e luci ottenute anche con il flash (un vero insulto per l'arte fotografica a quel tempo!). Diane abbandona la fotografia di studio e si immerge dentro New York, dal centro alla periferia, fotografando soprattutto nei luoghi pubblici piu' popolari: le spiagge di Coney Island, Central Park, Times square, l'Hubert's Dime Museum e il Circo delle Pulci, le balere di Harlem e le parate in strada. Sembra spinta da una nuova curiosita', da un nuovo modo di vedere cio' che l'aveva sempre circondata. Il contrasto tra il mondo ovattato nel quale era cresciuta e l'eccesso di cui la citta' e' segno la colpisce profondamente.
Contemporaneamente trova nella lettura altri spunti: si appassiona di filosofia europea, buddismo e psicanalisi, ogni cosa che legge puo' essere un percorso per i suoi lavori futuri, per il nuovo modo di interpretare il mondo.
Nel 1959 la separazione dal marito Allan e' completa sia dal lato professionale che da quello matrimoniale; decide di andare a vivere da sola con le due figlie e, malgrado lo spirito indipendente, impieghera' ben tre anni per darne notizia ai parenti.
Forte delle conoscenze e relazioni professionali stabilitesi negli anni inizia ad avere commissionati dei servizi di reportage. "Esquire" le richiede la vita a New York in sei fotografie. Questo le permette di introdursi in ambienti altrimenti di difficile accesso e di portare avanti parallelamente il lavoro assegnato e la ricerca personale. Si avra' cosi' una commistione fotografica sempre piu' ravvicinata tra professione e passione, che presto coincideranno. Diane diventa famosa per foto difficili, che interrogano lo spettatore con sguardi difficili da sostenere. Conosce Marvin Israel che diventera' ben presto il suo piu' importante consigliere e sostenitore, cosi' come lo era stato per Richard Avedon e Lee Friedlander (a loro volta divenuti buoni amici di Diane) nonche' suo amante. E' lui che le fa conoscere il lavoro di August Sander, da cui rimane particolarmente colpita. Cosi' come Sander si era dedicato alla documentazione del popolo tedesco Diane decide di dedicarsi ai newyorkesi in una sorta di indagine antropologica. Da qui, e dalla visione dell'omonimo film di Tom Browing, "Freaks", inizia uno dei suoi lavori piu' noti, Freaks appunto, cercando i suoi soggetti nelle pieghe della citta'. Il suo non e' piu' un contatto solo visivo e fotografico, ma personale. Nel 1960 "Esquire" pubblica il suo servizio The Vertical Journey con le sue didascalie; nel 1961 "Harper's Bazaar" accettera' di pubblicare The full Circle, rifiutato da "Esquire"; nello stesso anno scattera' Il gigante, una delle sue fotografie piu' note.
Contemporaneamente Diane inizia a far uso di droghe e psicofarmaci, stringe ancor piu' amicizia con Richard Avedon e Hiro, in una sorta di mutua ammirazione professionale e ricerca di progetti comuni, propone ai periodici progetti sempre piu' vicini alla sua sensibilita', tanto che in alcuni casi per la loro crudezza non vengono accettati, mentre con facilita' pubblica i ritratti di celebrities dove viene apprezzata la sua capacita' di rendere la personalita' dei suoi soggetti. Trova favorevoli riscontri nelle istituzioni e nei musei, sia tra gli stessi fotografi sia tra i critici. Questo la sostiene, ma contemporaneamente la sua indagine la allontana sempre piu' da un itinerario tradizionale o rassicurante. Attraversa quella famelica curiosita' propria degli anni Sessanta per gli stati di coscienza e forme di affettivita' non convenzionali, dove si confondono amicizie e relazioni, dove l'uso di allucinogeni, droghe e antidepressivi e' considerato un modo per allargare i propri orizzonti. Proprio durante questo decennio la fotografia di Diane Arbus esprime una visione precisa e inconfondibile e riesce a mostrare come gli altri ci guardano. Le sue fotografie piu' celebri iniziano a farsi spazio sulle pareti di musei e gallerie. I suoi progetti si trasformano in progetti per libri, i suoi ritratti sono uno sguardo spietato sugli happy few, che infine non appaiono cosi' diversi dai freaks, sempre e comunque "animali da circo"; nel 1964 il Moma acquista sette delle sue stampe.
Nel 1965 da' avvio al suo progetto The interior landscape, inizia a stampare le sue fotografie al vivo, senza cioe' escludere neanche il bordo del negativo, e a usare con sempre piu' frequenza il flash sia di giorno sia di notte, dando cosi' alle sue fotografie una netta drammaticita'.
Insegna alla Parson School of Design ed e' invitata a convegni, workshop ed incontri di fotografia, nel 1966 fotografa alla Factory di Andy Warhol, riceve una seconda borsa di studio della Guggenheim, "Harper's Bazaar" le commissiona una serie di ritratti sugli artisti americani. Il 1966 e' anche l'anno del suo primo ricovero per epatite e delle sue famose fotografie dei gemelli (che in seguito le varranno una citazione del suo amico Stanley Kubrik in "Shining"). Nel 1967 avra' la sua prima mostra personale: New Documents al Moma. L'esposizione la consacra come fotografa, il che non la ferma: nell'estate dello stesso anno seguira' sia il movimento pacifista sia il movimento favorevole alla guerra nelle marce di protesta. Sempre nel 1967 il "New York Magazine" le commissiona un servizio su Viva, una delle superstar della Factory di Andy Warhol, il direttore vuole foto "di cui si parli". Il risultato non manchera': se ne parla cosi' tanto che gli inserzionisti si risolvono a togliere pubblicita' al giornale con un danno stimato di circa un milione di dollari.
Diane Arbus, ora accettata e celebrata, comincia ad essere invece evitata e rifiutata, considerata "non gradita" e imbarazzante.
Diane continua tuttavia a lavorare e inizia a pensare il libro Family album che sara' realizzato solo postumo nel 2003.
Resta questo un periodo difficile, ricoverata nuovamente per epatite interrompe gli psicofarmaci e cio' le causa violente crisi depressive, e continui sbalzi di umore.
In settembre, dimessa dall'ospedale, riprende con le lezioni alla Cooper Union, accetta di realizzare servizi di moda per bambini e per "Sport Illustrated".
Nel 1969 ottiene i permessi per fotografare gli interni delle strutture psichiatriche del New Jersey, e' l'inizio della serie di immagini oggi conosciute come Untitled, che restera' il suo ultimo lavoro e sara' raccolto nel volume pubblicato nel 1995. E' una serie di fotografie che ricorda molto da vicino il suo modo di fotografare di una decina di anni prima, con l'attenzione dell'indagine e la curiosita' della scoperta. Fotografa in seguito case di cura e di riposo della Social Security Administration, ha diversi altri progetti e lavori su commissione da portare avanti; sempre di piu' diventano i musei e le gallerie che acquistano le sue fotografie; tra tutti spiccano Il Metropolitan Museum of Art e La Bibliotheque National de France; per il "London Sunday Times Magazine" ritrae nove leader femministe, tra cui Betty Friedan. Sempre nel 1969 inizia una terapia psicanalitica che non prevede l'uso di psicofarmaci; continua ad alternare servizi di moda per bambini, ritrattistica per i giornali e la sua ricerca. Nel 1970 progetta e realizza il preziosissimo volume A box of ten photographs: un portfolio confezionato in una scatola di plastica, disegnata da Marvin Israel, che puo' essere usata anche come cornice, messa in vendita a 1.000 dollari nell'idea che possa interessare musei e collezionisti; delle quattro scatole vendute due saranno comprate da Richard Avedon. Sempre nel 1970 riceve il premio Robert Leavitt della American Society of Magazine Photographers.
Il 1971 lo inizia tenendo un corso trimestrale alla Westbeth Academy. L'anno continua per Diane tra alti e bassi: servizi commissionati, preparazione di mostre o convegni, l'invito alla Biennale di Venezia del 1972. Qualche volta i progetti non vanno in porto, le fotografie non sono pubblicate. Ma Diane decide che non e' piu' il momento di andare avanti e nella notte tra il 26 e il 27 luglio si toglie la vita nella vasca da bagno, sara' Marvin Israel a trovarla due giorni dopo.
Nel 1972 le sue foto saranno alla Biennale di Venezia: per la prima volta, la fotografia americana arriva in Laguna.
L'intero archivio di Diane Arbus e' conservato presso il Metropolitan Museum di New York.
Fonti, risorse bibliografiche, siti: Diane Arbus, An Aperture Monograph, New York, 1972, Aperture (oltre 450.000 copie stampate); Patricia Bosworth, Diane Arbus, A Biography, New York 1984, 1995 e 2005, Newton & Co.; Diane Arbus, Magazine Work, New York 1984, Aperture; Diane Arbus, Untitled, New York, 1995, Aperture; Diane Arbus, Family Albums, 2003 Yale Universiity Press. Il film Fur (2006), interpretato da Nicole Kidman e' sceneggiato sulla sua vita. Una selezione delle sue foto in rete: http://diane-arbus-photography.com/ . Cfr. anche la voce a lei dedicata nella Wikipedia.
4. PROFILI. GIOVANNA BERTELLI: MARGARET BOURKE-WHITE
[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]
Margaret Bourke-White (New York 1904 - Darine 1971).
Nasce a New York il 14 giugno del 1904, e cresce in una famiglia borghese. Si iscrive alla Columbia University attratta dalle scienze naturali, ma presto, grazie al corso tenuto da Clarence White (omonimo ma non parente e tra le figure piu' importanti del fotosecessionismo) orienta la sua attenzione verso la fotografia.
Gia' da ragazza manifesta l'essenza del suo carattere e della sua vita: l'ambizione, l'indipendenza e inevitabilmente l'irrequietezza. Non le bastera' mai essere la migliore, la piu' apprezzata e versatile tra le fotografe della sua generazione, vorra' essere sempre la prima. Cambia diverse universita' fino a laurearsi nel 1927. Nel frattempo si sposa, nel 1925, con Everett Chapman, dal quale divorzia due anni dopo. Nel 1928 decide di trasferirsi in Ohio e li' apre uno studio fotografico, specializzandosi nella fotografia d'architettura, di design e industriale. A Cleveland ha numerosi clienti, tra cui le acciaierie Otis, che le danno fiducia, ma anche notorieta'. Le sue fotografie degli altiforni, le astrazioni geometriche che le permettono le architetture industriali, ne fanno una delle fotografe piu' apprezzate anche nell'ambito della ricerca artistica. Si puo' considerare la Bourke-White la prima fotografa industriale famosa e tra i primi fotografi a dare rilievo artistico alla fotografia industriale. Per scattare sale sui cornicioni dei grattacieli piu' alti, sorvola citta', si spinge nelle zone piu' pericolose degli stabilimenti. La sua ostinazione e ambizione infatti non la fermano davanti alle alte temperature delle fusioni, alla ricerca di nuove soluzioni tecniche fotografiche, ne' la allontanano da lunghe ore di lavoro in ambienti malsani. Le sue immagini presto iniziano non solo ad arricchire di documenti fotografici gli archivi industriali e il suo portafogli, ma anche i servizi delle riviste illustrate e le pagine pubblicitarie.
Cosi' nel 1929 ha inizio la sua collaborazione con la rivista "Fortune" e la sua nuova ambizione e' di essere la "migliore" tra le fotogiornaliste. Nel 1930 e' la prima fra i fotografi occidentali a recarsi in Urss, realizzando reportage sull'industria sovietica. Nel 1935 e' chiamata da Henry Luce a far parte della redazione fotografica del nuovo rotocalco "Life" e sua e' la prima copertina della rivista: una fotografia dell'imponente diga di Fort Peck nel Montana, a simboleggiare il New Deal rooseveltiano. Il suo obiettivo in questi anni e' infatti sempre piu' vicino all'emergenza sociale degli Stati Uniti; sua ad esempio e' la celebre fotografia della fila di persone di colore, in attesa della distribuzione di un pasto, sovrastati dalla pubblicita' di una automobile con a bordo la tipica famiglia americana wasp e la frase "World's highest standard of living".
Nel 1937, insieme allo scrittore di successo Erskine Caldwell, che nel 1939 diventera' il suo secondo marito (il matrimonio durera' fino al 1942), pubblica il volume illustrato You have seen their faces sulle tragiche condizioni di vita nelle campagne americane devastate dalla siccita', dalla carestia, dalla miseria. Il libro viene contestato da piu' parti perche' presenta una realta' molto piu' edulcorata della realta' tragica che altri fotografi avevano mostrato, ma ebbe ugualmente successo cosi' come i seguenti due libri che pubblico' con Caldwell: North of the Da nube (1939) e Say, is this the Usa (1941).
Negli stessi anni, sempre per "Life" e' inviata in Europa: in Germania, Austria e Cecoslovacchia per documentare l'avanzata del nazismo e la guerra incombente.
Nel 1941 e' per la seconda volta, con Caldwell, a Mosca. I suoi movimenti sono strettamente sorvegliati e fotografa soprattutto la vita cittadina. Nondimeno riesce ad inviare uno scoop alla redazione: in Unione Sovietica non vige l'ateismo. Un servizio di 12 pagine che servi' a "Life" per presentare l'Urss non piu' come il pericolo rosso, ma come possibile alleato antinazista. Le fotografie della Bourke-White mostrano una chiesa ortodossa ed una protestante nel centro di Mosca. Riesce anche a ritrarre Stalin sorridente e bonario. Ancora: Margaret il 19 luglio 1941 e' l'unico fotografo straniero in citta'. Il primo attacco aereo dei tedeschi sulla capitale, il bombardamento notturno, i tracciati dei bengala. Tutto questo vede e fotografa Margaret dal tetto dell'ambasciata americana, posizionando cinque apparecchi con lunghi tempi di posa, commentando che sarebbe potuta essere "una delle notti eccezionali della sua vita". Ancora una volta prima, le sue foto furono presentate da "Life" con grande sensazionalismo.
Rientrata negli Usa Margaret impone la sua volonta' di diventare reporter di guerra sulla prima linea del fronte. Mai nessuna donna era stata accreditata dall'esercito americano sui teatri di guerra, ma la determinazione della fotografa insieme alla forza di persuasione che poteva avere una rivista come "Life", la piu' diffusa sul territorio statunitense, hanno la meglio. Margaret Bourke-White e' accreditata al pool fotografico dell'esercito, viene disegnata appositamente per lei un'uniforme che ha sulle mostrine la sigla WC (sic!) cioe': war corrispondent e viene mandata in prima linea. Anche li' i problemi logistici non mancano, essendo l'unica donna tra soldati, marinai, aviatori. Letto, tenda, bagno: in prima linea non si puo' certo indulgere nei particolari ritenuti piu' adatti per una signora e ben presto il suo soprannome tra le truppe sara' "Il materasso del generale", mentre lo staff di "Life" con piu' ammirazione la definisce "Maggie l'indistruttibile". Sicuramente Margaret Bourke-White in guerra ha dato il meglio di se' sia come donna sia come fotografa. Il suo obiettivo si ferma sui campi di battaglia, sui momenti di riposo, gli ospedali da campo, i bombardamenti. Fotografa il Nord Africa, la lenta risalita dell'Italia diventata un fronte secondario dopo lo sbarco in Normandia; e soprattutto con la sua pellicola ferma i tragici momenti dell'arrivo degli americani guidati dal generale Patton a Buchenwald. Le immagini dei volti increduli oltre il filo spinato, dei forni crematori, delle baracche dei lager non sono semplicemente fotografia, ma documenti storici di enorme valore. Lei stessa davanti allo strazio della realta' dichiara di aver scattato senza guardare, che l'obiettivo le serve come barriera tra se stessa e l'agghiacciante verita' dell'orrore che ha di fronte.
Al ritorno dalla guerra non mancano i libri con le sue fotografie: They called it Purple heart Valley, sulla campagna d'Italia e Dear Fatherland, Rest Quietly.
Margaret non consente alla sua fama ormai mondiale di indurla a riposare e continua a fotografare il mondo. Anche per questo non le si assegnano servizi fotografici gia' previsti, ma ne vengono pensati appositamente per lei.
Nel 1947 e' in Pakistan e in India, nuovo centro di tensioni nel momento della nascita dei due Stati: intervista e fotografa Gandhi solo poche ore prima che venga ucciso. Nel 1950 e' in Sud Africa: descrive l'apartheid e scende due miglia sottoterra per ritrarre il lavoro dei minatori d'oro; e' in Corea subito dopo la firma dell'armistizio, a documentare la guerriglia e la popolazione civile ancora una volta in guerra. E' sempre prima, sempre la migliore, ogni suo libro un successo. Ma il morbo di Parkinson inizia il suo corso. Nel 1957 firma il suo ultimo servizio per "Life".
Nel 1963 scrive l'autobiografia Portrait of myself. Gli ultimi anni vive ritirata nella sua casa in Connecticut, con i pochi soldi messi da parte spesi per le cure mediche. Morira' sola, ma non dimenticata, nel 1971, a 67 anni.
Bibliografia: Vicky Goldberg, Margaret Bourke-White, a biography, 1986; Alessandra Mauro e Sara Antonelli (a cura di), Margaret Bourke White, il mio ritratto, 2003.
5. PROFILI. GIOVANNA BERTELLI: JULIA MARGARET CAMERON
[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]
Julia Margaret Cameron (Garden Reach 1815 - Ceylon 1879).
Julia Margaret Pattle, nota con il cognome Cameron, era nata a Garden Reach, nei pressi di Calcutta, nel 1815, quando sull'impero britannico non tramontava mai il sole. Figlia di un ufficiale inglese della British East India Company e di un'aristocratica francese, Adeline de l'Etang, appena in eta' scolare fu mandata dalla famiglia a Parigi e Londra per ricevere un'educazione e un'istruzione europea appropriate al suo rango.
Nel 1836, in convalescenza presso il Capo di Buona Speranza, conosce Charles Hay Cameron, un legislatore e uomo d'affari di base a Ceylon, di circa venti anni piu' grande di lei e gia' vedovo. Si sposano. Julia Margaret, nel corso degli anni, avra' sei figli e attrettanti ne adottera'. Nel 1848 la famiglia Cameron rientra in Inghilterra stabilendosi prima a Londra e in seguito, nel 1860, sull'isola di Wight. Il ritorno in Inghilterra permette a Julia Margaret di frequentare ed entrare a far parte della cerchia di intellettuali, artisti e scienziati piu' illustri del tempo.
Nel 1863, i figli sono ormai grandi e il marito deve rientrare a Ceylon per seguire gli affari. La vita di Julia Margaret si svuota aprendo spazio alla noia, rischiando di scivolare nella malinconia. La figlia maggiore, Julia, le regala un apparecchio fotografico con l'idea che un hobby possa aiutarla a distrarsi. La dagherrotipia e la talbotipia erano state presentate ufficialmente, rispettivamente in Francia e Inghilterra, pochi anni prima, nel 1839-40; e a questi primi processi fotografici, da circa un decennio, si era sostituito il negativo su lastra di vetro con emulsione al collodio. L'arte della fotografia ha ancora un aspetto artigianale, piu' che artistico, ancora lontano dagli interessi industriali e dalla sua massificazione. I fotografi sono generalmente uomini e lavorano su commissione di un cliente o con la prospettiva di proporre commercialmente le loro immagini. Gli atelier sfornano ritratti e gli stabilimenti paesaggi. Alcuni fotografi coraggiosi si avventurano per il mondo fotografando guerre, popoli e meraviglie lontane. Nella fotografia si ricerca soprattutto l'aderenza al reale, la perfezione nei dettagli, lo stupore nel constatare che riporta su un piccolo rettangolo la verita' per quello che appare e per quel che e', senza interpretazioni. La Cameron e' conquistata dal regalo piu' di quanto chiunque potesse immaginare. La fotografia si trasforma in una vera e propria passione, senza alcun fine redditizio ne' interesse a mostrare le sue fotografie al di fuori della cerchia dei familiari e degli amici. Ben presto la sottile ossessione si impadronisce di lei. Organizza il suo laboratorio con camera oscura in quella che lei ribattezza Glass House: altro non era che un pollaio da cui aveva sfrattato le galline, chiuso da vetrate e tendaggi; inizia a sperimentare. Quando finalmente riesce a realizzare la prima fotografia (dalla preparazione della lastra, alla posa, lo scatto, lo sviluppo e la stampa), un ritratto di Annie, una bambina di casa, corre eccitata per le stanze a cercare un dono per la sua piccola modella e per mostrare a tutti il risultato che da allora cerchera' sempre di perfezionare.
La sua tecnica era considerata carente, e in effetti spesso i suoi negativi sono rovinati e mal preparati, ma il gusto compositivo era fuori discussione. Scelse di dedicarsi al ritratto interpretato secondo il suo modo, che poi rispecchiava molto quello della pittura preraffaellita a lei contemporanea. I suoi soggetti preferiti erano i bambini e gli adolescenti: nipoti e altri bambini venivano convinti a lunghe sessioni di posa con la promessa di un premio e via via Julia Margaret Cameron adattava su di loro atteggiamenti, pose, drappi, e anche piccole ali, coroncine, panneggi, cosi' da farne delle visioni realistiche di idealizzazioni dell'infanzia e dell'innocenza. I bambini e gli adolescenti sono "usati" soprattutto per rappresentazioni allegoriche di racconti o romanzi. Lo stesso Lewis Carroll, anche lui fotoamatore oltre che pastore e scrittore, apprezzo' alcune sue fotografie, non mancando di stroncarne decisamente altre. Lord Alfred Tennyson, ritratto da lei, le chiese una serie di fotografie per illustrare il suo componimento Idylls the king.
Le fanciulle della Cameron avevano sempre un aspetto sognante e pensoso, a volte tormentato, tipico del romanticismo. Ma quello che caratterizza piu' di ogni altra cosa la sua fotografia e' la tecnica con cui Julia Margaret raggiunge il risultato. Le sue fotografie sono volontariamente sfocate, ombrose, poco delineate e, spesso, ovali. Da un lato, soprattutto all'inizio, dai critici piu' severi, questo viene interpretato come un errore tecnico e il segno di una scarsa padronanza del mezzo, anche se apprezzano la composizione formale dell'immagine. La Cameron pero' risponde alle critiche opponendo alcune spiegazioni decisamente originali, giustificandole con nuove, per l'epoca, motivazioni. Lei non si limita a riprodurre il reale: lo interpreta cosi' per come effettivamente appare alla mente: i contorni nella nostra messa a fuoco sono sfumati, circolari, e solo una minima porzione di cio' che vediamo e' realmente a fuoco. La sua idea rivoluzionaria e' che la fotografia deve allontanarsi dall'essere uno strumento di riproduzione meccanica, che il fotografo deve avere la liberta' di interpretare e creare la propria visione del mondo; vuole nelle fotografie avvicinarsi il piu' possibile a come i nostri occhi effettivamente vedono. Con la Cameron nasce cosi' la ricerca artistica nella fotografia; la fotografia si allontana dalla commercializzazione e dalla ricerca del consenso, ma viene realizzata per se' e per chi puo' comprenderla. E' interessante sottolineare questo per piu' aspetti: la ricerca artistica in fotografia non nasce da esigenze di mercato, ma da ricerche assolutamente personali; muove i suoi primi passi tra i fotografi dilettanti, o fotoamatori. La prima che coglie le potenzialita' di espressione artistica e' una donna, quando fino a pochi anni prima si sosteneva che, a causa dei laboriosi procedimenti, mai una donna sarebbe stata fotografa.
Julia Margaret Cameron e' ricordata anche per i ritratti a personaggi assai noti che posano davanti al suo obiettivo. Contemporaneamente al suo quasi coetaneo e piu' celebre Nadar (nato nel 1820) la Cameron fotografa i tanti che vivono con lei sull'isola di Wight. Con i suoi plastici chiaroscuri riesce a cogliere l'essenza di un volto, di un'espressione o un'emozione con vera sensibilita', anche se con estenuanti sessioni fotografiche. Tra questi ritratti non si possono scordare quelli di Charles Darwin, William Michael Rossetti, Robert Browning, Julia Jackson (la sua figlia maggiore, a sua volta madre di Virginia Wolf), John F. W. Herschel (tra i piu' noti scienziati dell'epoca: e' lui a coniare i termini "negativo" e "positivo" per la fotografia, e spesso consiglia la Cameron per le sue riprese).
Le fotografie della Cameron diventano presto famose oltre la cerchia di amici e iniziano ad essere esposte nelle mostre d'arte (a quei tempi pittura e fotografia venivano presentate insieme come "belle arti") ottenendo ampi consensi dal pubblico. Sara' la prima donna ammessa alla Royal Photographic Society e questo le permette di confrontarsi con gli altri fotografi, primo tra tutti Rejlander. La fotografia della Cameron infatti interpreta al meglio lo stile vittoriano, tanto da far dire che la sua fotografia si avvicina alla pittura. E' cosi' che dopo di lei prendera' il sopravvento nella ricerca fotografica la corrente del Pittorialismo che sara' alla base della fotografia artistica fino ai primi del '900.
Ma il tempo della notorieta' e' breve. Nel 1875 i Cameron ritornano a Ceylon e li' Julia Margaret, anche per problemi legati alla difficolta' di reperire i materiali, abbandona la sua passione. Muore nel 1879. Le sue opere sono oggi conservate a Dimbola Lodge, la tenuta in cui visse e che oggi e' un museo a lei dedicato sull'isola di Wight, ma anche nelle piu' importanti collezioni pubbliche.
Bibliografia: Cox, J., Ford, C., Wright, Ph., Lukitsh, J., Julia Margaret Cameron: The Collected Photographs, Getty Publications 2002; Lukitsh, J. et al., Cameron, Julia Margaret, Phaidon Press 2001; Wolf, S. et al., Julia Margaret Cameron's Women, The Art Institute of Chiacago and Yale University Press, New Haven and London 1998; Hamilton, V., Cameron, J. M., Annals of My Glass House: Photographs by Julia Margaret Cameron, University of Washington Press 1997; Cox, J., Julia Margaret Cameron: Photographs from the J. Paul Getty Museum, J. Paul Getty Museum Publications (In Focus) 1996; Oliphant, D., Gendered Territory: Photographs of Women by Julia Margaret Cameron, University of Texas 1996; Mulligan, T. et al., For My Best Beloved Sister Mia: An Album of Photographs, University of New Mexico Press 1995; Wolf, S., Levine, A., Focus: Five Women Photographers: Julia Margaret Cameron / Margaret Bourke-White / Flor Garduno / Sandy Skoglund /Lorna Simpson, Albert Whitman & Co 1994; Weaver, M., Julia Margaret Cameron 1815-1879, A & C Black Publishers 1991; AA. VV., Julia Margaret Cameron, Fabbri Editori, I grandi fotografi 1987; Cameron, J. M., The Cameron Collection: An Album of Photographs Presented to Sir John Herschel, Bookthrift Co 1975.
6. PROFILI. GIOVANNA BERTELLI: LEE MILLER
[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]
Lee Miller (Poughkeepsie, New York 1907 - Farley Farm House 1977).
Lee Miller ha occupato, negli ambiti che ha attraversato, posizioni per cosi' dire opposte: tanto da essere allo stesso tempo protagonista di primo piano e personaggio defilato del suo tempo, esaltata e allo stesso tempo celata da chi lavorava con lei, modella e fotografa.
Nasce a Poughkeepsie, nello stato di New York, in una famiglia borghese; il padre, inventore, ha un interesse particolare per la fotografia e ben presto sceglie la figlia come modella per i suoi scatti, oltre ad introdurla ai segreti della ripresa e del laboratorio.
A soli sette anni subisce uno stupro da parte di un amico di famiglia.
A 19 anni, attraversando una via di New York, Conde' Nast in persona, il fondatore del colosso editoriale proprietario di "Vogue" e "Vanity Fair", nota la sua bellezza e frena l'automobile su cui viaggia. Lee Miller diventa una fotomodella di "Vogue". E' fotografata da Edward Steichen, il piu' noto ritrattista del tempo e fotografo capo di "Vogue" e "Vanity Fair", da Heunyngen-Heune e Arnold Genthe. Il volto di Lee si affaccia dalle copertine delle riviste per signore. E' tra le piu' famose ed apprezzate fotomodelle, la sua bellezza non passa inosservata. Nel 1928 e' coinvolta in uno scandalo commerciale: un suo ritratto a figura intera, scattato da Steichen, e' utilizzato per una pubblicita' di assorbenti femminili. E' la prima volta che l'immagine di una donna e' associata ad un prodotto cosi' intimo e le proteste non passano inosservate. Neanche Lee inizialmente approvera' la scelta di Steichen, ma poi si ricredera' andando fiera di aver contribuito ad abbattere un tabu' tra i più radicati nella societa'.
Nel 1929 si trasferisce in Europa: a Roma e Firenze studia l'arte e la sua storia, a Parigi e' modella per la redazione di "Vogue-France" e vive nella citta' culturalmente piu' vivace di quegli anni. Frequenta il mondo della moda e degli artisti; e' fotografata e fotografa lei stessa. Ha un proprio studio, partecipa a mostre, posa come fotomodella per Man Ray e ben presto diventa la sua musa, la sua assistente, la sua amante. E' con Lee Miller che Man Ray sperimenta e mette a punto il processo di solarizzazione della stampa fotografica; lo aiuta posando per lui e assistendolo in laboratorio. Si pensa che diverse delle solarizzazioni firmate Man Ray siano state effettivamente realizzate da Lee. Nel frattempo conosce Aziz Eloui Bey, un ricco egiziano. La relazione con Man Ray si interrompe nel 1932. Lee torna a New York ed apre un suo studio.
Ritrattista di grande successo, nel 1934 decide di chiudere l'atelier per sposarsi con Aziz Eloui Bey, e si trasferisce al Cairo; fotografa il deserto e le rovine dell'antico Egitto in uno stile fotografico che alterna fotogiornalismo e suggestioni accademiche. Durante un viaggio a Parigi nel 1937 conosce Roland Penrose. Iniziano a lavorare insieme in Grecia e Romania e il sodalizio diventa anche una relazione d'amore. Nel 1939 Lee lascia l'Egitto e si trasferisce a Londra poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Malgrado gli inviti del governo americano a rientrare in patria Miller decide di restare a Londra con Penrose; riesce ad essere accreditata da "Vogue" come corrispondente di guerra. Inizia per lei una nuova epoca. Lei e Margaret Bourke-White, anche se non lavoreranno mai insieme, saranno le uniche donne accreditate presso l'esercito degli Stati Uniti come corrispondenti di guerra. Lee Miller non avra' la temerarieta' e le ambizioni di Margaret, ma restituira' un'altra prospettiva femminile del fronte di guerra. Se fino al 1944 fotografera' Londra, le incursioni e i bombardamenti sull'Inghilterra del sud, dopo lo sbarco in Normandia arrivera' in Francia e seguira' le truppe nell'avanzata verso Parigi e Berlino. La battaglia di St. Malo, l' Alsazia, l'incontro a Turgau tra americani e russi. Fotografera' Monaco, Vienna, l'Ungheria. Lavorera' in team con David Scherman, fotoreporter di "Life": insieme affronteranno battaglie e liberazioni. Lee Miller fotografera' l'entrata degli Alleati nel campo di Dachau e sara' fotografata da Scherman mentre si lava nella vasca del bagno privato di Hitler.
La guerra sara' un'esperienza che la segnera' pesantemente. Continuera' a fotografare ancora per un paio di anni per "Vogue", ma la depressione post bellica e l'alcool pare abbiano la meglio sulla sua volonta'. Sara' con l'aiuto di Penrose e dei vecchi amici surrealisti, primo tra tutti Man Ray, che riuscira' ad uscirne. Nel 1947, in attesa di un figlio, divorzia da Aziz Eloui e sposa Penrose. Con lui pubblichera' le biografie di Picasso, Miro', Tapies, Man Ray, tutte corredate da sue fotografie. Continua a fotografare e scrivere per "Vogue": ritratti, arte, moda. Nel 1955 sara' chiamata da Steichen per la mostra collettiva The Family of Man.
Il suo ricordo rimarra' per sempre legato agli anni della sua gioventu', quando era tra le piu' belle e apprezzate fotomodelle. Nel 1977 morira' a Farley Farm House, nel Sussex, nella casa comprata con Penrose nel 1949, meta e punto di riferimento per tanti artisti.
Bibliografia: Anthony Penrose, The Lives of Lee Miller, 1985 (edizione italiana: Milano, Archinto 2009); Lee Miller (a cura di Anthony Penrose e David Scherman), Lee Miller's war, 1992; Richard Calvocorresi, Lee Miller, Portraits from a life, 2002.
7. PROFILI. GIOVANNA BERTELLI: GERDA TARO
[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]
Gerta Pohorylle detta Gerda Taro (Stoccarda 1911 - Brunete (Spagna) 1937).
La vita di Gerda Taro, finita in fretta nel 1937, e la sua figura professionale resteranno per sempre legati all'antifascismo, alla guerra civile spagnola, ai servizi fotografici dal fronte e a Robert Capa, con cui ha condiviso amore e lavoro, da quando lo conobbe sino alla morte.
Nata a Stoccarda nel 1911 da una famiglia ebrea di origine polacca Gerta Pohorylle e' inevitabilmente coinvolta nell' ascesa del nazismo in Germania, al quale si oppone apertamente; viene arrestata nel 1933 con l'accusa di attivita' sovversiva e propaganda antinazista.
Tornata in liberta', Gerta decide di cercare rifugio a Parigi, dove sempre piu' artisti, intellettuali e fotografi si sono trasferiti e continuano a giungere, mossi dalle sue stesse motivazioni e dal fervore artistico che caratterizza la capitale francese in quegli anni. Non era ancora pensabile che l'esercito nazista potesse un giorno occupare Parigi, che sembrava una citta' sicura e democratica, una roccaforte di liberta'. Fu a Parigi che Gerta ebbe l'incontro che le cambio' per sempre la vita. Come lei, partendo dall'Ungheria e dopo un breve soggiorno in Germania, era giunto a Parigi anche Endre Friedmann, di appena due anni piu' giovane e fotografo; aveva francesizzato il suo nome in Andre' e gia' raggiunto una certa notorieta' per avere realizzato, nel 1932, lo scoop fotografico di Trotskij che parlava agli studenti universitari di Copenhagen. Era quello che oggi si direbbe un free lance, come molti che si presentavano nelle redazioni parigine e proprio Gerta gli suggeri' un piccolo espediente: passare entrambi per assistenti del noto (ma inesistente) fotografo americano Robert Capa, troppo impegnato a fotografare per mantenere i contatti con le redazioni. L'assonanza del nome con quello del celebre regista Frank Capra e l'aura che sempre circondava i fotografi d'oltreoceano permise a Friedmann-Capa e Gerta-Gerda Taro (anche il suo nome d'arte richiamava una certa assonanza con quello di Greta Garbo) di essere considerati con maggiore attenzione; ben presto i loro pseudonimi divennero una presenza fissa sui maggiori settimanali francesi. Le loro foto erano firmate indifferentemente Capa o Taro: questo rende ancora oggi difficile distinguere quelle dell'uno da quelle dell'altra.
Nel 1936 la rivista "Vu" li ingaggio' per documentare la guerra civile spagnola ed insieme partirono verso i fronti, scegliendo come punto di vista la guerra dalla parte della popolazione civile e il fronte dei repubblicani. Le loro fotografie venivano pubblicate dal settimanale e dai quotidiani, in particolare "Ce Soir", con la firma di entrambi. Anche la nuova e gia' importante rivista "Life" pubblico' le loro immagini.
Solo negli ultimi anni, cercando di distinguere la produzione della Taro da quella di Capa, ci si e' meglio soffermati sulla individuazione del lavoro della fotografa. Un buon criterio, anche se non infallibile, e' distinguere i formati dei negativi: Gerda infatti usava prevalentemente un apparecchio con negativo 6x6, ma e' nell'inquadratura che le differenze si fanno evidenti. Gerda difficilmente si pone al centro dell'azione per fotografare alla pari con chi le sta attorno, ma cerca sempre una posizione che le permetta una composizione completa della scena, cosi' da renderla il piu' descrittiva possibile. Il suo impegno politico faceva si' che considerasse la fotografia non come fine a se stessa, arte e o mestiere che fosse, ma come una forma di militanza vera e propria, di testimonianza utile di quei giorni cruciali. Nei ritratti tende sempre ad esaltare la figura dei combattenti con angolazioni prese dal basso e l'isolamento del soggetto. Nel racconto della battaglia, invece, si pone come testimone oculare. La sua e' una visione diretta senza alcuna ricerca di effetti, ma con l'accuratezza di far sentire il proprio punto di vista come quello di chi sta guardando l'immagine. Le sue fotografie sono ancora oggi tra i documenti visivi piu' importanti della guerra civile spagnola vista dalla parte dei combattenti repubblicani.
Soprattutto, pero', bisogna ricordare che Gerda Taro e' considerata la prima donna fotografa impegnata in prima linea e purtroppo anche la prima a morire in guerra. Non una morte eroica, ma banale, come e' spesso la morte e come sara' molti anni dopo anche per Capa.
Durante un trasferimento il camion su cui viaggia si scontra con un altro mezzo e lei, cadendo dal predellino su cui si trova, viene travolta da un carrarmato. Trasportata all'ospedale di Brunete ancora in vita, muore dopo poche ore, il 27 luglio del 1937.
La sua scomparsa viene accolta con grande partecipazione in tutto il mondo. Dagli spagnoli, dai suoi colleghi, primo tra tutti Capa - che probabilmente non si riprendera' mai dal lutto -, dalla comunita' artistica parigina. La salma sara' trasportata a Parigi e un lungo corteo funebre voluto dal Fronte Popolare la seguira' fino al cimitero di Pere-Lachaise dove sara' sepolta il primo agosto: il giorno del suo ventiseiesimo compleanno. La pietra tombale sara' disegnata per lei da Alberto Giacometti. I nazisti, una volta occupata Parigi, non persero l'occasione di sfregiare la sua tomba distruggendola: quella di una loro connazionale che aveva scelto la democrazia e la liberta' combattendo contro il fascismo con le sue fotografie. Morta per la liberta' e la fotografia. Oggi la sua lapide porta solo il suo nome, Gerda Taro, e due date, 1911-1937.
8. PROFILI. GIOVANNA BERTELLI: WANDA WULZ
[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]
Wanda Wulz (Trieste 1903 - 1984).
Wanda Wulz nasce a Trieste nel 1903, quando la citta' e' centro dell'irredentismo italiano e della cultura internazionale, punto nevralgico per l'impero austroungarico di cui e' il maggiore porto e sbocco sul mare.
Trieste proprio nel corso del XIX secolo attraversa una fase di crescita ed espansione mai conosciuta prima e lo Studio Fotografico Wulz, aperto da Giuseppe Wulz nel 1868, nei primi decenni del XX secolo e' un luogo conosciuto e consolidato nelle tradizioni della citta'.
Wanda, insieme alla sorella Marion, e' quindi figlia d'arte: nipote del fotografo Giuseppe (1843-1918) e figlia del fotografo Carlo (1874-1928) inevitabilmente viene indirizzata a proseguire l'attivita' di famiglia.
Wanda e Marion lavorano inizialmente con il padre, sia come fotografe sia come modelle, e alla morte di lui nel 1928 diventano le titolari dello studio continuando la tradizione del ritratto, delle vedute della citta', dei servizi commissionati da opifici e cantieri.
Fotograferanno ininterrottamente fino al 1981, quando cessano l'attivita' e cedono il loro archivio alla Fratelli Alinari.
Wanda e' l'unica della famiglia che accanto alla consueta attivita' di atelier e stabilimento cerca una propria chiave di lettura e interpretazione della realta' e della fotografia.
Sul finire degli anni Venti si interessa al fotodinamismo dei fratelli Bragaglia e al movimento futurista e i risultati della sua ricerca sono il frutto di lunghe sessioni in camera oscura in cui realizza fotomontaggi, fotoplastiche e fotodinamiche di ottima qualita' e grande effetto. Nel 1932 partecipa alla mostra futurista di Trieste con alcuni suoi lavori. E' qui che, malgrado la sua nota misoginia, la nota e apprezza Filippo Tommaso Marinetti che la coinvolge in altre esposizioni. Questo successo la sprona nella sua ricerca che la vede unica donna in Italia protagonista della fotografia futurista, nota in tutto il mondo. La sua immagine piu' famosa e' sicuramente io+gatto, una stampa ottenuta dall'assemblaggio di due negativi realizzando una fusione perfetta tra il suo volto e il muso del suo gatto.
Ma altre immagini sono giunte a noi come Wunderbar, jazz-band, esercizio ginnico o colazione futurista; in ognuna e' dimostrata la capacita' tecnica, la sperimentazione, la volonta' e il piacere di confrontarsi e far parte delle avanguardie artistiche.
Il periodo dedicato alla ricerca artistica sara' breve e nel corso di pochi anni Wanda tornera' ad interessarsi solo alla fotografia dell'atelier di famiglia; continuera' la sua attivita' in collaborazione con la sorella fino al 1981 quando entrambe si ritireranno dalla vita professionale e in mancanza di eredi lasceranno il loro intero patrimonio fotografico alla Fratelli Alinari di Firenze. La sua intera produzione e' conservata al Museo Nazionale della Fotografia Fratelli Alinari, ma le sue fotografie sono presenti nelle collezioni dei piu' importanti musei del mondo.
Bibliografia: Elvio Guagnini e Italo Zannier (a cura di), La Trieste dei Wulz, Firenze, Alinari I.D.E.A. 1989.
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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
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Numero 243 del 17 aprile 2011
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